Salfi
alla Scala
Già pubblicato come: Davide Daolmi,
Salfi alla Scala, in Salfi librettista, a cura di Francesco Paolo
Russo, Vibo Valentia: Monteleone, 2001, pp. 133-177.
Revisione 2002 © Daolmi
Fra i "giacobini" più in vista della Milano napoleonica [1] è chi legò il suo nome, seppur per pochissimi anni, al Teatro alla Scala e in genere alla vita teatrale milanese. Francesco Saverio Salfi, rivoluzionario, giornalista, letterato, ex ecclesiastico, drammaturgo, massone, oggi quasi dimenticato dalle storie dell'opera (ma fortunatamente ricordato da 'altre' storie),[2] fu rappresentanza emblematica, fra le altre cose, di una nuova idea di teatro drammatico e di melodramma. E lo fu in una sede dove, più che altrove, si perseguivano ideali di rinnovamento e ci si proponeva, più o meno consapevolmente, come espressione del nuovo e modello da imitare. Varrà allora la pena precisare, per quanto possibile, la vicenda teatrale meglio: operistica che, in diretta relazione con Milano, coinvolse Salfi in prima persona; un tentativo di ridare ragionevolezza a certa letteratura sia poco precisa sia, in molti casi, eccessivamente parziale.[3]
La Milano di Salfi
9 maggio 1796: occupata Lodi dai francesi, l'arciduca Ferdinando fugge da Milano.[4] Con lui il sovrano gaudente dei balli sfarzosi, delle ville piermariniane e dell'Ascanio in Alba fuggono tutte le illusioni dell'ancient régime e dei diritti di sangue. Prima di salire in carrozza, quasi ultimo gesto di attenzione alle sorti della città e insieme di superiorità morale di fronte alle armi, l'arciduca elegge una commissione di saluto per incontrare l'esercito vincitore: Milano non s'opporrà a esibizioni di forza. Il popolo osserva quasi indifferente: uno straniero vale l'altro.[5] Chi si dà da fare è la nobiltà progressista (quella che non ha voluto ritirarsi nelle campagne) e i borghesi più sensibili al vento di Francia che caricano sul prossimo governo le nuove speranze di libertà. Centro coalizzatore di tutti quegli ideali è, fra gli altri, Carlo Salvador giunto a Milano con raro tempismo il giorno dopo la dipartita di Ferdinando giornalista sine nobilitate che aveva parlato e scritto al fianco di Marat nei giorni del Terrore (quel Marat il cui bagno funesto era stato solo tre anni prima).[6]
L'11 seguente la delegazione di saluto, con a capo il conte Francesco Melzi, incontra a Lodi Napoleone, il giovane generale dell'Armata d'Italia (l'esercito francese stanziato in Piemonte) che aveva fatto un po' di testa sua nel voler dirigersi su Milano (ma il Direttorio, visto i successi, non se l'era presa troppo). Napoleone non concede gran confidenza a questa commissione che odorava ancora di Austria, né pare voler troppo assecondare quell'altra tutt'affatto ufficiosa capeggiata dall'immancabile Salvador che gli promette per Milano una decisa propaganda filofrancese. Entrambi servono ai suoi fini ma è bene non sbilanciarsi.
Napoleone entra in città il 15 maggio. Salvador, che ha appena fondato la Società degli amici della Libertà e dell'Uguaglianza club "giacobino" di Milano che non vivrà più di tre settimane [7] aveva fatto distruggere i simboli austriaci: Milano, malgrado l'assenza di scontri a fuoco, vantava ruderi ovunque.[8] L'esercito francese che arriva in città delude il popolo, i soldati sono vestiti alla meno peggio, sembrano contrabbandieri più che militi d'un esercito vittorioso.
Mentre si succedono gli eventi clamorosi di Milano, il 37enne Francesco Salfi è a Genova, dove svolge un incarico presso il consolato francese.[9] I circoli massonici e giacobini a cui è legato non hanno contatti diretti con Milano, ma il console genovese finanzia un gruppo repubblicano a Pavia che la polizia austriaca aveva smantellato tempo prima.[10] Vista la nuova situazione del milanese, Salfi il 17 maggio è inviato a Pavia probabilmente per ricostituire il club repubblicano.[11] Le tasse pesantissime imposte da Napoleone scatenano il malcontento generale e fra il 22 e il 24 l'esercito francese deve reprimere una massiccia rivolta che ha il suo centro più caldo a Pavia. Gl'insorti attentano anche alla vita di Salfi che, come Pietro, deve mentire sulla sua identità prima di essere messo in salvo dalla guardia francese.
Da lì ripara a Milano dove l'incontro con Salvador che coalizzava in quei giorni gli spiriti repubblicani più accesi è cosa immediata. All'inizio di giugno la Società per la Libertà è sciolta da Napoleone che voleva evitare estremismi ideologici buoni solo a nuove rivolte. Salvador non si scoraggia e in meno di un mese esce con un foglio bisettimanale intitolato "Termometro politico della Lombardia".[12] Salfi collaborerà al giornale in modo abbastanza sistematico occupandosi prevalentemente di teatro, quale efficacissimo mezzo di propaganda patriottica.
Già il 28 giugno (tre giorni dall'uscita del "Termometro") un gruppo di attori dilettanti, perlopiù borghesi e commercianti guidati da Giuseppe Bernardoni,[13] chiede l'assegnamento del teatrino dell'appena requisito Collegio dei Nobili (ora adibito ad ospedale della guardia francese): vogliono allestire spettacoli "democratques", ovvero "patriottici".[14] La richiesta è accolta dal governo che giudica il teatro "opportunissimo all'indicato intento" e comunicata alla nuova compagnia il 7 luglio. Salfi registra l'iniziativa di Bernardoni sul "Termometro" del 26 luglio [15] e coglie l'occasione per proporre una sua idea di teatro "nazionale" in 13 punti.[16]
La prima del neonato Teatro Patriottico, segue di lì a poco con un Guglielmo Tell di Bernardoni,[17] ma Salfi attenderà l'allestimento del Bruto I di Alfieri (15 agosto) per recensirne l'attività (ne apprezza la scelta del soggetto e alcuni momenti dello spettacolo che però dovrebbe migliorare nella tenuta complessiva).[18] In occasione della Virginia sempre di Alfieri [19] Salfi incoraggia la compagnia a proseguire su queste scelte (contrapponendo i balli disimpegnati che si allestiscono alla Scala), e si sofferma sulla recitazione che continua a non incontrare il suo gradimento. Disapprova invece la scelta del successivo Don Pilone (25 settembre), giudicato un pessimo riadattamento del Tartufo molieriano.[20] L'atteggiamento di Salfi verso il Teatro Patriottico è sì critico ma costruttivo e benevolo (d'altra parte la compagnia di Bernardoni gode un'attenzione che il "Termometro" non concede nemmeno alla Scala).[21]
Nardi ci dice che sul finire di quell'anno 1796 Salfi entra a far parte del Ministero dell'Interno come capo sezione;[22] ma si tratta di un errore dovuto probabilmente a un semplice refuso giacché Salfi farà parte dell'Interno solo dall'aprile 1798 (e d'altra parte nel 1796 la Repubblica Cisalpina non era ancora costituita). Tuttavia un qualche rapporto privilegiato con il governo francese (forse mediato dalla massoneria) si doveva essere instaurato:[23] non si spiegherebbe altrimenti il suo imperversare nella stagione scaligera successiva, la prima, per preciso volere di Napoleone, improntata alla propaganda repubblicana. D'altra parte, a prescindere dai favori che Salfi poteva godere presso il governo, non v'è dubbio che fosse l'unico a Milano ad aver propagandato, con l'articolo del 26 luglio, una concreta proposta di rinnovamento teatrale; e che godesse di una qualche reputazione sia come autore di testi repubblicani [24] che come librettista (non fosse altro che per l'allestimento napoletano del Saulle del 1794).
La stagione scaligera del 1797
Le due opere programmate alla Scala per il carnevale 1797 sono Ademira e La congiura pisoniana. La prima era una ripresa di un successo scaligero del carnevale 1784 che vedeva congiunti due apprezzati autori del momento, il compositore Angelo Tarchi [25] e il librettista Ferdinando Moretti.[26] Mentre la seconda, ancora con musica di Tarchi, vantava i versi nuovissimi del libretto di Salfi.
Ademira, ovviamente, non era affatto un'opera 'rivoluzionaria', ma possiamo supporre che il governo volesse in qualche modo blandire il pubblico affiancando alla novità 'sperimentale' del redattore del "Termometro" un lavoro già noto. Si scelse quest'opera forse perché Tarchi, incaricato per il carnevale, volle recuperare un suo vecchio successo: la musica fu in più parti riscritta e probabilmente ci si giovò di arie di altri compositori;[27] per propagandare invece la bontà degli ideali del nuovo governo si puntò sul primo ballo, ancora Il Guglielmo Tell, soggetto unanimemente repubblicano [28] (la mise en scène era di Paolino Franchi,[29] coreografo di scuola francese, la musica di Giuseppe Perruccone, primo violino della Scala "per i balli"),[30] e su un canto rivoluzionario francese che pare sia stato aggiunto a conclusione del primo atto.[31]
In merito allo spettacolo apparve una lungo articolo sul "Termometro" spacciato per una lettera di un lettore anonimo.[32] Non si fa troppa fatica a ritenerlo mano di Salfi che, coinvolto in quella stessa stagione ritenne, opportunamente, di non volersi compromettere. La stroncatura è radicale:
Un dramma immaginato per distruggere il senso comune, due castroni vestiti all'eroica, cioè con degli abiti a tremò, e ... la Billington la quale serviva, a rincontro, a farci maggiormente aborrire la sproporzione e la mostruosità di tutto l'insieme. |
Né parole più gentili sono concesse al ballo, malgrado il soggetto "patriottico":
Ma qual orrore! quale confusione! quale monotonia! Le situazioni più interessanti o smar-rite o soffocate; il carattere del tempo e del luogo non traspariva che negli abiti; insomma l'oggetto e il fine non si rilevano che dal semplice titolo. |
In realtà l'opera non dovette spiacere troppo al più del pubblico milanese (quello stesso che quindici anni prima l'aveva applaudita con entusiasmo), pubblico che certamente era d'indole assai meno rivoluzionaria e in genere poco sensibile al realismo drammaturgico a cui auspicava Salfi.
La congiura pisoniana si presenta invece come opera dichiaratamente politica. La musica è sempre di Tarchi [33] una delle poche cose, guarda caso, che il "Termometro" salvava nell'Ademira, insieme alla voce della Billington pur scritta ex novo. E così il primo ballo, Lucio Giunio Bruto, del solito Franchi con musica di Louis de Baillou,[34] riprende un soggetto caro a Salfi.[35]
Anche in questo caso è difficile capire come l'opera possa essere stata accolta. Lo storico Francesco Beccatini, che certamente assistette allo spettacolo, lo dice di
niuno applauso, un pessimo dramma pochissimo gradito dal pubblico, non pel sublime argomento ma per i cattivissimi versi del poeta e la seccante e poco armoniosa musica, e ciò per quanto si sforzassero nel cantare e la tanto rinnomata Billington inglese e il vecchio musico Rubinelli.[36] |
Beccatini si dimostra non essere di parte, e certamente nulla ha contro Salfi.[37] Le opinioni negative di Cusani [38] e Paglicci Brozzi [39] derivano quasi certamente da questa fonte. Altri, forse meno disinteressati, ebbero opinioni diverse.
Il "Giornale de' patrioti d'Italia" una sorta di versione moderata del "Termometro" che iniziò a uscire proprio in quei giorni,[40] dedicò alla Congiura salfiana un'ampia e succosa recensione attribuibile a Matteo Galdi, promotore del foglio trisettimanale.[41] La stima per Salfi, "cògnito ancora per varie altre eccellenti produ-zioni", non è messa in discussione e altrettanto si apprezza lo sforzo di concentrarsi "su i gran misteri della libertà"; d'altra parte Galdi si chiede perché Salfi abbia voluto trattar tal soggetto che pare
interessare poco il pubblico istruito, mettere a tortura se stesso e creare cose che non si trovano nella storia, e per conseguenza diminuire l'interesse della rappresentazione. |
Galdi, con erudizione, osserva poi che già in Tacito, e ancor più in Legouvé,[42] Pisone non è mosso da alcun valore repubblicano, tutt'altro, e fa fuori Nerone non perché tiranno ma perché intrigante assassino. "Non vi era bisogno di molta virtù per abbominarlo" e di conseguenza osserva la tensione morale che deve commuovere lo spettatore non è spontanea, obbligando Salfi a fare l'impossibile per suscitarla. Galdi apprezza però lo sforzo di Tarchi di far aderire al possibile la musica al testo (sforzo peraltro non sempre riuscito) e, pur ammirando l'insuperata qualità vocale della prima donna, auspica che Elisabetta Billington
per far meglio risaltare l'incanto della sua voce sacrifichi volentieri gli abbigliamenti e il freddo contegno da regina; ella guadagnerebbe di più se in vece de' gruppi, de' trilli, delle volate, che ci par che formino la sua principal passione, ci regalasse di un canto melodico, spianato, che invece di destar meraviglia ci toccasse più delicatamente il cuore. |
Il "Termometro politico" per ora tace, e attenderà la fine della stagione per dedicare una lunga analisi alla produzione scaligera, o quantomeno ai lavori d'impronta repubblicana. L'articolo, al solito senza firma, è certamente di Salfi ("Noi non dovremmo parlare né del merito dell'argomento, né di quello della scelta") [43] che non si trattiene dall'atoincensarsi relegando i difetti ai vizi degli interpreti: poco interessante quindi per comprendere la reazione del pubblico.[44] Semmai di Tarchi si apprezzano "varii pezzi di musica, fra' quali si distinguono i finali del I e II atto e la prima aria di Ecaride", ma perduta la musica ben poco si può aggiungere sulle predilezioni compositive di Salfi.
Anche il primo ballo entr'acte, il Lucio Giunio Bruto di Franchi,[45] suscita l'interesse e il moderato apprezzamento del "Termometro".[46] Ma Salfi pare l'unico a pensarla in questo modo se, come sembra, il ballo non durò che poche repliche e dovette essere sostituito per le proteste del pubblico.[47]
Un ballo per il papa
Ultimo e più celebre contributo salfiano di questa stagione è il pantomimo Il general Colli in Roma altrimenti noto come Il ballo del papa. Se ne scrissero pagine e pagine, ma la ricostruzione degli avvenimenti lascia oggi ancora spazio a incertezze e lacune. Il clamore fu suscitato dall'apparente anticlericalismo associato all'attualità del soggetto, nonché dall'incidente di polizia della prima sera (mai del tutto chiarito): tanti elementi piccanti per insaporire numerose pagine del celebre Cento anni di Rovani che involontariamente aprirono la strada al mito.
Per meglio comprendere il clima in cui fu concepito e accolto il ballo val la pena ricordare che, all'approssimarsi del carnevale ambrosiano, Napoleone scorazzava vittorioso per la Lombardia. Il 2 febbraio 1797 trionfa con la capitolazione di Mantova, tanto che il successo spaventerà a tal punto papa Pio VI fino a quel momento convinto di potersi opporre a Napoleone perché alleato con l'Austria da indurlo il 19 febbraio a firmare la resa di Tolentino. Le feste per celebrare le vittorie a Milano sono continue e spesso il governo apre le porte della Scala offrendo rappresentazioni gratuite.[48] Lo scenario di Salfi per il General Colli fa riferimento alla resa di Mantova e quindi dobbiamo crederlo redatto dopo quella data, mentre la prima del pantomimo si rappresenta già il 25 dello stesso mese:[49] meno di tre settimane per preparare tutto. A chi venne l'idea di un soggetto così insolito che prende spunto dalla vicenda politica di quei giorni?
L'asserzione di Rovani per cui tutto sortì dal prevosto Felice Latuada,[50] amico di Salfi e giacobino della prim'ora, si scontrerebbe, secondo Paglicci Brozzi,[51] con l'evidenza dei fatti, ovvero con quelle fonti che dimostrano essere stato un parto dello stesso Napoleone.
Il documento portato alla luce una lettera del maestro di ballo Dominique Le Fèvre, per l'occasione coreografo, datata 22 brumaio anno VI [12.XI.1997], in cui si sollecita il pagamento per la partecipazione al ballo parla esplicitamente di
un argomento proposto dal generale in capo [sc. Napoleone], a cui premeva di non essere ingannato nell'idea da lui felicemente immaginata |
precisando che
il cittadino Dupuy, allora comandante della piazza di Milano, a nome ancora del generale Kilmaine, comandante della Lombardia per mezzo del cessato comitato di Polizia, mi prescelse a questo incarico. [52] |
Che il ballo fosse ordinato dallo stesso Napoleone, in quei giorni assente da Milano, nessuno vuol dubitarlo e d'altra parte lo confermavano (prima delle rivelazioni di Paglicci Brozzi) già lo stesso Salfi [53] e il biografo di Pio VI Pietro Baldassari.[54] Ma per quanto se ne sa tutto ciò non mette in dubbio la fondatezza delle asserzioni di Rovani. In effetti pare strano che Napoleone avesse dato precise indicazioni sul soggetto; forse avrà preteso che si mettesse in ridicolo il generale Michelangelo Colli Marchini comandante della milizia austrica giunta in aiuto al papa, che già aveva chiaramente dato segni di non voler affrontare l'esercito francese ma nulla più. Improbabile che si volesse esplicitamente umiliare il papa in procinto degli accordi di Tolentino.
Forse fu proprio Salfi che da (ex) ecclesiastico aveva una sua idea della politica temporale di Roma a spingere la mano su Pio VI, magari consigliandosi con l'amico Latuada. Certo è che il titolo, Il general Colli in Roma, non aiuta a comprendere che il vero protagonista è invece il papa (che forse non si voleva citare nel frontespizio) cosa che non sfuggì al pubblico e alla cronachistica popolare. La sensazione è che all'origine il bersaglio proposto fosse proprio il generale austriaco; ipotesi confermata anche dalla successione dei protagonisti indicati nel libretto. Qui, diversamente da quanto riproducono Paglicci Brozzi, Monaco, Serpa e Turchi, quello del generale non è il primo nome, e nemmeno l'ultimo: il ruolo è invece inserito, quasi aggiunto all'ultimo momento, nientemeno che fra le comparse, umiliazione quantomai ingiuriosa.[55]
Ma val la pena rileggersi lo scenario per capire fino a che punto lo scandalo abbia sopraffatto il soggetto e se veramente si tratta del "vano conato di un cane che ab-baia alla luna" [56] o di un'idea solo un po' irriverente. In breve:
Atto I. Pio VI, riunto in congregazione straordinaria, sancise di rifiutare le proposte di pace della Francia (malgrado un domenicano tenti di convincerlo alla resa) per entrare in guerra. Le principesse Braschi e Santacroce fanno a gara per lusingare il papa.
Atto II. La Braschi trama contro la rivale coinvolgendo il padre domenicano che viene ingiustamente accusato d'intrigo. Arriva il generale Colli.
Atto III. La Braschi seduce il generale e s'accapiglia con la Santacroce. Intanto i preti incitano il popolo ad armarsi.
Atto IV. La vittoria contro la Francia si crede vicina: festa da ballo alla corte papale.
Atto V. Mantova si è arresa: tutto è perduto. Pio VI riconosce la bontà dei consigli del domenicano che ora gli offre il berretto frigio, emblema della Francia e della libertà. Colli ha un ultimo guizzo di indignazione ma è contrastato dal popolo. Pio vi indossa il berretto fra la gioia di tutti.
La pretestuosità della vicenda in realtà si giustifica per i continui riferimenti a vicende romane probabilmente note e di cui si era trattato proprio nel "Termometro politico".[57] In particolare la presenza delle principesse Braschi e Santacroce, del tutto ininfluente allo svolgimento del ballo, ma utile a insaporirlo con l'immancabile intrigo femminile, riprende episodi che lo scenario del ballo non chiarisce: la rivalità fra le due, la posizione filoaustriaca della Braschi, la volontà di evitare la guerra della Santacroce, i rapporti di parentela e le gelosie con altri membri della corte pontifici, sono tutti elementi dati per conosciuti e forse potrebbeo trovare spiegazione (e in questo senso essere interpretati) alla luce di un approfondimento sulla storia romana di quei giorni, approfondimento che in questa sede non si può fare.[58]
Chi è veramente trattato come un fantoccio (oltre allo stesso Colli) è invece Pio VI, descritto da Salfi come esaltato e isterico, incapace di guardare in faccia alla realtà, succube di cattivi consiglieri, senza una vera personalità (tanto da gioire del berretto frigio quasi fosse una novità di satoria) e solo coinvolto dalle "gambe più agili e meglio tornite" dei suoi giovani prelati, particolarmente di quelle del cardinal Busca. Il padre domenicano invece, unico eroe positivo, è figura tutt'altro che secondaria. Certamente meglio tratteggiata dello stesso generale, vuol forse essere un omaggio all'abito di qualche precettore napoletano di Salfi il cui positivo ricordo fa ancora parte della sua vita.
Date le circostanze in cui fu preparato il ballo non stupisce che ci si rivolse a Salfi, primo librettista della stagione, già attivo in città e pure repubblicano. A trovare il coreografo ci fu invece qualche difficoltà in più perché Paolino Franchi che firmava i balli della Scala, forse scottato dal fallimento del Bruto, il suo primo tentativo d'impronta 'repubblicana', non volle saperne (e però accettò d'interpretare il ruolo del padre domenicano); né Angiolini accolse l'invito.[59] Ci si rivolse quindi a Dominique Le Févre, maestro di ballo della migliore società cittadina che aveva già collaborato qualche volta per coreografie pantomimiche alla Scala,[60] e che interpretò anche la parte di Pio VI.
Il libretto tace il nome del compositore della musica che in genere, per i balli, era affidata al primo violino "dei balli" appunto Giuseppe Perruccone. Invece, secondo Rovani, unica fonte al riguardo, il compositore fu Ferdinando Pontelibero, che Rovani definisce "il Giorza di quei tempi".[61] Apparentemente Pontelibero comincia ad essere attivo solo qualche anno dopo; è possibile si possa trattare della sua prima importante commissione, ma non si può non dubitare che Rovani, a più di cinquant'anni di distanza, possa essersi confuso.[62] Sia come sia l'unico dato certo è che non sopravvive nota alcuna del General Colli. Le scene, apprezzatissime, furono invece di Paolo Landriani, come sue furono le scene di tutte le produzioni scaligere di quegli anni.[63]
I clamori intorno al ballo cominciarono ancor prima delle rappresentazioni: la Società d'Istruzione [64] dubitò dell'opportunità del pantomimo; alcuni parroci tentarono di dissuadere i più pii ad andarci e persino l'arcivescovo di Milano, Filippo Visconti, conosciuto il soggetto del ballo, tentò inutilmente di fermare la rappresentazione.[65] Tutto ciò, come di solito succede in questi casi, ebbe l'effetto contrario di creare una forte aspettativa e offrire ampia pubblicità.[66]
La prima e più divertita descrizione del ballo è una bosinata in milanese, probabilmente venduta le sere della rappresentazione.[67] Il "Giornale de' patrioti" offre un gustoso ed entusiastico racconto della trama del ballo.[68] Seguono poi le pagine di Lady Morgan [69] e quasi l'intero libro X che vi dedica Rovani nei suoi Cento anni.
Non vale la pena soffermarsi ulteriormente su come questi due ultimi scrittori si siano immaginati uno spettacolo che in realtà non videro.[70] Solo l'episodio del comandante Dupuy che fece chiudere tutte le porte del teatro sequestrando a fine spettacolo il pubblico fino a notte inoltrata trova reale conferma. La motivazione la ricerca degli assassini di due funzionari del re di Sardegna (che chissà perché dovevano essere a teatro) e, con l'occasione, anche l'arresto di borsaioli e vagabondi [71] sembra tanto pretestuosa da rendere credibile l'illazione di Paglicci Brozzi per cui gli eccessi del pubblico tanto entusiasta per il ballo furono scambiati, in un clima già molto teso, in una mezza insurrezione.[72]
La verità è che tutto il parlare che si è fatto attorno allo spettacolo sembra essere stato più importante dello spettacolo stesso. Le orde di pubblico scatenato che descrive Rovani forse furono assai meno numerose, se il ballo non fu replicato che sole nove sere.[73] S'è detto, è vero, che gli stessi autori vollero che fosse interrotto perché la rappresentazione cominciava a prende pieghe pericolose, sobillando le intemperanze del popolo,[74] ma più probabilmente si decise di sospendere le repliche perché il pubblico, almeno quello che non voleva troppo compromettersi, latitava (e gran parte di chi andava a teatro gli "es-nobili" come li chiama Salfi erano in genere poco favorevoli sia al nuovo regime che a sbeffeggiare il papa). Il "Termometro" riferisce che la gente aumentava di sera in sera, ammettendo però involontariamente che il teatro non era proprio pieno.[75] Domenica 5 marzo (probabilmente una delle ultime replice) si offrì poi l'ingresso gratis,[76] malgrado non ci fossero occasioni festive da celebrare: un estremo tentativo di riempire la sala? Le stesse difficoltà che ebbe in seguito Le Fèvre, messo alla porta da molti nobili a cui dava lezioni di ballo per lo scandalo della sua interpretazione irrispettosa, la dicono lunga su quanto sia da ridimensionare il successo del ballo.[77] L'entusiasmo del "Giornale de' patrioti"[78] e dello stesso "Termometro" (leggi: di Salfi) suona allora un po' stonato, e il loro gridare ha forse fatto dimenticare troppo presto che quel ballo senza il merchandising letterario che lo ha circondato, sarebbe stato se non poca cosa, almeno da ridimensionare.[79]
La parentesi bresciana
E certo furono le polemiche che crebbero in quei giorni a far preferire a Salfi magari consigliato dai quei funzionari del governo che gli avevano affidato l'incarico di allontanarsi qualche tempo da Milano. Non ci sono vere prove in merito, ma coincidono le date del suo trasferimento a Brescia; la poca chiarezza dei suoi primi biografi su questa circostanza fa poi ritenere che i motivi del suo allontanamento, apparentemente ingiustificati,[80] siano stati deliberatamente occultati. Certo è che a Brescia Salfi non ci arriva come clandestino giacché oltre a partecipare ai moti rivoluzionari cittadini, ha modo di mettere in scena la traduzione del suo Carlo IX, e quando il 18 luglio ottiene la cittadinanza bresciana, è già segretario del Comitato di Legislazione e socio del Circolo Costituzionale.[81]
Salfi continua a scrivere per il teatro (è di questi mesi la stesura definitiva della Virginia bresciana rappresentata prima a Brescia e, nel maggio del 1798, alla Scala) [82] e a occuparsi di un suo ordinamento, tanto che l'approvazione della riforma teatrale firmata dal governo cittadino fra il 25 e il 27 ottobre 1797 è sottoscritta anche da lui.[83]
Probabilmente sulla scorta delle deliberazioni a Brescia anche a Milano, ormai capitale della Repubblica Cisalpina, si vogliono stringere i tempi per trovare una soluzione in senso repubblicano alle sorti del teatro. Il 29 ottobre 1797 per le strade della città compare affisso un bando di concorso firmato dal ministro dell'interno Ragazzi che offre 40 zecchini a chi in due mesi proporrà "il miglior progetto per l'organizzazione de' teatri nazionali".[84]
La seconda stagione milanese
Non si sa se Salfi fosse già a Milano in quei giorni, certo ci arriverà prima della fine dell'anno perché il 30 dicembre avrà modo di assistere all'apertura della stagione scaligera per potersene debitamente lagnare sulle pagine del "Termometro politico".[85] Si potrebbe supporre che il suo rientro in città fosse in qualche modo legato alla speranza, visto gli onori raccolti a Brescia, di poter contribuire nuovamente con un testo all'imminente carnevale. Ma così non fu, o quantomeno nessuno dei libretti pubblicati per la stagione 1798 è legato al suo nome. Unica eccezione è lo scenario del ballo L'Italia rigenerata, allestito dal maestro di ballo Filippo Beretti, quasi certamente elaborato su un soggetto di Salfi. Sia il libretto [86] che il "Termometro"[87] sottolineano infatti come l'argomento sia stato suggerito da altri;[88] l'entusiasmo poi che gli dedica il foglio di Salvador ha il tono solito con cui Salfi usa celebrare l'allestimento di lavori suoi;[89] ma soprattutto lo scenario (qui in appendice) rivela una trama così biecamente propagandista e insieme inquietante (con un taglio mistico-allegorico intriso di una religiosità quasi neopagana) che solo Salfi poteva concepire. In breve:
La fanciulla Italia è soggiogata da tre tiranni che con occhio concupiscente la spogliano e la seviziano durante la danza a cui l'hanno obbligata. La benda nera con cui i tre accecano la giovane al termine dell'esibizione è "simbolo della superstizione e dell'ignoranza".[90] Chi la salverà da quel penoso stato? S'aprono le nubi e da cielo discende un cavaliere forte e aitante: è il Genio di Francia, la cui fiaccola in mano illumina le menti anche dei più recidivi. Il Genio però ha un'arma segreta: il suo scudo non è uno scudo ma uno specchio in cui Italia si vede per la prima volta misera e discinta. Si ribella? Macché: è sempre l'Aitante che libera la povera infelice dalle catene.
Il secondo atto è più cupo: nell'Ade Italia incontra Bruto
e Catone; il primo la sprona a far fuori i tiranni senza pietà, il
secondo a suicidarsi se non riuscisse nell'intento. Opzioni discutibili ma che
Italia giura di perseguire.
Succede poi, a cielo
aperto, la lotta con i suoi aguzzini che sortisce positivamente per Italia solo
dopo l'arrivo del Genio. I vincitori vanno a festeggiare (o forse a pagare il
loro tributo) al tempio della Libertà. Qui, finita la festa, il Genio si
ritira fra le sue celesti nuvolette con ascesi mistica e popolo commosso e
osannante, mentre il cuore di lei, l'Italia, è gonfio di gratitudine.
Il ballo per il quale si registrano
almeno quattro rappresentazioni fra Milano e Torino
[91] non è affatto una
cosuccia innocente. Quest'Italia che ha bisogno della Francia anche solo per
accorgersi di patire soprusi, sembra un po' stupidotta, prima che vilipesa (ha
voglia Salfi a convincerci che il paese ha solo bisogno d'aiuto: qui si esprime
una radicale sfiducia nel popolo italiano da cui ogni vero patriota avrebbe
dovuto rifuggire); e siamo sicuri che la danza erotico-simbolica d'esordio non
esprima un immaginario sadomasochistico dove la natura italiana più che
esprimere l'abitudine a esser dominata sembra provarne piacere? in fondo
una lettura interessante della tradizione storica degli ultimi secoli (e
c'è tutta una riconosciuta dignità dello slave già
in Sade). La stessa scena negl'inferi sorta di patto col Diavolo
riabilitato, dove la vendita dell'anima si scambia con un più ateo
vasetto di cenere oltre a delineare il quadretto romantico di sapore
noir (o se si preferisce un rigurgito di classicheggiante poetica del
terribile), esprime uno stoicismo di ritorno tutto pagano molto caro a Salfi.[92] Ancora: un po' stupisce la
sessualizzazione delle contrapposte Francia e Italia. Abbiamo capito che Salfi
parteggia per la Francia (e per il biondo e ondulato crine dell'eroe
guerriero), e abbiamo capito che, contro ogni tradizione letteraria, alla fine
le due nazioni non si sposano per non turbare gl'indipendentisti (fra cui anche
Salfi); ma che dire di questo immaginario ariano-eroico-esterofilo? dove il
Bene, il Bello e il Giusto, non sono solo altrove, ovvero in cielo, ovvero al
di là delle Alpi (e questo era noto), ma sono soprattutto incarnate dal
dio maschio e guerriero che propaganda un'evidenza di purezza imprescindibile,
di vigore superumano, di rinnovata supremazia maschile, quasi volesse presagire
le future teorie nazionalsocialistiche (che, è noto, per molti versi
fondano le proprie radici ideologice proprio nel giacobinismo e quelle
estetiche nella classicità tanto amata da Salfi).[93] Di tutte queste inquietudini il pubblico non s'avvide (o
quantomeno ritenne di poter condividere le idee espresse) se, come pare, tanto
piacque il pantomimo.[94] Tutto
ciò la dice lunga, prima che su Salfi, sul clima ideologico imperate che
in nome di una 'libertà', sì foriera di luce ma forse un po'
accecante (giacché per l'Italia era una 'libertà' a buon mercato,
ovvero senza il sangue della ghigliottina), rischiava di trasformare il buon
senso in fanatismo.
Politica teatrale
Intanto il concorso teatrale non aveva visto alcun vincitore e il 20
marzo ne viene bandito un altro che avrà il medesimo inefficace effetto.
Nel frattempo però era cambiata radicalmente la situazione politica: chi
aveva bandito il II concorso non è più a giudicare la
bontà dei progetti. La Francia infatti, ormai da tempo timorosa della
piega indipendentista presa dal governo della neonata Cisalpina, stringe le
corde, obbligando il Direttorio italiano a firmare un'alleanza capestro con
Parigi. Primo gesto è la riorganizzazione interna dei ministeri. Due dei
tre giornali cittadini (il 3 gennaio 1798 era nato anche il "Monitore
cisalpino" diretto da Giovanni Paradisi) sono bollati come "autonomisti"
perché fautori dell'indipendenza italiana. Il "Termometro" riesce a
restarne fuori per la politica apparentemente filo-francese forse un
puro interesse perseguita da Salvador.[95]
Il 1° aprile 1798 il
comandate della Piazza di Milano, generale Brune, ottiene le dimissione di
Paradisi e Moscati, membri del Direttorio Cisalpino sostituiti rispettivamente
dal ministro degli esteri Carlo Testi e da quello degli Interni Giacomo
Lamberti (che solo una settimana prima aveva preso il posto di Ragazzi). Nuovo
ministro degl'Interni è Gian Antonio Tadini, che fra le altre cose, deve
occuparsi anche dello spettacolo.[96]
Tadini insedia come capo sezione ai Teatri Francesco Salfi. Salfi è
infatti controfirmatario di una richiesta del ministro dell'Interno datata 5
maggio e diretta all'Amministrazione del dipartimento d'Olona (ovvero quello di
Milano) da cui si arguisce il proposito d'intraprendere in modo sistematico la
ri-organizzazione dei teatri nazionali.[97] La documentazione successiva esplicita anche le funzioni
della carica.
Per il momento l'impegno di Salfi
sembra di tipo amministrativo. Per le sue mani passano gli otto lavori del II
concorso sull'organizzazione teatrale bandito dal governo: la lettera di
accompagnamento degli stessi del 2 luglio inviata a Mascheroni, Longo e Parini,
presidente della commisione esaminatrice, era sì sottoscritta da Diego
Guicciardi, allora ministro di Polizia, ma la minuta era di pugno di Salfi.[98]
Questa
interferanza fra ministeri dell'Interno e di Polizia in questioni teatrali si
spiega proprio con la duplicità di implicazioni che si attribuivano agli
spettacoli. La direzione dei teatri nazionali dipendeva dall'Interno, e per
l'aspetto formativo e diciamo pure di propaganda (quindi per esempio in
relazione alla qualità, ai soggetti, alla censura etc.) le
rappresentazioni afferivano alla Pubblica Istruzione di cui s'occupava sempre
l'Interno.[99] In quanto invece agli
appalti, all'affluenza degli spettatori e in generale alla gestione del teatro,
cioè per tutto quello che riguardava l'ordine pubblico, dipendevano
dalla Polizia.[100]
Come detto anche il II concorso fallisce e il 21
settembre se ne indice un terzo che è cofirmato da Guicciardi, ora
diventato ministro dell'Interno, e Salfi stesso.[101] L'esito di questo III e ultimo concorso non si ebbe
mai. A seguito delle vicende politiche che portarono al crollo della Cisalpina
nell'aprile del '99 la questione teatrale fu accantonata e non più
ripresa, almeno nei termini di pubblica gara.[102] Ma se il concorso non dava risultati, a Salfi la
questione teatrale restava a cuore. E non si dubita del fatto che fu proprio
Salfi il motore primo di quanto successe in questi mesi. I fatti:
I
due teatri governativi, Scala e Cannobiana, erano stati appaltati a Gaetano
Maldonati dall'amministrazione austriaca fin dal 1790 per 12 anni.[103] A metà del 1798, poco dopo
la nomina di Salfi, non c'era motivo di liberarsi di Maldonati: il contratto
durava ancora 3 anni e il lavoro svolto fino a quel momento era stato ottimo.
È vero che Maldonati era una creatura austriaca
[104] ma se questo aspetto fosse stato
determinante lo si poteva sostituire fin dal '96. Invece di punto in bianco si
decide che i capitoli accordati a Maldonati non vanno più bene e che,
col diritto del rinnovato governo, si stabilirà un nuovo regolamento e
si bandirà la gara d'appalto. L'ipotesi che in questa decisione c'entri
la nuova assunzione del "capo sezione ai Teatri" è avvalorata dal fatto
che Salfi già da un anno inveiva pubblicamente contro gli "impresari" o
appaltatori di Scala e Cannobiana, e proprio nel settembre 1798 lo aveva fatto
dalle pagine del "Termometro":
si va avvicinando il tempo di scegliere i nuovi impresari de' due teatri di Milano. L'appalto si desidera [che sia] degli antichi ex nobili direttori del Teatro della Scala [sc. Maldonati e compagni], ma vorrebbero persuadere al pubblico ch'essi ne sono sazi, che hanno fatte delle perdite, che il tempo non è opportuno a simili imprese: per accreditare simili volpine intenzioni mostrano schifo personalmente, ma hanno de' cooperatori estranei che sotto altro nome faranno il loro guadagno. |
E oltre ad accusare l'impresa Maldonati d'interesse privato insinuava pure una loro scarsa disposizione repubblicana:
il loro oggetto è di rendere paralitico tutto intero lo spirito pubblico, con esiliare dal teatro anche il nome delle rappresentazioni patriottiche. |
Ce n'è pure per il Ministero dell'Interno che, ancor privo dell'indispensabile collaborazione di Salfi, non può che fallire nella gestione teatrale:
il ministro dell'Interno, al cui istituto appartiene l'Ispezione de' Teatri o mal conosciuto o occupato da grandi affari, o non persuaso della sublime grandezza di queste rappresentanze, o non avendo il tempo di distinguere le vivacità del patriottismo potrebbe esser sedotto, ingannato, strascinato, anche ad onta sua, per accordare agli antichi impresari del Teatro alla Scala, o a' loro simili, l'appalto de' teatri con le primiere condizioni |
E dopo aver ancora insistito su questo tono, l'appello:
Direttorio Esecutivo, sia vostra la cura di ravvivare lo spirito pubblico, di rendere la Repubblica Cisalpina una Grecia novella che formava i suoi costumi sotto la sferza dell'arte drammatica. |
Per concludere con alcune proposte:
[1.] L'appalto de' teatri si conceda ad una compagnia degna della grandezza e della virtù repubblicana; [2.] gl'impresari siano personaggi noti per patriottismo; [3.] il premio [messo in palio dal governo] vi chiami [sulle scene] attori rispettabili che col piacere insegnino l'eguaglianza, la libertà, il coraggio, il disprezzo della morte, il miracoloso amor di patria; [4.] i due teatri non siano addetti ad una sola compagnia direttrice: chi può far tutto ed è scellerato non trova ostacoli che gli possano far fronte; [5.] siano due differenti impresari: la virtuosa emulazione agiti i loro cuori pel bene del popolo; [6.] le ricompense nazionali facciano finalmente comprendere a' nostri nemici che le repubbliche sanno essere generose con coloro che le servono virtuosamente. [7.] Siano finalmente i teatri regolati con quelle condizioni che non corrompano ma consolidino, felicitino il popolo ...[105] |
Salfi alla fine riuscì a entrare nelle fila del Ministero e nessuno dubita che s'impegnò con tutte le sue forze perché fossero applicati i supposti propositi, a cominciare dal ben servito a Maldonati e a una nuova gara con il capitolato completamente ripensato. E così il 13 settembre è pubblicato l'avviso firmato dal ministro Guicciardi e controfirmato da Salfi.[106] Ma la gara, fissata per il 7 ottobre successivo, propone un regolamento talmente insostenibile anche per il patriota più convinto che va deserta.[107]
A quel punto si fa avanti Francesco Benedetto Ricci con una sua proposta che differisce da quella del governo, ma non più di tanto (o così s'insinua).[108] L'escamotage di Ricci è probabilmente calcolato: mandare la gara deserta per poter presentare il giorno dopo un nuovo capitolato che il governo a quel punto non può più rifiutare.[109]
E così fu. O almeno sarebbe stato se Salfi non avesse gridato al tradimento. Il nuovo contratto Ricci infatti si scopriva, a suo dire, inaccettabile. Il ministro Guicciardi preso da altri problemi aveva lasciato Milano dopo aver accolto la proposta Ricci, ma certo per la fretta suggerisce Salfi non si accorse dello stravolgimento operato. Preso dal sacro fuoco, Salfi decide quindi sua sponte in assenza del ministro (ma chissà se non volle aspettare proprio quella proverbiale partenza) di mandare lui stesso, scavalcando le normali procedure, una lettera accalorata al Direttorio Esecutivo.
La pubblicazione di questa lettera fu annunciata da Gentile Pagani nel 1888. Pagani era all'epoca direttore dell'Archivio Storico Civico di Milano (oggi annesso alla Biblioteca Trivulziana) e direttore della neonata "Raccolta Milanese". Un articolo anonimo del mensile definì Salfi "gran moderatore degli spettacoli repubblicani" e Pagani annotò: "Pubblicheremo in altra occasione un interessante documento autografo di Francesco Salfi che spiega questa sua qualifica".[110] Purtroppo la rivista smise le pubblicazioni e di questo "documento" non se ne seppe più nulla. Nel 1925 Nardi, sulle tracce del medesimo, dovette ammettere di non averlo trovato,[111] trascurando però di cercare proprio nell'Archivio Storico, dove la fantomatica lettera è ancora conservata (ora qui trascritta in appendice).[112]
Qui Salfi sa di eccedere il suo incarico, almeno per l'insolita procedura, e sta sulle difensive ("negligenterei il dover mio ed esporrei la mia riputazione se con franchezza repubblicana non avvertissi il Direttorio Esecutivo") ma poi non teme di tuonare contro gli accordi presi con Ricci che "lungi dall'esser conformi a' capitoli normali già stabiliti, assolutamente gli eludono e li distruggono".
Nella sostanza Salfi si lamenta che:
a) il primo uomo castrato è sostituito da un assai più
economico tenore: benissimo la sostituzione dei castrati ma non perché
ci guadagni l'appaltatore;
b) troppi drammi si prevedono riciclati da altri
teatri o fatti scrivere da poeti "salariati" la cui abitudine è di
assecondare i capricci dei cantanti;
c) non sono previsti premi per i
migliori libretti;
d) sono ridotte le rappresentazioni degli spettacoli
"eroici", ovvero di prosa, durante la stagione invernale;
e) non è
stato diminuito il biglietto d'ingresso.
E in genere Salfi si lamenta che i capitoli sono "tutti sostanzialmente alterati e distrutti". Il Direttorio Esecutivo ammise in parte le ragioni di Salfi e chiese una serie di modifiche che furono concordate dopo qualche tira e molla.[113] Sul punto finalmente di firmare il contratto però il 12 ottobre Ricci scrive al ministro dell'Interno nella persona dell'ispettore centrale Battaglia (che in quei giorni sostituiva il ministro assente) dicendo di non poter accettare il capitolo XVII come concordato. Con lettera di Battaglia e Salfi l'Interno informa di ciò il Direttorio Esecutivo che rimanda indietro la decisione (14 ottobre). Battaglia allora, in vece di Guicciardini e certamente con il sicuro consiglio di Salfi rigetta la richiesta di Ricci e chiede al ministro di Giustizia se non sia il caso di obbligare gli appaltatori secondo gli accordi presi (15 ottobre). La Giustizia ammette che la ragione è dalla parte del governo, ma viste le difficoltà con cui si è giunti a un accordo sugli appalti e fiduciosi della buona fede di Ricci e compagni si decide di ammettere le loro ragioni e accordare la riformulazione del capitolo XVII (18 ottobre).[114] Il giorno stesso finalmente si stipula il contratto: e Ricci ha il suo appalto che dovrà durare nove anni.[115]
Sarebbe stato interessante confrontare i capitoli originariamente proposti dal ministero dell'Interno per la gara d'appalto con i vecchi di Maldonati; come pure quegli stessi con la versione definitiva del contratto Ricci. Mancando tuttavia la stesura intermedia, quella probabilmente concepita da Salfi, ogni valutazione gioverebbe più alla storia del sistema teatrale di questi anni che alla indagine sul pensiero teatrale di Salfi: volentieri si rimanda ad altro luogo.[116]
Intermezzo partenopeo
Salfi, come si vede, ha un incarico governativo di tutto rispetto che gli concede di poter fattivamente interferire nella gestione teatrale. Ciò malgrado allo scoppio dei moti napoletani all'inizio del 1799, Salfi non esiterà a recarsi nel vivo dell'azione. Se il 9 gennaio è ancora in città certamente il 16 febbraio è già a Napoli e il 16 marzo è nominato segretario generale del Governo Provvisorio napoletano.[117]
Nel frattempo a Milano gli eventi precipitano. La volontà austriaca di riprendersi i territori del milanese era nell'aria. Si cercò inutilmente di racimolare un esercito ma se le grandi città avevano maturato un spirito nazionale, nelle campagne continuava diffuso l'attaccamento all'impero. Non fu difficile per l'esercito austro-russo sconfiggere i milanesi estranei a una tradizione militare. Quando in aprile gli austriaci entrarono a Milano il governo cisalpino si era già trasferito a Chambéry rifiutando di ritenersi destituito. Nei tredici mesi che seguirono l'Austria riuscì a tassare il milanese più di quanto non avevano fatto i francesi in tre anni, perseguitando chiunque, soprattutto la nobiltà, fosse stato di simpatie repubblicane. Tutte le cariche pubbliche furono rinominate. La vitalità cittadina soffocata.
Per questi motivi la vittoria di Napoleone a Marengo nel 14 giugno 1800 fu applaudita dai più come una liberazione. Ma di nuovo si operò per il rinnovamento non solo di tutti i quadri, ma persino delle più alte cariche, Napoleone preferendo sostituire per la quasi totalità il precedente governo e decretando la nascita della Seconda Cisalpina.
A Napoli intanto, sulla scia della sconfitta francese, il 13 giugno 1799 i Borboni ripresero il potere condannando oltre un centinaio di ribelli repubblicani. Fra questi anche Salfi che scampò la fucilazione fuggendo a Marsiglia, dove il governo francese si prendeva cura degli esuli napoletani. Da qui raggiunse Lione finché nell'aprile 1800, durante le fasi di ricostituzione di un esercito per riconquistare l'Italia, Salfi fu inviato a Parigi per arruolarsi nelle truppe di Murat. Dopo la vittoria di Marengo Salfi rientra definitivamente a Milano con foglio di via (19 giugno) e lettera di referenze (30 giugno), entrambe firmate da Murat.[118]
Ritorno a Milano
La lettera, dove si ricordano i suoi "talenti conosciuti nella repubblica letteraria" probabilmente indusse i responsabili del ricostituito governo ad assegnargli con decreto del 18 fruttidoro anno VIII (5 settembre 1800) la cattedra di professore di Logica e Metafisica presso le scuole di Brera,[119] quella appartenuta, durante gli scaduti tredici mesi austriaci, nientedimeno che a Francesco Soave, apprezzato erudito, già insegnante di Manzoni giovinetto, certamente non contrario alla Francia ma forse troppo anziano per continuare a insegnare e certamente ancora troppo orgoglioso della sua tonaca di padre somasco che poco s'addiceva a chi avrebbe dovuto formare l'uomo nuovo repubblicano.
L'incarico è di prestigio ma non sufficientemente pagato e soprattutto assai distante dagli interessi teatrali di Salfi. Ma lui ovviamente non si perde d'animo, e se ha sempre in mente di proporre un suo nuovo libretto per la successiva stagione scaligera, non trascura di interessarsi alle vicende del Teatro Patriottico le cui sorti sembravano prendere una piega di particolare prestigio.
Già all'inizio del 1798 il Collegio dei Nobili, nel cui teatrino scolastico la compagnia del Teatro Patriottico allestiva spettacoli, era stato restituito ai padri Barnabiti. Ma l'attività teatrale era troppo importante perché fosse interrotta e con risoluzione del "16 piovoso, VI repubblicano" (4 febbraio 1798) il Direttorio Esecutivo aveva assegnato allo scopo i locali della sconsacrata chiesa dei Santi Cosma e Damiano, ex sede del Consiglio dei Seniori ora insediati in Santa Maria alla Canonica.[120] Ma il teatro era tutto ancora da fare e la compagnia che si era costituita in Società del Teatro Patriottico Milanese si prodigò a raccogliere i fondi per l'adattamento dell'edificio secondo un progetto già di Piermarini, sviluppato poi da Pollak, suo allievo, e quindi fattivamente affidato al venticinquenne Luigi Canonica, "architetto nazionale" della Cisalpina.[121] La Società cominciò a raccogliere i soldi e i lavori iniziarono per poi essere interrotti con l'offensiva austro-russa.
Ritornati i francesi anche i lavori ripresero, seppur con difficoltà, per poter inaugurare il nuovo teatro entro la fine dell'anno, quando sarebbero stati finiti almeno gl'interni, visto che i soldi per la facciata non erano ancora stati raccolti. Oltre ai problemi della ristrutturazione non fu facilissimo nemmeno recuperare gli attori. La direzione della Società decise così d'inviare una lettera a ciascun socio in cui li si sollecitava a volersi rendere disponibili per le recite dell'imminente prima. Sopravvive infatti una copia di tale lettera a stampa una sorta di circolare con il nome del destinatario lasciato in bianco rilegata insieme all'elenco dei soci della Società Patriottica.[122] In tale elenco non solo compare il nome di Salfi, ma esso stesso riappare stampato in calce alla lettera quale presidente della Società.[123] Quando assunse tale incarico?
Ancora nell'aprile del 1799 (ovvero quando Salfi era a Napoli) Salvatore Lachini era il presidente della Società,[124] e pochi giorni prima l'inaugurazione del nuovo Teatro Patriottico, un avviso del 19 dicembre 1800 era firmato da Luciano Zuccoli, nuovo presidente.[125] La lettera di Salfi è successiva al 23 settembre 1800 giacché compare stampato "anno IX repubblicano". Non è improbabile però che fin dai primi giorni del suo rientro a Milano Salfi avesse sostituito Lachini, ma i motivi per cui la sua carica durò così poco e decadde proprio poco prima dell'apertura di stagione non sono noti. Forse si possono ricollegare al tentativo di Salfi, poi fallito, di inaugurare il nuovo Patiottico con la sua tragedia I trenta tiranni d'Atene, all'ultimo momento sostituita con Il Filippo di Alfieri,[126] ma se i termini in cui si svolse il cambio della guardia siano stati sereni o burrascosi non è noto.
Il governo non aveva del tutto disconosciuto la passione drammaturgica di Salfi e dieci giorni dopo avergli assegnato la cattedra a Brera, forse per rimpinguare lo scarso emolumento d'insegnante calcolato in 1760 lire annue, il 25 settembre [127] decide di assegnargli anche l'incarico di revisore delle composizione teatrali una sorta di giudizio di qualità che offriva a Salfi solo un'improbabile azione di veto risarcito con 240 lire annue per un totale di 2000 lire complessive.[128]
Solo tre settimane dopo aver ricevuto la cattedra, Salfi, che evidentemente non era soddisfatto, elabora la sua pensata e ne scrive al Comitato Governativo.[129] Ovvero: se, come pare, il Governo lo ha ritenuto degno di sostituire padre Soave in un incarico così prestigioso, perché, si chiede Salfi, esso Governo, che tanto lo stima, non gli assegna anche l'altro incarico già di Soave quale direttore delle Scuole Normali? E se, com'è vero, il Governo lo ritiene degno di poter contribuire alle sorti del teatro affidandogli l'incarico di revisore dei testi teatrali, perché, prosegue Salfi, quello stesso Governo non pensa di affidargli, già che c'è, l'intera direzione dei Teatri Nazionali? dove certamente il medesimo Salfi potrebbe assai meglio contribuire all'intento: il tutto naturalmente darebbe agio di rimpinguare la miserella paga d'insegnante con cui si sostenta (quasi che fosse necessario un alibi per aumentargli lo stipendio).
Questo piccolo capolavoro di retorica pro domo sua è concentrato nella lettera autografa inedita (in appendice a queste pagine) che restituisce non solo l'invero un po' capziosa abilità argomentativa di Salfi ma anche una non comune sfrontatezza, che insieme delineano, oltre a un ego sovradimensionato, un'intransigente determinazione a perseguire un fine, anche quando le circostanze non sembrano favorevoli. L'altra ipotesi ma per quanto se ne sa per ora rimane una mera illazione è che Salfi sapeva di rivolgersi a un interlocutore non solo benevolo ma desideroso di agevolarlo e di concedergli privilegi non riconosciuti ad altri.
Sia come sia il commissario di governo Francesco Pancaldi (a tutti gli effetti ministro dell'Interno della Seconda Cisalpina) s'informa sullo stato di salute degli incarichi direttoriali delle Scuole Normali e dei Teatri.[130] Il funzionario incaricato gli riferisce così che alle Scuole sono già in quattro a dividersi la carica di direttore, il titolare padre Moritz, Giacomo Pagani che svolge fattivamente l'incarico, il vicedirettore padre Niviani e infine lo stesso Soave con titolo onorifico e "senza soldo". Aggiungervi anche Salfi sarebbe stato quantomeno grottesco (e sostituirlo a Soave non gli avrebbe procurato giovamento economico alcuno). Per quanto riguarda invece la Direzione dei Teatri si fanno alcune osservazioni: innanzi tutto l'incarico è già ricoperto da Bartolomeo Andreoli ma poi, soprattutto, le funzioni del direttore non potrebbero soddisfare le aspettive di Salfi. Precisa infatti l'estensore della relazione che la Direzione dei Teatri
comprende tre oggetti: 1. vegliare alla decenza degli spettacoli; 2. prevenire i disordini; 3. procurare l'esecuzione del contratto da parte degli appaltatori. È diverso da questi tre l'oggetto per cui Salfi domanda la Direzione dei Teatri; lo scopo di Salfi è di riformare i teatri e dirigerli a quella meta che dee fissare il vantaggio della nazione e la gloria del governo.[131] |
Il corsivo è suo, ma non è enfatico, si limita a citare le parole di Salfi. D'altra parte come si aggiunge Salfi è certamente "uomo fornito de' lumi necessari per tale impiego" e potrebbe essere incaricato come Ispettore scientifico dei teatri, incarico vacante e già risarcito con un soldo di 3000 lire annue ora però ridotto a sole 1200.
Pancaldi fa suo il suggerimento del collaboratore e il 1° novembre 1800 propone all'Esecutivo l'assunzione di Salfi come ispettore, con il soldo tuttavia ridotto a 600 lire. L'Esecutivo evidentemente approva, perché il 15 novembre il ministro nomina Salfi "ispettore scientifico agli Spettacoli" e con altra lettera del 19 seguente chiede alla Contabilità di stabilire a quali casse dello Stato spetti l'esborso del soldo per il nuovo incarico.[132]
Di cosa si debba occupare l'ispettore scientifico è detto fugacemente in una lettera del ministero di Giustizia e Polizia del 4 febbraio 1801 da cui si presagisce una controversia fra Salfi e la Direzione teatrale. Qui si dice che l'ispettore deve dedicarsi "alla scelta delle composizioni teatrali ed alla loro ben intesa esecuzione",[133] ovvero una sorta di direttore artistico che se da un lato deve ricercare e selezionare i libretti d'opera (ovvero dei testi teatrali), dall'altro, dovendosi occupare della qualità e del modo più efficace della loro rappresentazione, non può non pretendere di dire la sua sia sulla scelta dei cantanti, che dei compositori, degli scenografi etc. Scelte queste di cui tradizionalmente (e anche contrattualmente) si assumeva responsabilità l'appaltatore. Che ne potesse scaturire un conflitto d'interessi non stupisce. Ma la controversia a cui fa cenno la lettera sembra d'altro tipo e pare mossa dallo stesso Salfi contro il Dicastero dell'Interno in quanto, forse, responsabile dell'operato del direttore dei Teatri.
Altro al momento non è possibile precisare, ma la convinzione che Salfi indirizzi le sue accuse alla Direzione teatrale muove dal fatto che pochi giorni prima, il 22 gennaio, dimesso Andreoli, era stato eletto al suo posto Ercole Silva.[134] Non è improbabile che Salfi avesse tentato, anche questa volta inutilmente, di ottenere l'ambìto incarico e sperasse perciò di mettere in cattiva luce il neoeletto. L'altra ipotesi si lega invece all'allestimento della sua Clitennestra. Certo non un felice proposito, e comunque equivocabilissimo, quello di far allestire come prima opera della stagione un suo testo.
Della Clitennestra, oltre alle informazioni ricavabili dal libretto, non sembra possibile offrire molte altre notizie.[135] Anche in questo caso Salfi è accoppiato con un compositore di origine napoletana e uno dei più quotati sulla piazza, Nicola Zingarelli. Assai meno influente sembra la sua partecipazione politica.
È curioso, ma i compositori e lo stesso valeva per Tarchi sembrano poter non certificare il loro retroterra ideologico. È senz'altro vero come detto [136] che i testi, anche i più accanitamente giacobini, limitavano in genere il loro slancio repubblicano a pochi versi; cosa che rendeva tutto sommato ininfluente da parte del musicista sposare o meno la causa rivoluzionaria (ma il non essersi troppo 'sporcato' con il governo austriaco non era elemento secondario). Non era però nel come si musicavano quei due o tre versi patriottici o in quante marcette si riusciva a infarcire l'opera che traspariva l'idea 'repubblicana' del melodramma. Era soprattutto l'assumersi la responsabilità della rottura anche compositiva con il regime precedente.
Molte delle esigenze teatrali di cui Salfi si fa portavoce la comprensione della parola, l'emozione del canto, l'aderenza al testo etc. sono semplicemente un voler restituire freschezza a un teatro che proseguiva ancora gli ideali del vecchio regime ma che l'abitudine a una tradizione vocale e teatrale, tanto straordinaria da non mettersi più in discussione, aveva fatto degenerare in manierismo. Altre invece erano proprio di rottura con il passato. L'idea di realismo, naturalezza, credibilità, che propugna Salfi, così romantica, così desiderosa di prendersi sul serio, così ottusa di fronte alla metafora della finzione e dell'artificio, erano certamente pretese che ai musicisti di antica scuola, come Tarchi e Zingarelli, dovevano stare assai strette: non per gl'ideali politici ma per la natura stessa dell'arte che gestivano. Fare a meno di colorature, di melodie accattivanti, dell'abilità contrappuntistica, fare a meno soprattutto dei castrati, macchine perfette di virtuosismo, era un po' chiedere al compositore di castrarsi esso stesso.
C'è in tutto questo una compartecipazione di fattori, perché le idee di Salfi sull'opera non sono quelle di un fanatico: non avrebbero avuto il successo che le tributerà il secolo entrante se quelle idee non fossero state condivise da altri. Ma se accanto a una sincera volontà di rinnovamento teatrale si colloca una fisiologica esigenza di rompere con il passato, non si può fare a meno di notare che in Salfi, e questo parrebbe paradossale proprio per il ruolo che si è trovato a svolgere a Milano, s'insinui un latente e tacito fastidio per il teatro d'opera.
Salfi, il melodramma e l'uomo nuovo repubblicano
Ma qui sta il nodo chiave: Salfi poco ama il teatro d'opera del suo tempo, anzi non lo ama affatto; e semmai tenta di occultare questa disposizione con l'alibi del "progesso dell'arte"[137] in una speranza di totale rinnovamento del melodramma. La sensazione è che Salfi si conceda al melodramma perché lo sa strumento efficacissimo di propaganda, pur detestandone gli usi e gli abusi che lo caratterizzano.[138] Salfi sa che la battaglia è persa e forse proprio per questo non teme di scrivere libretti dove il suo slancio drammaturgico si sente costretto e in fondo si muove male.[139] Libretti che di nuovo hanno poco (anzi è innegabile che l'impianto sia in sostanza ancora quello metastasiano) se non ideali di giustizia e libertà in genere assai diluiti che, in fondo, lo stesso Metastasio già esprimeva, senza pretedere di essere repubblicano. Salfi vorrebbe sì un teatro d'opera ripensato in tutte le sue parti, ma si trova a combattere contro tempi non ancora maturi a una simile rivoluzione drammaturgica. E d'altra parte è consapevole di poco o nulla avere influenza su tutti quegli aspetti non direttamente legati alla poesia:
Ma qualunque sia il merito o la virtù di un dramma, a che mai giova se debba essere affidato ad una classe d'esecutori che non hanno o non possono avere altro interesse che quello d'indebolirlo? [140] |
Da ciò la sua mortificazione e il suo atteggiamento ambivalente verso l'opera. Salfi cerca sostanzialmente due cose nel teatro: soggetti capaci di elevare lo spirito e il coinvolgimento emotivo del pubblico. Due nobili propositi che tuttavia, nel pensiero di Salfi, poco si conciliano con le forme e i propositi dell'opera in genere e, nello specifico, dell'opera del suo tempo.
I temi alti, degni e rispettabili sono quelli politici (ovviamente in senso repubblicano) ovvero morali. Temi di cui certamente scarseggiava l'opera sul finire del Settecento, tutta rivolta ad assai più disimpegnate questioni amorose o eventualmente comico-farsesche. Il suo scrivere libretti muove proprio dall'esigenza di compensare prima di tutto questa lacuna. Trascurato l'elemento buffo delle maschere e dei servi intriganti, eliminata ogni leggerezza e ironia, Salfi si concentra, compresissimo nel ruolo di restauratore del gusto, su temi in cui trionfi la libertà dell'individuo, l'eroismo per gli alti propositi, l'opposizione all'ingiustizia. Non un ideale originalissimo; erano i tempi: lo stesso Alfieri si era mosso in questa direzione, ma l'applicare simili intenti al melodramma, la cui popolarità difende l'atmosfera d'ancien régime, è operazione meno scontata e indolore.
L'aspetto però che rimane irrisolto, e che si confronta con la tradizione stessa dell'opera italiana, è quello del coinvolgimento che dovrebbe suscitare il teatro musicale e che invece, secondo Salfi, non suscita. Va subito detto che i canoni emotivi di Salfi, modellati su un teatro di parola che forse esisteva solo nella sua testa, scarsamente o per nulla si adattano alla tradizione operistica coeva. Salfi ritiene che il pubblico possa emozionarsi sol quando riesce a riconoscersi nell'azione e nei caratteri. Da qui un'esigenza costantemente ribadita di verosimiglianza che poco si sposa con lo stesso cantare.
Il recitativo e l'aria, quando non sia la canzonetta isolata, è per Salfi tutto quello che la finzione erge a baluardo. Salfi però comprende che non può intraprendere una battaglia contro il melodramma, e tenta di aggirare la questione insistendo sulla potenzialità propria della musica nell'indirizzare opportunamente i sentimenti. Ma quale musica? Certo non il virtuosismo di colorature e diminuzioni che tanto piaceva in quei giorni: un'esibizione vocale che non può comunicare alcunché all'infuori dello stupore e della meraviglia. Preferibile quindi un canto il più semplice possibile, sillabico, tutto modellato sulla parola e sul significato di questa; possibilmente nemmeno troppo 'cantato':
Spesso la troppa ricchezza de' così detti motivi musicali soffoca la passione e la verità. Se ne ha un esempio nell'aria che canta Ecaride nel II atto [della Congiura pisoniana]. In essa il canto si arresta importunamente là dove non è terminato il sentimento; quindi il sentimento s'indebolisce o si distrugge e la musica non fa niuno effetto appunto per avere il compositore studiato di farne troppo.[141] |
Un canto soprattutto interpretato con quell'emozione capace di trasmetere il non detto proprio del testo; e per esempio, ancora in riferimento alla sua Congiura pisoniana dirà:
nelle due arie di Pisone, ancorché le parole e il sentimento esprimano il dolce amor di patria, ora i voti di un conspiratore che affida la congiura alle tenebre della notte non dovea mai improntarsi ad esse quella maniera cascante ed effeminata che converrebbe agli eroi amorosetti di Metastasio.[142] |
L'eroe quindi al possibile virile e giammai sedotto dalle decadenze aristocratiche del passato regime. Ma soprattutto l'emozione deve trasmettersi anche con il gesto e i movimenti di scena che saranno il meno artificiali e preconfezionati possibili, e insieme coerenti con il ruolo del personaggio. Soprattutto la dizione dovrà essere intelligibile e non serva del canto:
Gli attori, o per dir meglio i cantanti hanno mostrato almeno in qualche sera che possono anche più agire se volessero meno cantare. Questi credono ordinariamente di essere nati e di vivere per semplicemente canticchiare. La loro declamazione si limita ad una a, e al più ad una e. Fortuna per essi e per gli stupidi ascoltatori se una di queste lettere si afferri da siffatti organi musicali! [143] |
Ancora: i costumi e le scene. Intollerabili le ostentazioni di abiti sontuosi e difformi dall'immaginario storico dell'uomo repubblicano, come intollerabili sono scorci scenici non giustificati dall'azione o in contraddizione con l'epoca rappresentata. Anche in questo caso la ricerca della verosimiglianza serve alla credibilità del narrato.
Ma l'oggetto contro cui Salfi si getta con veemente intransigenza sono i castrati emblema non solo dell'opera del passato, ma della stessa mentalità codina e indifferente alla dignità dell'individuo. "Mezzi uomini" resi tali per il piacere dell'arte, e di un'arte indifferente ai valori etici, e solo ricerca di stupore e artificio. Salfi detesta non solo il cantare pirotecnico del castrato, ma anche il suo non essere sessualmente definito; un uomo che non sembra più un uomo né si capisce cosa sia: attore nel cui corpo nessuno potrebbe ragionevolmente immedesimarsi.
Così a parole: eppur poi l'eroe della sua Congiura Pisone stesso è il castrato Giovanni Rubinelli. Si dirà: imposizioni dell'imprenditoria teatrale (più sensibile al botteghino che agli ideali repubblicani) a cui Salfi non ha potuto sottrarsi. Forse, ma allora perché offrire il destro con la solita scena di prigione esangue e rassegnata (l'aria "Notte che amica e placida") in cui tutto sembra preparato per far languire sentimento tanto assai antirepubblicano il castrato di turno? E Galdi giustamente obietterà:
Le parole son belle, la musica ancora, ma è verisimile che un capo di congiurati, cioè un uomo agitato da tutte le più forti passioni, possa esprimersi sì teneramente e come un amante che va in barca a Mergellina e canta al raggio della notturna luna i propri amori? [144] |
Anche fra i lettori del "Giornale de' patrioti" chi meglio aveva imparato gli insegnamenti repubblicani si sentirà in dovere di chiedere: "Pisone era un uomo o uno spadone? [sc. castrato]",[145] la cui contrapposizione uomo/castrato fa rabbrividire e ben delinea le isterie dell'epoca, oltre a offrire a Galdi la possibilità di ribadire:
Avete ragione che Pisone non era eunuco, la storia lo caratterizza per uomo in tutta l'estensione del significato; ma se le Epicari, le schiave, potean congurare contro il governo, io non veggo alcun inconveniente che avessero potuto congiurare anche gli eunuchi. A' tempi di Claudio e di Nerone la penuria degli uomini interi fu sì grande che gli eunuchi li rimpiazzavano anche nelle congiure. Pallante e Narcisso fecer morir Claudio: Pallante e Narcisso erano eunuchi. Contentatevi di ciò, caro amico, io son del vostro sentimento e vorrei che i Bruti e i Pisoni non fossero eunuchi, ma quando la necessità porta così, fino alla prossima rigenerazione dell'Italia bisogna aver pazienza. Del resto se incominceranno a congiurare contro i tiranni allora non crederei che si potesse negare il nome di uomini anche agli eunuchi.[146] |
A prescindere dal fatto che le informazioni storiche di Galdi lasciano a desiderare, giacché né Pallante e né Narcisso erano eunuchi, ma solo liberti,[147] stupisce osservare con quanta violenza e disprezzo si trattino i castrati nemmeno degni di appartenere al genere umano quasi fossero loro la causa di tutte le sciagure dell'opera italiana. E Salfi non si dimostra più accondiscendente quando si ritrova a riferirsi a Crescentini, il giorno dopo la prima scaligera del Meleagro, rispondendo pubblicamente a un'interlocutrice anonima dalle pagine del "Termometro politico":
... vi mostraste alquanto dolente della mia maniera di pensare sul fatto dell'infelice Crescentini. No cittadina, io non perseguito gli uomini, e quelli particolarmente che meritano più la nostra commiserazione. Io compiango in lui la vittima del capriccio, dell'inumanità e della barbarie. Ma questa medesima compassione che io esercito verso un essere degenerato della sua specie si trasmetta nell'odio più conseguente contro i barbari autori di quest'infame degenerazione. Un uomo evirato! un castrone! Qual mostro? qual orrore per un amico della ragione e dell'umanità? a tollerare uno scandalo di questa sorte non si chiede meno di quella persuasione tirannica che costituisce il carattere di quei pochi al cui capriccio si è finora sacrificato l'interesse, l'umanità, l'entità di tutti.[148] |
Insomma i castrati "queste maschere che servono da femmina e da uomo e non sono né uomini, né femmine"[149] erano proprio un'ossessione per il repubblicano doc. Tanto un'ossessione che in successive sedute dedicate ai teatri nazionali del Gran Consiglio della Repubblica Cisalpina, fra il novembre 1798 e il luglio 1798, i castrati divennero uno dei tre o quattro punti caldi ripetutamente affrontati, e tanto si disse e si pretese che alla fine se ne deliberò la totale prescrizione dalle scene.[150] Il motivo è evidente e il legame con i regimi passati è solo un alibi; nella realtà delle cose l'ideologia rivoluzionaria ha bisogno di affermare la naturalità dell'essere uomo e donna contro le apparenze di classe e gli artifici della cultura nobile (e pertanto corrotta), naturalità che se da un lato inorridisce a una sua alterazione (come la castrazione) dall'altro non esita a riscoprire il piacere di un'esibita corporeità. Ben se ne accorsero i contemporanei meno permeabili al vento di Francia, che trovavano riprovevole la nuova moda che esponeva il corpo senza ritegno (e soprattutto le parti più sessualmente connotate): un vezzo che se era solo stravagante negli uomini (quando non sintomo di stoltezza), certamente diventava inaccettabile e immorale nelle donne. È prezioso in questo senso l'inedita annotazione di Mantovani tratta dal resoconto degli ultimi mesi dell'anno 1797:
vi figurerete assai facilmente a quale eccesso dovesse giungere la sfrontatezza nella nostra città. Prescindendo adesso dalle ridicole puerilità nel vestito e portamento, come a dire di quegli altissimi e voluminosi coletti in cui vi si fascia e gola e mento la nostra gioventù, dalle acutissime scarpe o stivali per cui inciampano ad ogni passo, di quello sporco selvatico pellume che nodrisce lateralmente alle guancie per diformare la buona fisionomia e contraffar l'aria o di passata malattia o di sofferta prigionia, dallo imbuellarsi e coscie e natiche e ventre in elastici e sottili calzoni, e delle succinte e stomacanti pezze sovrapposte alla porzione cavalcante de' medesimi, e di mille altre inezie che in altri tempi facevano arrossire siccome segnali di leggero e sventato cervello; prescindo, dico, da tutto ciò e solo mi riporto alla moralità del costume. Per quanto Milano vi sembrasse poco morigerata anche prima dell'ingresso dei francesi, al confronto d'oggi con allora l'avrebbe chiamata santa. Voi adesso rivedete in essa la gioventù d'ambo i sessi scherzare senza alcun ritegno nelle pubbliche piazze e le femine paoneggiarsi di un vestito il più immodesto e lussurioso che mai la moda ha potuto ideare. Braccia, seno, spalle, tutto è perfettamente scoperto. L'acconciatura del capo varia alla giornata, tutto è sparso di fiori, piume, oro falso, e quasi coperto da un caschetto militare da cui pende una disordinata mazza di capelli posticci ad imitazione dei Dragoni francesi che da ciò diconsi criniti; l'impudenza anche di alcune usa di una veste sciolta da capo a piedi ed aperta nel mezzo per cui veggonsi e gambe e coscie strette in sotti-lissime maglie color di carne. A tale esteriore voluttuoso corrisponde esattamente il costume, e quel che più conta non si bada a scandalizzare il prossimo col mangiar grasso in venerdì e sabato [151] |
Ancora dodici anni nella capitale d'Italia
Cambiasi riferice che Clitennestra ebbe un esito "buonissimo".[152] Ignote sono le fonti a cui avrebbe attinto, ma non si fa fatica a immaginare che buon gioco ebbe la musica di Zingarelli se ancora nell'Ottocento la si giudicava fra le sue cinque o sei opere migliori.[153] In seguito non vi saranno altri lavori su libretto di Salfi né alla Scala e in né in altri teatri. Non pare tuttavia che questo improvviso cambio di rotta possa essere legato all'esito di Clitennestra, qualunque fosse stato. Tant'è che ancora nel 1801 Salfi mette mano a nuove iniziative in ambito teatrale pubblicando la tragedia Pausania [154] e cominciando a scrivere i Plateesi (che tuttavia rimarrà inedita).
La sensazione è invece che dovettero acuirsi le incomprensioni con la Direzione dei Teatri compromettendo, nella sostanza, il buon gioco che Salfi aveva goduto fino a quel momento come autore drammatico. La crisi infatti inizia già con la stagione successiva. La prima opera in programma, I Manlii di Antonio Sografi e Giuseppe Nicolini, fu un fiasco colossale. Sografi era librettista, oltre che raffinato, già prestato alla causa repubblicana fin dal Matrimonio democratico ossia Il flagello de' feudatari, e non si fa fatica a supporre che l'"ispettore" Salfi, lo abbia personalmente richiesto per quella stagione. Il 26 dicembre 1801 la prima dei Manlii ha esito tanto cattivo che la Scala è obbligata, per sedare le proteste del pubblico, a restituire un quarto del prezzo del biglietto. Ma non basta. Il governo, il 29 stesso affigge vari manifesti in cui, per scusarsi dell'accaduto, notifica i nomi dei tre memebri eletti a formare la "Commissione per il miglioramento degli Spettacoli",[155] titolo demagogico quanto mai che ben rivela quanto fosse stata feroce l'indignazione popolare. La sensazione è che non tutte le colpe dovevano essere di Salfi; certamente lo stesso direttore Silva aveva i suoi torti se, a carnevale concluso, chiederà di essere dimesso.
Di questa nuova commissione facevano parte Andrea Appiani, il pittore di Napoleone (si suppone destinato a garantire la qualità visiva dell'allestimento), Angelo Petracchi (esperto di questioni organizzative) [156] e Carlo Brentano de Granty, apparentemente semplice poeta garbato e semmai curioso di cose teatrali, in realtà vera anima del gruppo.[157] La commissione nella sostanza subentra al direttore dei Teatri e non si fa fatica a dedurre che se Silva non è stato sostituito da Salfi, come questi avrebbe certo auspicato (cosa che il governo sapeva benissimo), è chiaro che anche Salfi era ritenuto in qualche modo corresponsabile dell'accaduto. Dato certo è che il 2 maggio ormai costituita la Repubblica Italiana (26 gennaio 1802) e quindi in un clima politico di rinnovamento alle dimissioni di Silva subentra proprio Grianty.[158]
Salfi, che continuava a ricevere l'onorario di professore, da aprile, senza alcuna spiegazione, è privato di quello di ispettore scientifico. Nessuna protesta: forse se lo aspettava. Fatto sta che a settembre riceve di nuovo il soldo di giugno e luglio.[159] È chiaro che si tratta del contentino per essere stato liquidato, tant'è che con decreto dell'8 settembre 1802 la revisione dei testi teatrali è affidata allo stesso Grianty,[160] ma a quel punto, il giorno stesso, Salfi, fingendo di tutto ingnorare, scrive al governo per avere notizia dei suoi soldi relativi ad aprile e maggio.[161] Non solo, ma continua a comportarsi come nulla fosse: in un tête-a-tête dei primi d'ottobre con Grianty nega di esser mai stato estromesso. Il nuovo direttore, con il suo solito savoire faire, scriverà al ministro per sapere, giacché sembrava ormai certo che l'incarico dell'ispettore scientifico fosse venuto a cadere, quale mai doveva essere l'incombenza di Salfi che dichiara di godere ancora di quel posto? [162]
Non trovo purtroppo risposta alla lettera di Grianty (se non l'ordine di pagare i due mesi arretrati)[163] ma è chiaro che Salfi non ha più storia nell'amministrazione teatrale a Milano: nessuna delle carte superstiti dopo il 1801 porta la sua firma o cita il suo nome. Salfi rimarrà a Milano ancora dieci anni. Sostanzialmente lasciato da parte come autore di teatro,[164] il governo della Repubblica prima e del Regno poi gli riconoscerà prestigiosi incarichi quale docente a Brera e in altre scuole di livello universitario; ma uno studio sulla sua attività d'insegnante esula da queste pagine. Salfi tuttavia non pare contento di come si siano evolute le cose. Gli autografi sopravvissuti di questo periodo sono in sostanza reclami per ritardi nei pagamenti del suo stipendio o per adeguamenti del soldo non aggiornati al nuovo incarico.[165] Salvi sembra essere diventato molto meno idealista e la sua rinvigorita ostilità nei confronti di Napoleone, accompagnata da una rinnovata attenzione per i circoli massonici milanesi, testimoniano forse il suo malcontento (almeno in parte legato al fallimento della vicenda teatrale). Dalla citata lettera di Grianty dell'8 settembre 1802 non si fa fatica a immaginare che dietro il tono formale ci sia una fondamentale ostilità fra i due personaggi (è evidente che Grianty con la sua solita abilità diplomatica deve aver avuto miglior gioco nell'estromettere Salfi che non viceversa), personaggi che in qualche modo si danno il cambio nel segnare le evoluzioni della storia teatrale della Milano francese.
Probabilmente Salfi non fu la causa del percorso di rinnovamento teatrale che da quel momento in poi Milano e la Scala proporrà al mondo operistico, ma certamente il suo alzare la voce gli permise di diventare in qualche modo rappresentanza di un gusto che stava cambiando proprio a partire da Milano. La passione filofrancese che la città preservò anche al ritorno del governo austriaco soprattutto in ambito teatrale ma non solo certamente poco si lega a Salfi, né tantomeno tale passione ha mai riconosciuto in Salfi uno dei suoi padri teorizzatori. Ma è un dato di fatto che le speranze di Salfi sull'opera dell'avvennire non solo si sono avverate ma sono state alla base della grande produzione ottocentesca.
Non c'è in verità gran merito a esser precursori. Ed è questo il vero limite di Salfi. Non la modestia dei suoi versi o l'incapacità di una costruzione drammaturgica ripensata per la musica (malgrado, da Calzabigi a Da Ponte, fossero già iniziati i fermenti in questo senso); Salfi fallisce perché mira a una concezione del melodramma che, poco adatta ai tempi, si rivela sostanzialmente solo teorica e in quel contesto non praticabile. Insieme, in questo involucro ideale, il libretto d'opera di Salfi non ha un suo spazio e non trova punti d'appoggio per rinnovarsi: e si rivela sostanzialmente artificioso e distante dall'universo melodrammatico auspicato.
Ciò malgrado Salfi fu abile divulgatore almeno delle sue teorie; teorie che alla fine attecchirono ed ebbero la meglio sul vecchio sistema. Tutto merito di Salfi? Probabilmente no. Se non lui altri, forse meglio di lui, avrebbero fatto lo stesso: il clima politico e l'ideologia del momento andava in quella direzione. Ma Salfi c'era, e di questo almeno dobbiamo dargliene atto.