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VIII-IX secolo

La miniatura – Carlo Magno incoronato imperatore nell'anno 800 dal papa Leone III – è tratta dalla c. 97 della sontuosa Grandes chroniques de France (F-Pn, Français 2813) redatta per Carlo V (1338-1380). Il libro, compilato nell'abbazia di Saint Denis quale continuazione del Roman des rois (1274) e poi proseguito fino al 1461, può considerarsi la base storiografica del riconoscimento della Francia quale nazione, il cui padre fondatore è senz'altro Carlo Magno.

IL SACRO ROMANO IMPERO DI CARLO MAGNO
– L'accordo fra due stati cattolici da poco costituiti, quello Franco e quello della Chiesa, converge contro i Longobardi.
Carlo Magno, ereditato il trono di Francia (768), comincia una politica espansionista che, con l'appoggio del Papato, gli permetterà di occupare l'intera Europa centrale e, la notte di Natale dell'anno 800, farsi incoronare imperatore del Sacro Romano Impero.
– Alla morte di Carlo Magno (814) il Sacro Romano Impero è ereditato da Ludovico il Pio i cui tre figli entreranno in guerra fra loro e con il padre per la spartizione del terrritorio imperiale.
– Con la spartizione di Verdun (843) l'Impero è diviso fra i tre figli di Ludovico il Pio: Carlo il Calvo, Lotario e Ludovico il Germanico.
– Alla morte di Lotario (855) la sua parte sarà ulteriormente suddivisa fra Lotario II, Carlo il Giovane e Ludovico II (l'Italia).

800 d.C.
| L'accordo che i Franchi fecero con la Chiesa non fu solo d'immagine. Parallelamente alla politica espansionistica fu incentivata, soprattutto nel territorio della Loira, la costruzione di nuovi monasteri e cattedrali che, coinvolti nell'amministrazione dello stato, produssero presto scuole e scriptoria. È di questo periodo la proliferazione di testi scritti, agevolata dalla codificazione di una grafia minuscola, detta poi carolina, la cui immediatà leggibilità ne decretò il successo in tutto l'Impero.

LA MUSICA
– L'urgenza di unità, anche religiosa (forse sollecitata dalla pressione musulmana), induce i franchi ad abbandonare il rito gallicano e accogliere quello romano.
– È probabilmente la rivoluzione più importante di tutto il medioevo: la necessità d'imparare su vasta scala e improvvisamente un nuovo rito produrrà il proliferare di teorie didattiche che condurranno alla definizione di un sistema modale e di una notazione musicale (non per nulla teorici e centri scrittorii saranno tutti Oltralpe).

 

Il canto romano passa le Alpi

da: Storia della musica. 1. Dal Medioevo al Rinascimento, a cura di Marie-Claire Beltrando-Patier (Paris 1982), trad. it. Roma 1986, pp. 25-31.

Nel 752-753, Crodegango, vescovo di Metz, uno dei più grandi uomini del regno [Franco], parente stretto di Pipino il Breve, del quale condivide i progetti di unificazione politico-religiosa, si reca a Roma per seguire nel [successivo] viaggio in Gallia il papa Stefano II. Il nuovo pontefice vede la sua situazione territoriale sempre più minacciata dall'espansione del regno longobardo. Il sostegno del re dei Franchi gli è indispensabile. Cosicché accetta di buon grado l'idea di un viaggio sulle rive dell'Oise e della Senna. Accompagnato da un seguito di funzionari romani e scortato da Crodegango, Stefano II arriva il 6 gennaio 754 a Ponthion, residenza di Pipino il Breve, prima di raggiungere l'abbazia di Saint-Denis, in cui soggiornerà più di un anno e di cui benedirà le fondamenta.

La data di questo viaggio è il termine a partire dal quale si può rilevare, a Metz in primo luogo sotto la diretta influenza di Crodegango, ma anche in numerosi altri centri religiosi del regno (Rouen, Lyon, Lorsch, Corbie...) un importantissimo rimaneggiamento delle liturgie e dei canti liturgici. Tutto deve avvenire ormai more romano, cioè secondo lo spirito e, fino a un punto che resta da stabilire, secondo la lettera dell'organizzazione romana.

Questo rimaneggiamento delle forme del culto e della preghiera comune, di cui si possono seguire tracce parallele in una identica "romanizzazione" dell'architettura e particolarmente dei santuari, non è che una parte di una vastissima operazione politico-religiosa di riforma ecclesiastica, iniziata su incitamento di san Bonifacio durante i concilii franchi del 743-744, alla quale si dedicano Pipino il Breve e i suoi successori.

Questa riforma si poggerà, da una parte, su un vigoroso sviluppo dell'istituzione monastica (opera di Benedetto d'Aniane, principale consigliere di Luigi il Pio); su una restaurazione dell'episcopato come dignità e autorità; su una nuova concezione del clero (regola di san Crodegango, 760 c.), e dall'altra parte, con l'arrivo di Alcuino nel 782 alla corte di Carlomagno, su uno stupefacente sviluppo letterario, intellettuale, artistico e pedagogico.

Questo passaggio alla liturgia romana sarebbe stato inconcepibile senza l'appoggio e l'intervento dell'autorità politica. Esso fu senza dubbio reso necessario dall'estrema disorganizzazione della vita e dell'amministrazione ecclesiastiche nella Gallia degli ultimi Merovingi. San Bonifacio, nel 742, fa una descrizione allarmata della situazione. E questa in effetti era preoccupante: non vi erano più sinodi; un gran numero di vescovadi era in mano a laici; molti monasteri erano in rovina.

Le liturgie praticate in Gallia avevano conosciuto grandi momenti in Provenza, in Aquitania, in Borgogna, ma mancavano di omogeneità, di autorità e, forse, più materialmente, di archivi utilizzabili per un'impresa di questa portata. Roma, o almeno, l'immagine che se ne aveva, beneficiava di un grande prestigio presso uomini coscienti sì dei loro doveri, ma forse anche di tutta la barbarie che stagnava ancora intorno a loro (o in loro?). La romanizzazione degli usi (liturgie, canti, uso degli spazi, etichetta cerimoniale...) era, oltre che un'obbedienza cattolica, il marchio di una qualificazione eminente, pontificale e imperiale insieme, santa e degna, di cui la figura di Gregorio Magno, pastore e amministratore, riformatore e liturgista (se ne farà addirittura un musicista) diventerà il simbolo e la garanzia.

L'assunzione della liturgia romana nel territorio del regno franco di Pipino il Breve, poi nell'impero di Carlomagno e dei suoi successori, non sembra essere avvenuta senza grandi difficoltà. Da una parte, il fronte delle riforme è ben lontano dall'essere unitario: l'estrema divisione dei libri liturgici (altrettanti libri quante erano le categorie degli operatori) e la difficoltà costante di procurarseli (avveniva che lo stesso papa ne fosse privo), rendono assai caotica l'unificazione delle zone. Ma, soprattutto, lo stesso modello romano è, di fatto, poco stabilizzato. Il papa, come ogni altro vescovo, rimaneggia il suo calendario, introduce nuove usanze, organizza l'insieme della liturgia per tutto il corso dell'anno, e in questo insieme inserisce l'ordinamento e l'uso dell'antifonario, per i suoi cantori.

Così i liturgisti carolingi, spesso perplessi di fronte agli usi un po' incerti che scoprono nella stessa Roma, si dànno una liturgia romana più 'romana' di quella vera, al prezzo di un lungo lavoro di riproduzione e di trasformazione dei libri romani (sacramentari, antifonari, ordini, lezionari) che essi «compilano» (è una parola molto usata all'epoca) e sistemano. La figura di Gregorio Magno, che viene considerato il compilator antiphonarii (o anche il compositor, ma il termine è quasi equivalente), viene a porsi, paradossalmente, nello scarto che si crea tra l'uso romano e il suo rimaneggiamento carolingio, e dà il suo nome al repertorio composito che ne uscirà.

È difficile immaginare che cosa abbia rappresentato, per i cantori franchi, germanici o aquita.ni, l'adozione e l'uso di un nuovo antifonario. Perché questa volta non si trattava solamente di un testo, di una disposizione architettonica, di un ordo liturgico, ma di un repertorio di canti particolarmente ampio che bisognava adottare in blocco, su decisione autoritaria. Caso, se non unico, per lo meno eccezionale nella storia delle musiche conosciute, e del quale ci sfuggono in gran parte le modalità.

In effetti, a differenza di quelle situazioni in cui l'esplorazione etnostorica mette in evidenza una trasmissione/tradizione orale per usum fondata sulla continuità e su una relativa omogeneità culturale, nella diffusione imposta del repertorio romano sul territorio dell'Impero bisogna riconoscere un elemento di rottura e di discontinuità. Anche se si riscontrano trasmissioni per mezzo di tecniche con predominanza auditiva, legate a un tipo d'azione cantata comprendente ancora una gran parte di realizzazioni in vivo, non si può in questo caso parlare di tradizione senza falsare la realtà, perché si tratta esattamente del contrario.

Senza dubbio si può fare un rilevamento non inutile, e spesso pittoresco, di questi numerosi scambi musicali di libri, di cantori-istruttori e di cantori-praticanti, menzionati dalle cronache. L'impressione generale che ne deriva è che Metz (in cui si forma per esempio Sigulph de Ferrière, allievo di Alcuino, e da cui uscirà Amalario) tende a soppiantare Roma come centro di riferimento e di formazione. D'altra parte, le leggende concernenti le avventure dei cantori romani in Gallia o sulle Alpi, sviluppate con grande fantasia dai monaci di San Gallo, prima che Adhémar de Chabannes dal fondo dell'Aquitania vi aggiungesse ancora del suo, confrontate con le testimonianze più attendibili [...] attesterebbero piuttosto uno stato cronico di divergenza tra Roma e le chiese della Gallia, o per lo meno un insieme di difficoltà incontrate nella comunicazione, la messa in uso e in memoria della cantilena romana.

Sono precisamente le incertezze e le difficoltà inerenti a questo trapianto e a questa acclimatazione che porteranno per reazione gli uomini dell'Impero a compilare e stabilizzare la loro propria versione, che essi non tarderanno, d'altronde, ad affidare alla scrittura. Tuttavia è importante fare una distinzione abbastanza netta tra la sfera del graduale, o antifonario della messa, e quello dell'ufficio diurno e notturno. Queste due sfere, se hanno in comune il calendario generale delle feste e dei tempi liturgici, non si evolvono nella stessa maniera. L'organizzazione dell'ufficio delle ore (cursus) resta molto più duttile, variabile, sottomessa a rimaneggiamenti frequenti, tanto a Roma che sul territorio dell'Impero. L'ordinamento generale della messa è più stabile.