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L'armonia delle sfere: testi

 

Inno a Ermes (viii a.C.)

Gli Inni omerici sono una collezione di trentaquattro inni anonimi risalenti al vii-vi sec. a.C. Sono detti omerici perché scritti nello stesso dialetto dell'Iliade e dell'Odissea. L'attribuzione ad Omero (ma gli inni furono scritti da poeti diversi) risale a Tucidide (v sec. a.C.) | testo greco

da Comotti 1979
Nell'inno omerico ad Hermes due sono i momenti in cui la musica appare in primo piano nel racconto mitologico: all'inizio (vv. 20-64) quando Hermes appena nato fabbrica la lira con il guscio della tartaruga, e verso la conclusione (vv. 416-507) quando il dio, con il dono della lira, placa il risentimento di Apollo, al quale egli aveva sottratto con ingegnosi artifici la mandria delle cinquanta vacche. Nel corso della narrazione Hermes intona due volte il suo canto, accompagnandosi con il nuovo strumento: egli tesse le lodi della sua stirpe e della sua casa in un carme improvvisato, così come i giovani in festa, durante i banchetti, si sfidano con strofe pungenti (vv. 55-56), e narra poi, in un quadro di più ampio respiro, l'origine del cosmo e degli dei, tra i quali egli riserva a Mnemosine (la memoria), madre delle Muse, l'onore del primo rango (vv. 423 -433). Nei due episodi si può rilevare un riferimento a due generi musicali molto comuni nella grecità arcaica, al canto simposiale che trova i suoi argomenti nell'occasione della festa, e all'inno in onore degli dei, per il quale il cantore attinge al repertorio mitologico memorizzata e affidato alla tradizione orale. Notevoli, nel dialogo tra Hermes e Apollo che accetta di buon grado il dono della lira, gli accenni alle occasioni della musica e del canto – il banchetto, la danza, la festa – agli effetti della musica sugli ascoltatori (con la musica è possibile raggiungere tutte insieme tre cose, la gioia, l'amore e il dolce sonno) ed infine alla funzione didascalica del canto stesso e alla professionalità del cantore: la lira insegna tutto ciò che è gradito alla mente quando è suonata con mano lieve e delicata esperienza da chi dopo lungo studio, la mette alla prova con arte e dottrina.

  O Musa, canta Ermes, figlio di Zeus e di Maia,
signore di Cillene e dell'Arcadia ricca di greggi,
messaggero veloce degl'immortali, che Maia generò,
la ninfa augusta dalle belle trecce, unendosi in amore con Zeus.
Invocazione alla musa
5 Ella sfuggiva il consesso degli dei beati,
dimorando nell'antro ombroso, dove il Cronide
era solito unirsi con la ninfa dalle belle trecce, nel buio della notte
– mentre il dolce sonno teneva Era dalle bianche braccia –
celandosi agli dei immortali e agli uomini mortali.
Amore di Maia con Giove,
all'insaputa di Era
10




15
Ma quando fu attuato il disegno del grande Zeus,
e per lei la decima luna si stabilì nel cielo,
il dio portò alla luce il fanciullo, e la sua opera fu palese:
allora ella generò un figlio dalle molte arti, dalla mente sottile,
predone, ladro di buoi, ispiratore di sogni,
vigile nella notte, che sta in agguato alle porte; egli ben presto
avrebbe compiuto gesta famose al cospetto degl'immortali.
Nascita di Mercurio



20
Nato all'aurora, a mezzogiorno suonava la lira,
e dopo il tramonto rubò le vacche di Apollo arciere,
nel giorno in cui lo generò Maia veneranda, il quarto del mese.
Egli, quando balzò fuori dal grembo immortale della madre,
non giacque a lungo inerte nella sacra culla,
ma saltò in piedi, e si diede a cercare le vacche di Apollo,
varcando la soglia dell'antro dalla volta sublime.
Ruba le vacche di Apollo

25
Là fuori trovò una tartaruga, e ne trasse gioia infinita:
in verità, Ermes fu il primo che creò una tartaruga canora.
Quella gli si parò di fronte presso l'uscita della corre,
pascendosi, davanti alla casa, dell'erba rigogliosa,
e zampettando placidamente: il veloce figlio di Zeus
rise al vederla, e subito disse:
La tartaruga
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«Ecco già un segno molto fausto per me: non lo dispregio.
Salve, amica della mensa, dall'amabile aspetto, che accompagni la danza;
tu appari benvenuta: donde vieni, o bel giocattolo?
Tu indossi un guscio variegato, tartaruga che vivi sui monti;
ebbene, io ti prenderò e ti porterò a casa; in qualche modo mi sarai utile,
e non ti trascurerò: anzi tu gioverai a me prima che ad ogni altro.
E meglio stare in casa: c'è pericolo fuori.
Tu certo sarai per me una difesa contro il sortilegio funesto,
da viva; e se poi tu morissi, allora sapresti cantare a meraviglia».
Così disse, e, sollevatala a due mani,
subito si diresse dentro la casa, portando l'amabile giocattolo.
Parla con lei




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Poi, spingendo con una lama di grigio ferro,
estrasse la polpa della tartaruga abitatrice dei monti.
Come quando un rapido pensiero attraversa l'animo
di un uomo che travagliano numerosi affanni,
o quando balena dagli occhi la luce dello sguardo,
così il glorioso Ermes pensava insieme le parole e gli atti.
Tagliati nella giusta misura steli di canna, li infisse
nel guscio della tartaruga, perforandone il dorso.
Poi, con la sua accortezza, tese tutt'intorno una pelle di bue;
fissò due bracci, li congiunse con una traversa,
e tese sette corde di minugia di pecora, in armonia fra loro.
Costruisce la chelys



55




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E quando l'ebbe costruito, reggendo l'amabile giocattolo,
col plettro ne saggiò le corde, una dopo l'altra: quello sotto la sua mano
diede un suono prodigioso, e il dio lo seguiva col suo dolce canto
cimentandosi nell'improvvisare, così come i giovani,
in festa, durante i banchetti, si sfidano con strofe pungenti:
cantava di Zeus Cronide e di Maia dai bei calzari,
come un tempo s'incontravano nell'amplesso amoroso,
e così celebrava la propria nobile stirpe;
esaltava poi le ancelle e la splendida dimora della ninfa,
e i tripodi nella casa, e i numerosi lebeti.
E mentre cantava, già nella sua mente meditava altre imprese.
Portata la concava lira nella sua sacra culla
ve la depose [...]
Suona e canta
     




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[...] E facilmente egli placò proprio
come voleva, il figlio della gloriosa Leto, l'arciere,
per quanto fosse ostinato: la lira, tenuta sul braccio sinistro,
saggiò col plettro, una corda dopo l'altra; quella, sotto la sua mano,
mandò un suono prodigioso. Sorrise Febo Apollo
rasserenandosi: gli penetrò nell'animo l'amabile armonia
della voce divina, e un dolce desiderio lo prese
al cuore, mentre ascoltava. Suonando soavemente la lira
il figlio di Maia, sicuro di sé, stava alla sinistra
di Febo Apollo: ben presto, traendo limpide note dalla cetra
cominciò a cantare – e lo assecondava l'amabile voce –
celebrando gli dei immortali e la terra tenebrosa:
come, al principio dei tempi, ebbero origine, e come ciascuno ottenne la sua parte.
Placa Apollo con la sua lira

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Al primo posto fra tutti gli dei esaltava col canto Mnemosine,
la madre delle Muse: a lei infatti apparteneva il figlio di Maia;
poi, secondo il rango e secondo la nascita di ognuno,
l'augusto figlio di Zeus esaltava gli dei immortali
tutto narrando con arte, e suonando la cetra che teneva sul braccio.
Canta Mnemosine

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Un desiderio irresistibile prese il cuore di Apollo, nel petto,
e, rivolgendosi ad Ermes, pronunciò parole alate:
«Uccisore di vacche, briccone sempre in faccende, amico della mensa,
tu hai inventato qualcosa che vale cinquanta vacche:
credo che d'ora in poi ci metteremo facilmente d'accordo.
Commozione di Apollo

440
Ma ora, suvvia, rispondimi, figlio di Maia, dalle molte risorse:
quest'arte miracolosa ti ha accompagnato fin dalla nascita,
oppure uno degl'immortali, o degli uomini mortali,
ti ha fatto questo dono stupendo, e ti ha insegnato il canto divino?
Da dove lo strumento?


445
Meravigliosa è la nuova voce che odo,
e io affermo che mai alcuno degli uomini ne è venuto a conoscenza
né alcuno degli dei che abitano le dimore dell'Olimpo,
se non tu, furfante, figlio di Zeus e di Maia.
Che arte è questa? Cos'è questo canto che ispira passioni irresistibili?
Quale la via per attenerlo? Con esso, veramente è possibile
raggiungere tutte insieme tre cose: la gioia, l'amore, e il dolce sonno.
Più di ogni altro divino
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455
Anch'io, certo, mi accompagno con le Muse dell 'Olimpo
cui sono care le danze, e la via luminosa del canto,
e la fiorente melodia, e il clamore dei flauti, pieno di desiderio;
eppure, finora, nessun'altra cosa fu mai tanto cara al mio animo
fra le prove di bravura che si odono nei banchetti dei giovani:
io vedo con ammirazione, figlio di Zeus, con quanta dolcezza suoni la cetra.
Mignore di ogni strumento




460
Ma ora, poiché, pur essendo piccino, nutri alti pensieri,
siedi, mio caro, e dà ascolto col tuo animo a chi è più vecchio di te.
Ora, senza dubbio, sarete famosi tra gli dei immortali
tu stesso e tua madre; e questo ti dirò sinceramente:
in verità, per questa mia lancia di corniolo,
io t'insedierò fra gl'immortali come guida, prospero e glorioso,
e ti darò magnifici doni, e fino in fondo non verrò meno alle promesse».
Apollo premia Mercurio


465
A lui Ermes rispose con abili parole:
«Tu m'interroghi con molta eloquenza, o arciere; ed io, da parte mia,
non ho nulla in contrario a che tu apprenda la mia arte.
Parla Mercurio




470
Oggi stesso la conoscerai: in verità voglio esserti amico
nel pensiero e nelle parole. Ma tu, nella tua mente, già conosci bene ogni cosa:
al primo posto infatti, figlio di Zeus, tu siedi fra gl'immortali,
forte e possente: e ti ha caro il saggio Zeus,
come è pienamente giusto, e ti ha concesso magnifici doni
e privilegi; dicono poi che tu abbia appreso dalla voce di Zeus
i vaticinii o arciere – da Zeus derivano tutti gli oracoli –
in questo campo so bene io stesso, ragazzo mio, che tu sei ricco;
ed è facile per te imparare qualunque cosa tu voglta.
Mercurio si dispone
a insegnare ad Apollo
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Ma, poiché dunque il tuo cuore è ansioso di suonare la cetra,
canta e suona e abbandonati a questa gioia
che ricevi da me; da parte tua, mio caro, lascia a me la gloria.
Soavemente canta, tenendo fra le mani la canora compagna
che sa parlare con dolcezza e con armonia.
D'ora in poi, con animo sereno, portala al banchetto fiorito,
all'amabile danza, alla splendida festa,
per la gioia del giorno e della notte. Se alcuno,
dopo lungo studio, la mette alla prova con arte e dottrina,
cantando ella insegna tutto ciò che è gradito alla mente,
suonata con mano lieve e con delicata esperienza;
e rifugge dallo sforzo logorante. Ma se qualcuno,
inesperto, la tenta da principio con mano rude,
allora balbetterà fuori tono, a vuoto.
Che sia strumento d'Apollo

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495
Del resto, è facile per te imparare qualunque cosa tu voglia.
E in verità io ti farò dono della lira, nobile figlio di Zeus:
io, da parte mia, per il monte e per la pianura nutrice di cavalli
mi aggirerò tra i pascoli, o arciere, con le vacche abitatrici dei campi.
Colà le vacche accoppiandosi coi tori partoriranno io abbondanza
maschi e femmine alla rinfusa; e non conviene che tu,
per quanto avido di guadagno, ti adiri oltre misura!»
Per Mercurio le vacche




500
Così di cendo, porse la lira; Febo Apollo la prese,
e volentieri donò a Ermes la sferza rilucente
e gli affidò la cura dell'armento: la assunse il figlio di Maia
con animo lieto. E, reggendo con la sintstra la lira,
l'augusto figlio di Leto, il dio arciere, Apollo,
col plettro saggiò il tono delle corde; quella, sotto la sua mano,
diede un suono prodigioso, e il dio la seguiva col suo dolce canto.
Apollo dona le vacche
a Mercurio e suona


505
Dunque le vacche verso il prato divino
guidarono; ed essi, gli splendidi figli di Zeus,
si affrettarono sulla via del ritorno, verso l'Olimpo nevoso,
rallegrandosi con la lira; si compiacque perciò il saggio Zeus,
e li strinse in amicizia [...]
Riconcilia: felicità di Giove
  [trad. di F. Cassola]  

Medietà

Il concetto matematico assume importanza nella filosofia greca, anche in funzione etica, perché elemento di contatto fra due estremi, capace di podurre un continuum.

I greci conoscevano tre tipi di 'medio': aritmetico, geometrico, armonico.

Medio aritmetico: è il valore intermedio fra due estremi (per es. fra 12 e 6 il medio aritmetico è 9). Si calcola sommando i valori e dividendo per due. Se la somma dei due estremi corrisponde al diametro, il medio aritmetico è il raggio.

Medio geometrico: definisce un valore proporzionale (il primo sta al medio come il medio al secondo: per es. fra 9 e 4 il medio geometrico è 6). Si ottiene dalla radice del prodotto dalla moltiplicazione dei due fattori. In una circonferenza, il medio geometrico è il semiasse che passa per il punto di contatto e il perimetro.

Medio armonico: stabilisce un rapporto il cui valore si colloca nella differenza fra i due estremi con la stessa proprozione che mette in rapporto gli estremi. Per es. se a è 6 e b è 3 il rapporto è 2:1 per cui, calcolata la differenza fra a e b in 3, questa sarà divisa in proprozione (dove y è 2 e z è 1) e il medio x sarà 4. Si calcola facilmente raddoppiando il prodotto dei due valori estremi e dividendo per la somma degli stessi. Il medio armonico può essere visualizzato in una doppia circoferenza dove il circoletto interno identifica la differenza fra gli estremi a e b (la suddivisione fra y e z ha lo stesso rapporto di a e b)

In genere il medio armonico s'individua fra valori doppi o tripli: nel primo caso l'incremento rispetto a b è di 1/3, nel secondo caso di 1/2:

È possibile inoltre dimostrare che il medio aritmetico (r = raggio), il medio geometrico (s = semiasse) e il medio armonico (x) sono in relazione secondo la formula s2 = rx

Basta visualizzare geometricamente le tre medie osservando che il medio geometrico, corrisponde al quadrato (in verde) costruito sul semiasse (s). Invece di duplicare il numeratore (2ab) secondo formula, si può dimezzare il denominatore (a+b), usando il raggio invece del diametro per ottenere un rettangolo (in giallo) con un lato uguale al medio armonico (x) e l'altro a quello geometrico o raggio (r).

Nel disegno si propongono i due casi in cui la proporzione a:b prima è doppia e poi tripla (quelle più comuni alla musica). Si ha così che fra quadrato verde e rettangolo giallo l'area è la stessa, escludendo la porzione in comune e facendo corrispondere i triangoli rettangoli di contorno:

Platone

[passi dalla traduzione pubblicata da Laterza (Giarratano)]

Repubblica

Il più celebre dialogo platonico (ca 380-70 a.C.), diviso in 10 libri che tratta dello Stato ideale: 1. Introduzione | 2-3. Giustizia (etica) | 4-5. Rapporto fra materiale e idee (ontologia) | 6-7. Conoscenza (gnoseologia) | 8-9. Individuo nello Stato (filosofia politica) | 10. Immortalità dell'anima (mito di Er).

616b-617b: Nel Mito di Er le anime, una volta premiate o punite, hanno modo di vedere il cosmo e la sua organizzazione: 8 sfere concentriche tenute insieme dal fuso di Ananke (Necessità) su cui altrettante sirene cantano insieme alla voce di tre Moire.
Letto da Davide Grioni

[614b] ... ti racconterò ... la storia del valoroso Er figlio di Armenio, di schiatta panfilia. Costui era morto in guerra e quando dopo dieci giorni si raccolsero i cadaveri già putrefatti, venne trovato ancora incorrotto. Portato a casa, nel dodicesimo giorno stava per essere sepolto. Già era deposto sulla pira quando risuscitò e, risuscitato, prese a raccontare quello che aveva veduto nell’aldilà. Ed ecco il suo racconto.

Uscita dal suo corpo, l’anima aveva camminato insieme con molte [c] altre ed erano arrivate a un luogo meraviglioso, dove si aprivano due voragini nella terra, contigue, e di fronte a queste, alte nel cielo, altre due. In mezzo sedevano dei giudici che, dopo il giudizio, invitavano i giusti a prendere la strada di destra che saliva attraverso il cielo, dopo aver loro apposto dinanzi i segni della sentenza; e gli ingiusti invece a prendere la strada di sinistra, in discesa. E anche questi avevano, ma sul dorso, i segni di tutte le [d] loro azioni passate. Quando si era avanzato lui, gli avevano detto che avrebbe dovuto descrivere agli uomini il mondo dell’aldilà, e che lo esortavano ad ascoltare e contemplare tutto quello che c’era in quel luogo. E lí vedeva le anime che, dopo avere sostenuto il giudizio, se ne andavano per una delle due voragini, sia del cielo sia della terra; attraverso le altre due passavano altre anime: dall’una, sozze e polverose, quelle che risalivano dalla terra; dall’altra, monde, altre che scendevano dal cielo. E [e] quelle che via via arrivavano sembravano venire come da un lungo cammino. Liete raggiungevano il prato per accamparvisi come in festiva adunanza. E tutte quelle che si conoscevano si scambiavano affettuosi saluti: quelle che provenivano dalla terra chiedevano alle altre notizie del mondo celeste, quelle che provenivano dal cielo notizie del mondo sotterraneo. Si scambiavano i racconti, le prime [615a] gemendo e piangendo perché ricordavano tutti i vari patimenti e spettacoli che avevano avuti nel loro cammino sotterraneo (un cammino millenario), mentre le seconde narravano i godimenti celesti e le visioni di straordinaria bellezza. [...]

[616b] Quando i singoli gruppi che si trovavano nel prato vi avevano trascorso sette giorni, nell’ottavo dovevano levarsi di lí e mettersi in cammino, per giungere nel quarto giorno in un luogo donde potevano scorgere, tesa dall’alto attraverso tutto il cielo e la terra, una luce diritta come una colonna, molto simile all’arcobaleno, ma piú intensa e piú pura. Vi erano arrivati dopo un giorno di marcia e colà avevano veduto, [c] in mezzo alla luce, tese dal cielo, le estremità dei suoi legami. Era questa luce a tenere avvinto il cielo e, come le gomene esterne delle triremi, a tenere insieme tutta la circonferenza.

Alle estremità era sospeso il fuso di Ananke [Necessità o Destino immutabile], per il quale giravano tutte le sfere. Il suo fusto e l’uncino erano di diamante, il fusaiolo una mescolanza di diamante e di altre materie. Il fusaiolo aveva questa natura: [d] per la figura era come quello che si usa in questo nostro mondo, ma il racconto di Er deve far pensare che fosse costruito come se entro un grande fusaiolo cavo e interamente intagliato fosse incastrato un altro consimile, ma piú piccolo, come quei vasi che entrano esattamente l’uno [e] nell’altro; e cosí un terzo, un quarto e altri quattro. Tutti insieme i fusaioli erano otto, incastrati l’uno nell’altro, e superiormente mostravano i loro orli circolari; costituivano il dorso continuo di un unico fusaiolo accentrato sul fusto e il fusto passava da parte a parte l’ottavo fusaiolo lungo l’asse mediano.

Il primo fusaiolo [stelle], il piú esterno, aveva il cerchio dell’orlo molto largo. Seguivano poi in ordine decrescente il sesto [venere], il quarto [marte], l’ottavo [luna], il settimo [sole], il quinto [mercurio], il terzo [giove], il secondo [saturno]. Il cerchio del maggiore era variegato, quello del settimo lucentissimo, quello [617a] dell’ottavo riceveva il colore dal settimo che lo illuminava, quelli del secondo e del quinto si somigliavano, ma erano piú gialli dei precedenti; il terzo aveva una tinta bianchissima, il quarto rossastra, il sesto veniva al secondo posto per bianchezza. Il fuso ruotava tutto volgendosi con moto uniforme e nel girare dell’insieme i sette cerchi interni giravano lenti in direzione opposta. Il piú rapido era l’ottavo, [b] secondi venivano, tutti insieme, il settimo, il sesto e il quinto; terzo in questo moto rotatorio era, come appariva a quelle anime, il quarto; quarto e quinto rispettivamente il terzo e il secondo.

Il fuso si volgeva sulle ginocchia di Ananke. Sull’alto di ciascuno dei suoi cerchi stava una Sirena che, trascinata in quel movimento circolare, emetteva un’unica nota su un unico tono; e tutte otto le note creavano un’unica armonia. Altre tre donne sedevano in cerchio a [c] eguali distanze, ciascuna su un trono: erano le sorelle di Ananke, le Moire [Parche presso i latini] in abiti bianchi e con serti sul capo, Lachesi Cloto Atropo. E cantavano in armonia con le Sirene: Lachesi il passato, Cloto il presente, Atropo il futuro. Cloto a intervalli toccava con la destra il fuso e ne accompagnava il giro esterno, cosí come faceva Atropo con la sinistra per [d] i giri interni; e Lachesi con l’una e con l’altra mano toccava ora i giri interni ora quello esterno. Al loro arrivo, le anime dovevano presentarsi a Lachesi. [...]

Timeo

È forse l'ultima opera di Platone (ca 360 a.C.), dove il numero è essenza e ragione di tutto, organizzata in un prologo dialogico e tre parti pronunciate dal solo Timeo:
Prologo [17a-29d]: dialogo fra Socrate, Timeo (astronomo pitagorigo), Crizia (uno dei 30 tiranni), Ermocrate (generale) e premessa metafisica al discorso di Timeo.
a) Intelligenza del cosmo [29d-47e]: ragioni della bellezza dell’universo, sua unità, bontà del Demiurgo quale origine del mondo, anima cosmica, movimenti armonici, creazione del tempo, dei corpi celesti, delle singole anime, degli animali, dell’uomo.
b) Materia del cosmo [47e-69a]: intesa come necessità, ricettacolo, spazialità, movimento; origine dei quattro elementi da solidi geometrici regolari, rapporti matematici.
c) Natura umana [69a-92c]: fisiologia e anatomia, anima razionale, metempsicosi.
Calcidio (iv sec. d.C.) tradusse in latino e commentò parte del Timeo [31c-53c], porzione diventata oggetto di studio nel xii sec. (scuola di Chartres).
Proclo (v sec. d.C.), bizantino, fece un articolato commento in greco di tutta l'opera che tuttavia venne letto solo nel Rinascimento.
Ficino (1433-1499), mille anni dopo, realizzò a prima traduzione latina integrale.

31b-32c: Il mondo è corporeo e visibile e perciò fatto di terra e di fuoco; ma questi due elementi non bastano perché devono essere collegati tra di loro: affinché vi sia una proporzione sono necessari tre termini, ma poiché il mondo è solido, le medietà devono essere due e quindi i termini quattro; cioè i quattro elementi (fuoco, terra, aria, acqua).

31b] VII. Quello ch’è nato deve essere corporeo e visibile e tangibile. Ma niente potrebbe essere visibile, separato dal fuoco, né tangibile senza solidità, né solido senza terra. Sicché dio, cominciando a comporre il corpo dell’universo, lo fece di fuoco e di terra. Ma non è possibile che due [c] cose sole si compongano bene senza una terza: bisogna che in mezzo vi sia un legame che le congiunga entrambe. E il più bello dei legami è quello che faccia, per quant’è possibile, una cosa sola di sé e delle cose legate: ora la proporzione compie questo in modo bellissimo. Perché quando di tre numeri o masse o potenze quali si vogliano, [32a] il medio sta all’ultimo come il primo al medio, e d’altra parte ancora il medio sta al primo, come l’ultimo al medio, allora il medio divenendo primo e ultimo, e l’ultimo e il primo divenendo a lor volta medi ambedue, così di necessità accadrà che tutti siano gli stessi, e divenuti gli stessi fra loro, saranno tutti una cosa sola. Se dunque il corpo dell’universo doveva essere piano e senz’alcuna profondità, [b] un solo medio bastava a collegare sé e le cose con sé congiunte: ma ora, poiché conveniva che il corpo dell’universo fosse solido (e i solidi non li congiunge mai un medio solo, ma due ogni volta, perché dio mise acqua e aria fra fuoco e terra, e proporzionati questi elementi fra loro, per quant’era possibile, nella medesima ragione, di modo che come stava il fuoco all’aria stesse anche l’aria all’acqua, e come l’aria all’acqua l’acqua alla terra, collegò e com[c]pose il cielo visibile e tangibile.

34a-36d: L’anima del mondo: abbraccia il tutto e forma il cielo; essa è anteriore alla formazione dei corpi. In che modo il dio compose l’anima del mondo: la sostanza indivisibile e identica, la sostanza divisibile e la loro mescolanza. Divisioni primitive di questa mescolanza e riempimento degli intervalli della serie formata con queste divisioni. li cielo, l’equatore e l’eclittica. Movimento dei cieli e orbite dei pianeti.

34a] VIII. Tutte queste ragioni meditò il dio-che-sempre-è [b] intorno al dio-che-doveva-essere-un-giorno, e fece un corpo liscio e uniforme ed eguale dal centro in ogni direzione e intero e perfetto e composto di corpi perfetti. E messa l’anima nel mezzo di esso, la distese per tutte le sue parti, e con questa stessa l’involse tutt’intorno di fuori, e così fece un cielo circolare, che si muove circolarmente, unico e solitario, ma atto per sua virtù ad accompagnarsi seco stesso e di nessun altro bisognoso e bastevolmente conoscitore e amante di se stesso. E per tutte queste cagioni generò [c] felice questo dio. L’anima poi dio non la fece dopo il corpo, come noi che ora prendiamo a parlarne in ultimo, perché, dopo averli congiunti, non avrebbe lasciato che il più vecchio fosse governato dal più giovine. Ma noi che molto dipendiamo dalla sorte e dal caso, così anche a caso parliamo. Egli invero formò l’anima anteriore e più antica del corpo per generazione e per virtù, in quanto che essa doveva governare il corpo, e questo obbedirle, e la formò di tali elementi e in tal guisa.

Dell’essenza indivisibile e [35a] che è sempre nello stesso modo e di quella divisibile che si genera nei corpi, di tutte e due forma, mescolandole insieme, una terza specie di essenza intermedia, che partecipa della natura del medesimo e di quella dell’altro, e così la stabilì nel mezzo di quella indivisibile e di quella divisibile per i corpi. E présele tutte e tre, le mescolò in una sola specie congiungendo a forza col medesimo la natura e [b] dell’altro che ricusava di mescolarsi.

E mescolando queste due nature con l’essenza, e di tre fatto di nuovo un solo intero, divise questo in quante parti conveniva, ciascuna delle quali era mescolata del medesimo, dell’altro e dell’essenza. Cominciò poi a dividere così: prima tolse dal tutto una parte, dopo di questa ne tolse una doppia di essa, e poi una terza ch’era una volta e mezzo la seconda e tre volte la prima, una quarta doppia della seconda, una quinta [c] tripla della terza, una sesta ottupla della prima, una settima ventisette volte maggiore della prima. Dopo [36a] di ciò riempì gl’intervalli doppi e tripli, tagliando ancora di là altre parti e ponendole nei loro intervalli, di modo che in ciascuno intervallo ci fossero due medii, e l’uno avanzasse un estremo e fosse avanzato dall’altro della stessa frazione di ciascuno di essi, e l’altro avanzasse e fosse avanzato dallo stesso numero.

E derivando da questi legami nei precedenti intervalli nuovi intervalli, cioè d’uno e mezzo, d’uno e un terzo e d’uno e un ottavo, riempì [b] con l’intervallo d’uno e un ottavo tutti gl’intervalli d’uno e un terzo, e lasciò una particella di ciascuno di essi, di modo che l’intervallo lasciato di questa particella avesse i suoi termini nello stesso rapporto numerico fra loro come 256 sta a 243 [= semitono]. E così impiegò tutta quella mescolanza, donde tagliava queste parti.

Pertanto, divisa in due nel senso della lunghezza tutta questa composizione e adattata l’una parte sull’altra [c] nella loro metà in forma di un X, le piegò in giro nello stesso punto, collegando ciascuna con se stessa e con l’altra dirimpetto alla loro intersezione, e v’impresse un movimento di rotazione uniforme nel medesimo spazio, e l’uno dei circoli lo fece esteriore [= equatore] e l’altro interiore [= eclittica]. E il movimento del circolo esteriore lo destinò come movimento della natura del medesimo, e quello del circolo interiore come movimento della natura dell’altro. E quello che ha la natura del medesimo lo rivolse secondo il lato a destra, e quello della natura dell’altro, secondo la diagonale a sinistra. Ma diè la signoria al movimento del medesimo e simile, e lo lasciò uno e indiviso, mentre divise sei volte [d] l’interiore, facendone sette circoli diseguali secondo gl’intervalli del doppio e del triplo, ch’erano tre per ciascuna parte. E a questi circoli ordinò che si movessero in senso contrario gli uni agli altri, e che tre fossero eguali per velocità e quattro diseguali fra loro e rispetto agli altri tre, ma tutti girassero secondo ragione.

Aristotele

Il cielo, ed. Oddone Longo, Firenze: Laterza 1962.

[290b] 9. Risulta evidente da tutto questo che anche l’affermare che il moto dei corpi celesti produca un’armonia, in quanto i loro suoni generano un accordo, è si affermazione mirabile ed ingegnosa, ma la verità non è in questo modo. Vi sono infatti alcuni che ritengono che il moto di corpi di tale grandezza debba necessariamente produrre un suono, dal momento che questo accade anche con i corpi che ci circondano [= di cui abbiamo esperienza], i quali né hanno mole pari a quelli né si muovono con egual velocità; e il sole e la luna, e poi le stelle, che sono in tal numero, e di tal grandezza, e si muovono con un moto di tale velocità, è impossibile, dicono, che non producano un suono d’intensità straordinaria. Da queste premesse, e assumendo inoltre che le velocità, in virtù delle distanze fra i vari astri, hanno rapporto di accordi consonanti, essi affermano che il suono prodotto dal moto circolare degli astri è armonico.

Ma parendo assurdo che di questo suono non s’abbia anche noi percezione, causa di ciò dicono essere il fatto che questo suono ci accompagna già fin dalla nascita, per modo che esso non si lascia distinguere nel contrasto col silenzio: solo contrapposti infatti suono e silenzio si lasciano distinguere. Per modo che, come i fabbri per effetto dell’assuefazione non rilevano più nessuna differenza fra suono e silenzio, il medesimo accadrebbe anche a noi uomini. Tutto questo, come s’è detto prima, è sì enunciato in maniera non disarmonica e conforme alle arti delle muse, è però impossibile che le cose stiano in questo modo.

Non soltanto è assurdo che non si abbia di ciò alcuna percezione uditiva, e di questa difficoltà essi cercano di risolvere la causa, ma è anche incredibile che, sensazione a parte, noi non ne subiamo nessun effetto. I rumori molto intensi giungono difatti anche a frantumare le moli dei corpi inanimati; il fragore del tuono ad esempio spacca [291a] perfino le pietre e i corpi più resistenti. Quando poi i corpi in moto sian così grandi, poiché la forza di penetrazione del rumore è proporzionale alla grandezza in movimento, dovrebbe giungere fino a noi un rumore molte volte più forte di quello del tuono, e con una violenza d’intensità straordinaria. A buona ragione invece noi non abbiamo di ciò percezione uditiva, né appare che i corpi subiscano alcuna affezione violenta, e questo perché gli astri non producono rumore.

La causa di questo è evidente, e insieme ci attesta che i discorsi da noi fatti sono veri; l’aporia infatti che induce i Pitagorici ad affermare l’esistenza dell’armonia degli astri, è un argomento a conferma di quanto abbiamo detto. Tutti i corpi infatti che si muovono di moto proprio producono un rumore, che è provocato dall’attrito; i corpi invece che sono infissi in un corpo in movimento, o che appartengono ad esso, come le parti in una nave, non possono produrre rumore, e non ne produrrebbe neppure la nave, quando si muovesse secondando la corrente d’un fiume. Eppure queste medesime ragioni potrebbero essere addotte per sostenere come sia assurdo che l’albero o la poppa in una nave così grande non producano muovendosi un grande rumore, o, per riprender tutto, la stessa nave in moto. Ma il rumore è prodotto da un corpo in movimento in un mezzo immobile: invece, ciò che è solidale col corpo in movimento, non fa attrito, e quindi non produce rumore.

Va detto qui pertanto che, se i corpi degli astri, come tutti dicono, si muovessero in una massa d’aria, o di fuoco, diffusa per l’universo, produrrebbero necessariamente un rumore d’intensità straordinaria, e se così fosse, esso giungerebbe fino a noi e frantumerebbe i corpi di quaggiù. Cosicché, poiché non si constata che questo accada, abbiamo che nessuno di essi si muove di movimento animato, né di moto violento, quasi che la natura avesse previsto ciò che accadrebbe, e cioè che nulla di quanto si trova nella nostra regione permarrebbe nello stato in cui ora si trova. Che gli astri sono sferici, e che non si muovono di moto proprio, è stato detto.

Cicerone

Publio Cornelio Scipione Emiliano

[9] Quando giunsi in Africa in qualità di tribuno militare, come sapete, presentandomi agli ordini del console Manio Manilio alla quarta legione, non chiedevo altro che di incontrare Massinissa, un re molto amico della nostra famiglia, per fondati motivi.

Massinissa

Non appena mi trovai al suo cospetto, il vecchio, abbracciandomi, scoppiò in lacrime; poi, dopo qualche attimo, levò gli occhi al cielo e disse:«Sono grato a te, Sole eccelso, come pure a voi, altri dèi celesti, perché, prima di migrare da questa vita, vedo nel mio regno e sotto il mio tetto Publio Cornelio Scipione, al cui nome mi sento rinascere; a tal punto non è mai svanito dal mio cuore il ricordo di quell'uomo eccezionale e davvero invitto».

Emiliano

Quindi io gli chiesi notizie del suo regno, egli mi domandò della nostra repubblica: così, tra le tante parole spese da parte mia e sua, trascorse quella nostra giornata. [10] Poi, dopo essere stati accolti con un banchetto regale, prolungammo la nostra conversazione fino a tarda notte, mentre il vecchio non parlava di altro che dell'Africano e ricordava non solo tutte le sue imprese, ma anche i suoi detti. In séguito, quando ci congedammo per andare a dormire, un sonno più profondo del solito s'impadronì di me, stanco sia per il viaggio sia per la veglia fino a notte fonda. Quand'ecco che – credo, a dire il vero, che dipendesse dall'argomento della nostra discussione: accade infatti generalmente che i nostri pensieri e le conversazioni producano durante il sonno un qualcosa di simile a ciò che Ennio dice a proposito di Omero, al quale, è evidente, di solito pensava da sveglio e del quale discuteva – m'apparve l'Africano, nell'aspetto che mi era noto più dal suo ritratto che dalle sue fattezze reali; non appena lo riconobbi, un brivido davvero mi percorse.

Publio Cornelio Scipione Africano

Ma quello disse: «Sta' sereno, deponi il tuo timore, Scipione, e tramanda alla memoria le parole che ti dirò. [11] Vedi, laggiù, la città che, costretta per mio tramite a ubbidire al popolo romano, rinnova le guerre d'un tempo e non riesce a rimanere in pace?». Mi indicava Cartagine dall'alto di un luogo elevatissimo e pieno di stelle, luminoso e nitido. «Tu adesso vieni ad assediarla quasi come soldato semplice, ma entro i prossimi due anni la abbatterai come console e ne otterrai, per tuo personale merito, quel soprannome che fino a oggi hai ereditato da noi. Quando poi avrai distrutto Cartagine, celebrato il trionfo, rivestito la carica di censore e percorso, in qualità di legato, l'Egitto, la Siria, l'Asia, la Grecia, verrai scelto, benché assente, come console per la seconda volta e porterai a termine una guerra importantissima: raderai al suolo Numanzia. Ma, dopo che su un carro trionfale sarai giunto al Campidoglio, troverai la repubblica sconvolta dai piani di mio nipote.

[12] Allora occorrerà che tu, Africano, mostri alla patria la luce del tuo coraggio, della tua indole, del tuo senno. Ma per quel frangente vedo un bivio, per così dire, sulla strada del tuo destino. Quando la tua età avrà infatti compiuto per otto volte sette giri di andata e ritorno del sole e questi due numeri – ciascuno dei quali, per ragioni diverse, è considerato perfetto – avranno segnato, nel volgere naturale del tempo, la somma d'anni per te fatale, tutta la città a te solo e al tuo nome si rivolgerà, su di te il senato, su di te tutti gli uomini perbene, su di te gli alleati, su di te i Latini poseranno lo sguardo, tu sarai il solo nel quale possa trovare sostegno la salvezza della città; insomma, tu dovrai, nelle vesti di dittatore, rendere stabile lo Stato, a patto che tu riesca a sottrarti alle empie mani dei tuoi parenti».

Emiliano

A questo punto, poiché Lelio aveva levato un grido e tutti gli altri avevano cominciato a gemere più vivamente, Scipione, sorridendo: «Sst! Vi prego», disse, «non risvegliatemi dal mio sonno e ascoltate ancora per un momento il resto».

Africano

[13] «Ma perché tu, Africano, sia più sollecito nel difendere lo Stato, tieni ben presente quanto segue: per tutti gli uomini che abbiano conservato gli ordinamenti della patria, si siano adoperati per essa, l'abbiano resa potente, è assicurato in cielo un luogo ben definito, dove da beati fruiscono di una vita sempiterna. A quel sommo dio che regge tutto l'universo, nulla di ciò che accade in terra è infatti più caro delle unioni e aggregazioni di uomini, associate sulla base del diritto, che vanno sotto il nome di città: coloro che le reggono e ne custodiscono gli ordinamenti partono da questa zona del cielo e poi vi ritornano».

Emiliano

[14] A questo punto io, anche se ero rimasto atterrito non tanto dal timore della morte, quanto dall'idea del tradimento dei miei, gli chiesi tuttavia se fosse ancora in vita egli stesso e mio padre Paolo e gli altri che noi riteniamo estinti.

Africano

«Al contrario», disse, «sono costoro i vivi, costoro che sono volati via dalle catene del corpo come da una prigione, mentre la vostra, che ha nome vita, è in realtà una morte. Non scorgi tuo padre Paolo, che ti viene incontro?».

Emiliano

Non appena lo vidi, versai davvero un fiume di lacrime, mentre egli, abbracciandomi e baciandomi, cercava di frenare il mio pianto. [15] E io, non appena riuscii a trattenere le lacrime e potei riprendere a parlare: «Ti prego», dissi, «padre mio santissimo e ottimo: se questa è la vera vita, a quanto sento dire dall'Africano, come mai indugio sulla terra? Perché non mi affretto a raggiungervi qui?».

Lucio Emilio Paolo Macedonico

«No», rispose. «Se non ti avrà liberato dal carcere del corpo quel dio cui appartiene tutto lo spazio celeste che vedi, non può accadere che per te sia praticabile l'accesso a questo luogo. Gli uomini sono stati infatti generati col seguente impegno, di custodire quella sfera là, chiamata terra, che tu scorgi al centro di questo spazio celeste; a loro viene fornita l'anima dai fuochi sempiterni cui voi date nome di costellazioni e stelle, quei globi sferici che, animati da menti divine, compiono le loro circonvoluzioni e orbite con velocità sorprendente. Anche tu, dunque, Publio [= Emilano], come tutti gli uomini pii, devi tenere l'anima sotto la sorveglianza del corpo, né sei tenuto a migrare dalla vita degli uomini senza il consenso del dio da cui l'avete ricevuta, perché non sembri che intendiate esimervi dal compito umano assegnato dalla divinità.

[16] Ma allo stesso modo, Scipione, sull'esempio di questo tuo avo e come me che ti ho generato, coltiva la giustizia e il rispetto, valori che, già grandi se nutriti verso i genitori e i parenti, giungono al vertice quando riguardano la patria; una vita simile è la via che conduce al cielo e a questa adunanza di uomini che hanno già terminato la propria esistenza terrena e che, liberatisi del corpo, abitano il luogo che vedi» – si trattava, appunto, di una fascia risplendente tra le fiamme, dal candore abbagliante – «che voi, come avete appreso dai Greci, denominate Via Lattea».

Emiliano

Da qui, a me che contemplavo l'universo, tutto pareva magnifico e meraviglioso. C'erano, tra l'altro, stelle che non vediamo mai dalle nostre regioni terrene; inoltre, le dimensioni di tutti i corpi celesti erano maggiori di quanto avessimo mai creduto; tra di essi, il più piccolo era l'astro [= Luna] che, essendo il più lontano dalla volta celeste e il più vicino alla terra, brillava di luce riflessa. I volumi delle stelle, poi, superavano nettamente le dimensioni della terra. Anzi, a dire il vero, perfino la terra mi sembrò così piccola, che provai vergogna del nostro dominio, con il quale occupiamo, per così dire, solo un punto del globo.

Africano

[17] Poiché guardavo la terra con più attenzione, l'Africano mi disse: «Posso sapere fino a quando la tua mente rimarrà fissa a terra? Non ti rendi conto a quali spazi celesti sei giunto? Eccoti sotto gli occhi tutto l'universo compaginato in nove orbite, anzi, in nove sfere. Una sola di esse è celeste, la più esterna, che abbraccia tutte le altre: è il dio sommo che racchiude e contiene in sé le restanti. In essa sono confitte le sempiterne orbite circolari delle stelle, cui sottostanno sette sfere che ruotano in direzione opposta, con moto contrario all'orbita del cielo. Di tali sfere una è occupata dal pianeta chiamato, sulla terra, Saturno. Quindi si trova quel fulgido astro – propizio e apportatore di salute per il genere umano – che è detto Giove. Poi, in quei bagliori rossastri che tanto fanno tremare la terra, c'è il pianeta che chiamate Marte. Sotto, quindi, il Sole occupa la regione all'incirca centrale: è guida, sovrano e regolatore degli altri astri, mente e misura dell'universo, di tale grandezza, che illumina e avvolge con la sua luce tutti gli altri corpi celesti. Lo seguono, come compagni di viaggio, ciascuno secondo il proprio corso, Venere e Mercurio, mentre nell'orbita più bassa ruota la Luna, infiammata dai raggi del Sole. Al di sotto, poi, non c'è ormai più nulla, se non mortale e caduco, eccetto le anime, assegnate per dono degli dèi al genere umano; al di sopra della Luna tutto è eterno. La sfera che è centrale e nona, ossia la Terra, non è infatti soggetta a movimento, rappresenta la zona più bassa e verso di essa sono attratti tutti i pesi, per una forza che è loro propria».

Emiliano

[18] Dopo aver osservato questo spettacolo, non appena mi riebbi, esclamai: «Ma che suono è questo, così intenso e armonioso, che riempie le mie orecchie?».

Africano

«È il suono», rispose, «che sull'accordo di intervalli regolari, eppure distinti da una razionale proporzione, risulta dalla spinta e dal movimento delle orbite stesse e, equilibrando i toni acuti con i gravi, crea accordi uniformemente variati; del resto, movimenti così grandiosi non potrebbero svolgersi in silenzio e la natura richiede che le due estremità risuonino, di toni gravi l'una, acuti l'altra. Ecco perché l'orbita stellare suprema, la cui rotazione è la più rapida, si muove con suono più acuto e concitato, mentre questa sfera lunare, la più bassa, emette un suono estremamente grave; la Terra infatti, nona, poiché resta immobile, rimane sempre fissa in un'unica sede, racchiudendo in sé il centro dell'universo. Le otto orbite, poi, all'interno delle quali due hanno la stessa velocità, producono sette suoni distinti da intervalli, il cui numero è, possiamo dire, il nodo di tutte le cose; imitandolo, gli uomini esperti di strumenti a corde e di canto si sono aperti la via per ritornare qui, come gli altri che, grazie all'eccellenza dei loro ingegni, durante la loro esistenza terrena hanno coltivato gli studi divini.

[19] Le orecchie degli uomini, riempite da tale suono, sono diventate sorde. Nessun organo di senso, in voi mortali, è più debole: allo stesso modo, là dove il Nilo, da monti altissimi, si getta a precipizio nella regione chiamata Catadupa, abita un popolo che, per l'intensità del rumore, manca dell'udito. Il suono, per la rotazione vorticosa di tutto l'universo, è talmente forte, che le orecchie umane non hanno la capacità di coglierlo, allo stesso modo in cui non potete fissare il sole, perché la vostra percezione visiva è vinta dai suoi raggi».

Emiliano

[20] Io, pur osservando stupito tali meraviglie, volgevo tuttavia a più riprese gli occhi verso la terra.

Africano

Allora l'Africano disse: «Mi accorgo che contempli ancora la sede e la dimora degli uomini; ma se davvero ti sembra così piccola, quale in effetti è, non smettere mai di tenere il tuo sguardo fisso sul mondo celeste e non dar conto alle vicende umane. Tu infatti quale celebrità puoi mai raggiungere nei discorsi della gente, quale gloria che valga la pena di essere ricercata? Vedi che sulla terra si abita in zone sparse e ristrette e che questa sorta di macchie in cui si risiede è inframmezzata da enormi deserti; inoltre, gli abitanti della terra non solo sono separati al punto che, tra di loro, nulla può diffondersi dagli uni agli altri, ma alcuni sono disposti, rispetto a voi, in senso obliquo, altri trasversalmente, altri ancora si trovano addirittura agli antipodi. Da essi, gloria non potete di certo attendervene.

[21] Nota, inoltre, che la terra è in un certo senso incoronata e avvolta da fasce: due di esse, diametralmente opposte e appoggiate, sui rispettivi lati, ai vertici stessi del cielo, s'irrigidiscono per la brina, mentre la fascia centrale, laggiù, la più estesa, è arsa dalla vampa del sole. Al suo interno, due sono le zone abitabili: la regione australe, là, nella quale gli abitanti lasciano impronte opposte alle vostre, non ha nulla a che fare con la vostra razza; quanto a quest'altra, invece, che abitate voi, esposta ad aquilone, guarda come vi tocchi solo in misura minima. Nel suo complesso infatti la terra che è da voi abitata, stretta ai vertici, più larga ai lati, è, come dire, una piccola isola circondata da quel mare che sulla terra chiamate Atlantico, Mare Magno, Oceano, ma che, a dispetto del nome altisonante, vedi bene quanto sia minuscolo.

[22] Forse che da queste stesse terre abitate e conosciute il nome tuo o di qualcun altro di noi ha potuto valicare il Caucaso, che scorgi qui, oppure oltrepassare il Gange, laggiù? Chi udirà il tuo nome nelle restanti, remote regioni dell'oriente e dell'occidente oppure a settentrione o a meridione? Se le escludi, ti accorgi senz'altro di quanto sia angusto lo spazio in cui la vostra gloria vuole espandersi. E la gente che parla di noi, fino a quando ne parlerà?

[23] E anche nel caso che quella progenie di uomini futuri desideri tramandare, di generazione in generazione, gli elogi di ciascuno di noi dopo averli appresi dai padri, tuttavia, a causa delle inondazioni e degli incendi che devono inevitabilmente prodursi sulla terra in un tempo determinato, non siamo in grado di conseguire una gloria non dico eterna, ma neppure duratura. Cosa importa, dunque, che discuta sul tuo conto chi nascerà dopo di te, se riguardo a te non parlava la gente nata prima? E questi uomini furono non meno numerosi e, senza dubbio, migliori.

[24] A maggior ragione accade ciò, se è vero che perfino tra la gente in grado di udire il nostro nome, nessuno può lasciare di sé un ricordo che duri più di un anno. Gli uomini, a dire il vero, misurano ordinariamente l'anno solo con , cioè con il ritorno di un'unica stella; quando, invece, tutti quanti gli astri saranno ritornati nell'identico punto da cui sono partiti e avranno nuovamente tracciato, dopo lunghi intervalli di tempo, il disegno di tutta la volta celeste, solo allora lo si potrà definire, a ragione, il volgere di un anno; a fatica oserei dire quante generazioni di uomini siano in esso contenute. Come un tempo il sole sembrò agli uomini venir meno e spegnersi, allorché l'anima di Romolo entrò in questi stessi spazi celesti, così, quando per la seconda volta, dalla stessa parte del cielo e nel medesimo istante, il sole verrà meno, in quell'istante, una volta che saranno ricondotte al punto di partenza tutte le costellazioni e le stelle, considera compiuto l'anno; sappi, comunque, che non ne è ancora trascorsa la ventesima parte.

[25] Di conseguenza, se perderai la speranza di tornare in questo luogo, verso cui tendono le aspirazioni degli uomini grandi e illustri, quale valore ha mai la vostra gloria umana, che a mala pena può riguardare una minima parte di un solo anno? Se intendi, pertanto, mirare in alto e fissare il tuo sguardo su questa sede e dimora eterna, non concederti alla mentalità comune e non riporre le speranze della tua vita nelle ricompense umane: la virtù stessa, con le sue attrattive, deve condurti verso il vero onore. Quali parole gli altri pronunceranno su di te non ti riguarda, eppure parleranno; ogni discorso, comunque, è delimitato dallo spazio ristretto delle regioni che vedi e non è stato mai, sul conto di nessuno, durevole negli anni: è sepolto con la morte degli uomini e si spegne con l'oblio dei posteri».

Emiliano

[26] Dopo che ebbe così parlato, gli dissi: «Allora, o Africano, se davvero per chi vanta dei meriti verso la patria si apre una sorta di sentiero per l'accesso al cielo, io, sebbene fin dall'infanzia, calcando le orme di mio padre e le tue, non sia mai venuto meno al vostro decoro, adesso tuttavia, di fronte a una ricompensa così grande, mi impegnerò con attenzione molto maggiore».

Africano

Ed egli: «Sì, impegnati e tieni sempre per certo che non tu sei mortale, ma lo è questo tuo corpo: non rappresenti infatti ciò che la tua figura esterna manifesta, ma l'essere di ciascuno di noi è la mente, non certo l'aspetto esteriore che si può indicare col dito. Sappi, dunque, che tu sei un dio, se davvero è un dio colui che vive, percepisce, ricorda, prevede, regge e regola e muove il corpo cui è preposto, negli stessi termini in cui quel dio sommo governa questo universo; e come quel dio eterno dà movimento all'universo, mortale sotto un certo aspetto, così l'anima sempiterna muove il fragile corpo.

[27] Ciò che muove se stesso incessantemente, è eterno; ciò che, invece, trasmette il moto ad altro e a sua volta trae impulso da una forza esterna, poiché ha un termine del movimento, deve avere necessariamente un termine della vita. Pertanto, solo ciò che muove se stesso, in quanto da se stesso non viene mai abbandonato, non cessa mai neppure di muoversi; anzi, per tutte le altre cose che si muovono è la fonte, è il principio del moto. Non vi è origine per tale principio; dal principio si genera ogni cosa, ma esso non può nascere da null'altro; se fosse generato dall'esterno non potrebbe infatti essere il principio; e come non è mai nato, così non muore mai. Il principio infatti, una volta estinto, non rinascerà da altro né creerà altro da sé, se è vero che da un principio deve nascere ogni cosa. Ne consegue che il principio del moto deriva da ciò che si muove da sé; non può, quindi, né nascere né morire, altrimenti è inevitabile che tutto il cielo crolli e che tutta la natura, da un lato, si fermi e, dall'altro, non trovi alcuna forza da cui ricevere l'impulso iniziale per il movimento.

[28] Siccome, quindi, risulta evidente che è eterno ciò che si muove da sé, chi potrebbe sostenere che questa natura non è stata attribuita all'anima? È inanimato infatti tutto ciò che trae impulso da un urto esterno; ciò che è animato, invece, viene sospinto da un moto interiore e proprio; tale è infatti la natura peculiare dell'anima, la sua essenza; se, dunque, tra tutte le cose l'anima è l'unica a muoversi da sé, significa certamente che non è nata ed è eterna. [29] Tu esercitala nelle attività più nobili. Ora, le occupazioni più nobili riguardano il bene della patria: se la tua anima trarrà stimolo ed esercizio da esse, volerà più rapidamente verso qu esta sede e dimora a lei propria; e lo farà con velocità ancor maggiore, se, già da quando si troverà chiusa nel corpo, si eleverà al di fuori e, mediante la contemplazione della realtà esterna, si distaccherà il più possibile dal corpo. Quanto agli uomini che si sono dati ai piaceri del corpo, che si sono offerti, per così dire, come loro mezzani e che hanno violato le leggi divine e umane sotto la spinta delle passioni schiave dei piaceri, la loro anima, abbandonato il corpo, si aggira in volo attorno alla terra, e non ritorna in questo luogo, se non dopo aver vagato tra i travagli per molte generazioni». Se ne andò; io mi riscossi dal sonno.

Igino

14.4. Nonnulli existimant, cum dicitur sol in Ariete aut in quolibet signo esse, eum supra ipsas stellas Arietis iter facere. Qui autem hac ratione utuntur, longe a vera ratione errant. Nam neque sol, neque luna proxime sidera apparent. C'è chi pensa che, quando si dice che il Sole è in Ariete o in qualsivoglia altro segno, esso si sposti proprio sulle stelle dell'Ariete. Chi adotta questa teoria si allontana parecchio dalla verità. Nè il Sole, infatti, né la Luna appaiono in prossimità delle costellazioni.
Hac etiam de causa nonnulli VII stellas erraticas finxerunt, adiungentes eodem solem et lunam, quod cum quinque stellis feruntur. Luna enim proxime terram est; itaque diebus xxx totum mundum existimatur transire. È appunto questa la ragione per cui alcuni hanno immaginato sette astri erranti, aggiungendovi il Sole e la Luna, poiché [questi] si spostano come i cinque pianeti. La Luna infatti è vicina alla Terra: ci mette trenta giorni, si ritiene, ad attraversare la totalità del cielo.
Id hac evenit ratione. Ut si quis intra circulum zodiacum fecerit circulos, et eos hoc intervallo finxerit, ut terra sit in medio, et unam a terra ad lunam mensionem fecerit, quam Graeci tonon appellaverunt (hunc autem, quia non esse certum spatium potuerunt dicere, tonon dixerunt): igitur abest luna a terra tonum unum. Ed ecco la spiegazione di tale fenomeno: supponiamo che uno tracci dei cerchi all'interno del circolo zodiacale ponendoli a intervalli tali che la Terra sia al centro e che dalla Terra alla Luna la misura sia data da quello che i Greci chiamano 'tono' (non potendo precisare la distanza, hanno utilizzato il termine 'tono'): la Luna dista così dalla Terra un tono.
Hac igitur re, quod brevissimo circulo devehitur, diebus xxx ad primum pervenit signum. Per il fatto che essa [Luna] percorre il cerchio più corto, in 30 giorni ritorna al primo segno [zodiacale].
Ab hoc circulo abest circulus tonum dimidium, quo circulo Mercurii stella vehitur; itaque diebus xxx ad alterum signum transiens tardius. Da tale cerchio dista un semitono quello percorso dall'astro di Mercurio; così, procedendo più piano, esso ci mette 30 giorni per passare al segno successivo.
Ab hoc circulo abest alter tonum dimidium; quo loco Veneris stella iter suum dirigit, tardiorem conficiens cursum, quam Mercurii stella. Transit enim ad aliud signum diebus xxx. Da tale cerchio dista un semitono quello percorso dall'astro di Venere, procedendo più lentamente di quello di Mercurio: passa infatti al segno successivo in 30 giorni.
Supra huius stellam solis est cursus, qui abest ab Hespero stella quae est Veneris, tonum dimidium. Ita cum inferioribus pariter percolans anno uno XII signa percurrit, tricesimo die ad aliud transiens signum. Al di sopra di tale astro gira il Sole, che dista da Espero, l'astro di Venere, un semitono. Accompagnando i pianeti inferiori con il suo volo alato esso percorre in un anno i dodici segni, passando ogni 30 giorni da un segno al sucessivo.
Supra solem igitur et eius circulum Martis est stella, quae abest a sole tonum dimidium. Itaque dicitur diebus lx ad aliud signum transire. Al di sopra del Sole e della sua orbita si trova l'astro di Marte, che dista dal Sole un semitono. Si dice perciò che passi al segno successivo ogni 60 giorni.
Supra hunc circulum Iovis est stella, quae abest a Martis tonum dimidium. Itaque anno uno transit ad alterum signum. Al di sopra di tale cerchio c'è l'astro di Giove, che dista da quello di Marte un semitono. Ci mette un anno a passare da un segno al successivo. [125]
Novissima stella Saturni, quae maximo vehitur circulo; haec autem abest a Iove tonum. Itaque annis xxx duodecim signa percurrit. L'ultimo è l'astro di Saturno, che percorre l'orbita più grande: dista da Giove un tono. Ci mette trent'anni a percorrere i dodici segni. [126]
Ab ipsorum tamen siderum corporibus Saturnus abest tonum anum et dimidium. Le figure delle costellazioni, per parte loro, distano da Saturno un tono e mezzo.
  [traduzione Adelphi 2009]

Plutarco

La Generazione dell'anima nel Timeo (n. 70 Bompiani) è un commento a due delle frasi più oscure di Platone che tuttavia Plutarco riproduce con qualche differenza nella prima citazione, quella più filosofica. La prima la riproduce nel § 1 e la seconda al § 29. Va ricordato che le prime edizioni della Generazione dislocarono erroneamente una decina di paragrafi, pertanto le moderne edizioni hanno corretto l'ordine conservando però la numerazione originale, che si presenta secondo questa successione: §§ 1-10, 21-30a, 11-20, 30b-33. Ecco le citazioni a confronto:

Platone (trad. Laterza) Plutarco (trad. Bompiani)
  Prima citazione [§ 1]
Dell’essenza indivisibile e [35a] che è sempre nello stesso modo e di quella divisibile che si genera nei corpi, di tutte e due forma, mescolandole insieme, una terza specie di essenza intermedia, che partecipa della natura del medesimo e di quella dell’altro, e così la stabilì nel mezzo di quella indivisibile e di quella divisibile per i corpi. Dell’essere privo di parti e che si mantiene sempre invariato, nonché di quello divisibile che si realizza nei corpi il Dio mescolandoli fece una terza forma intermedia di essere,
[omessa] e poi, con riguardo alla natura del Medesimo e dell’Altro e secondo tali due entità, la compose nel mezzo tra ciò che è privo di parti e il divisibile inerente ai corpi.
E présele tutte e tre, le mescolò in una sola specie congiungendo a forza col medesimo la natura e [b] dell’altro che ricusava di mescolarsi. E avendo preso quelle, che adesso erano tre, le mescolò tutte in una sola entità, adattando a forza nel Medesimo la natura – difficile a mescolarsi – dell’Altro.
E mescolando queste due nature con l’essenza, e di tre fatto di nuovo un solo intero, divise questo in quante parti conveniva, ciascuna delle quali era mescolata del medesimo, dell’altro e dell’essenza. Cominciò poi a dividere così: Mescolandole poi con l’essere, e da tre avendo fatto un tutto intero, di nuovo divise questo nelle parti in cui era conveniente, e ciascuna di queste era mescolata di Medesimo, di Altro e dell’essere. E cominciava a dividere nel modo seguente:
  Seconda citazione [§ 29]
prima tolse dal tutto una parte [1], dopo di questa ne tolse una doppia di essa [2], e poi una terza ch’era una volta e mezzo la seconda e tre volte la prima [3], una quarta doppia della seconda [4], una quinta [c] tripla della terza [9], una sesta ottupla della prima [8], una settima ventisette volte maggiore della prima [27]. All’inizio (il Dio) tolse dal tutto una parte, e dopo questa tolse il doppio di essa, e poi, come terza, una di una volta e mezza la seconda e quindi tripla della prima, e come quarta una parte doppia della seconda, e poi una quinta tripla della terza; la sesta è otto volte la prima, e la settima ventisette volte la prima.
Dopo [36a] di ciò riempì gl’intervalli doppi e tripli, tagliando ancora di là altre parti e ponendole nei loro intervalli, di modo che in ciascuno intervallo ci fossero due medii, e l’uno avanzasse un estremo e fosse avanzato dall’altro della stessa frazione di ciascuno di essi [medio armonico], e l’altro avanzasse e fosse avanzato dallo stesso numero [medio aritmetico]. Dopo ciò egli riempiva gli intervalli doppi e tripli tagliando via ancora parti da là e mettendole nel mezzo di essi, in modo tale che in ciascun intervallo ci fossero due medi: l’uno che superasse della stessa frazione un estremo e ne fosse superato dall’altro, l’altro che superasse di un certo numero un estremo e di un numero uguale fosse superato dall’altro.
E derivando da questi legami nei precedenti intervalli nuovi intervalli, cioè d’uno e mezzo, d’uno e un terzo e d’uno e un ottavo, riempì [b] con l’intervallo d’uno e un ottavo tutti gl’intervalli d’uno e un terzo, e lasciò una particella di ciascuno di essi, di modo che l’intervallo lasciato di questa particella avesse i suoi termini nello stesso rapporto numerico fra loro come 256 sta a 243. Poiché da questi vincoli negli intervalli di partenza si erano costituiti intervalli di tre a due, di quattro a tre e di nove a otto, con quest’ultimo egli riempiva tutti gli intervalli di quattro a tre, lasciando di ciascuno di essi una frazione, e questo residuo intervallo determinato dalla frazione aveva i suoi termini nel rapporto numerico di 256 a 243.

Oltre all'ed. Bompiani (2017) esiste anche l'ed. Ferrari-Baldi 2002 che offre un'utile sintesi che di seguito riprongo in forma abbreviata [integrale qui]:

Premesse
1. Dopo avere riportato in forma lemmatica il dettato del testo di 35a1-b4, opportunamente modificato, Plut. espone le prime interpretazioni ... quella di Senocrate, secondo cui l'anima è un numero che muove se stesso, e quella di Cràntore, che forma l'anima mescolando la natura intelligibile e quella opinabile.
2. Senocrate identifica l'essere indivisibile ... in «numero che muove se stesso», cioè in anima. Crantore, invece ... la formò ricorrendo proprio alle entità che essa dovrebbe riconoscere.
3-4. Sia Senocrate che Crantore erano, poi, convinti che il racconto relativo alla genesi dell'anima e del corpo del mondo andasse inteso in senso metaforico ...

Materia anima ragione
5. ... Dio non ha creato né la materia del corpo del mondo, né la natura psichica della sua anima. Entrambi questi principi sono, invece, co-eterni alla divinità ...
6. ... L'essenza di quest'anima pre cosmica e irrazionale consiste nella motricità disordinata e nella percettività rivolta al sensibile e al corporeo. L'ingresso in essa di un principio d'ordine e di razionalità, derivato da Dio, la rende intelligente e razionale ...
7. La materia ... non può fungere da causa del male ... individuata nel movimento irrazionale che sconvolge la materia prima dell'intervento di Dio, vale a dire nell'anima precosmica.
8. ... «ingenerata» è, infatti, l'anima in sé, cioè il principio precosmico del movimento irrazionale; mentre ... «generata» è l'anima del mondo.
9-10. ... ad essere eterna è la corporeità assoluta, vale a dire la materia precosmica, mentre a risultare generato è ... il corpo ordinato da Dio, cioè il cosmo.
21. L'indivisibilità dell'essere superiore ... [è] connessa alla sua semplicità, purezza e impassibilità.
22. Posidonio ... non è stato in grado di distinguere con sufficiente chiarezza la natura dell'anima da quella della materia. Inoltre, attribuendole la qualifica di «idea», ha confuso una realtà in perpetuo movimento con un'entità immobile e priva di rapporti con il sensibile.
23. ... Senza presupporre un'anima in sé, dotata intrinsecamente di percettività e movimento, non si potrebbe spiegare la presenza di questi caratteri dell'anima cosmica.
24. La presenza di tre entità precosmiche viene confermata dal Timeo, dove si allude all'essere, cioè al piano intelligibile, allo spazio, cioè alla materia, e alla generazione, che si identifica con l'anima originaria ...

Dualismo dell'anima umana e cosmica
25-26. Dal momento che la composizione dell' anima [umana] rappresenta il modello di quella del corpo del mondo, è possibile riferirsi a quest'ultima per comprendere la prima. Identico e diverso costituiscono principi opposti e tra loro inconciliabili. Perché essi siano uniti, occorre una sostanza intermedia che funga da sostrato e luogo della mescolanza ...
27. Il carattere misto dell'anima si proietta sul piano cosmologico, come l'intera storia della tradizione dualistica mostra. Empedocle, Eraclito, Parmenide e Anassagora accennano in forme diverse a una teoria dei principi di chiara impronta dualistica.
28. La natura dualistica dell'anima e del cosmo si riverbera anche nella successione dei cicli cosmici, con l'alternarsi di un'epoca guidata dalla divinità e di una sottoposta al dominio della natura congenere, che prende il sopravvento quando la divinità si ritira.

Numeri musicali
29. Dopo avere riportato il testo di 35b4-36b5 relativo alla divisione matematica dell'anima, Plut. presenta le tre quaestiones alle quali esso dà luogo. Si tratta di stabilire la quantità dei numeri, la loro disposizione grafica e la funzione che essi esercitano.
30a. I primi sette numeri rappresentano l'analogo della tetrade pitagorica.
11. Ma rispetto a quest'ultima, la serie numerica proposta da Platone è più completa e versatile.
12. Le operazioni di addizione e moltiplicazione che si possono compiere con i numeri platonici danno origine a altri numeri notevoli, dodati di caratteristiche aritmologiche interessanti. In particolare, i numeri originari corrispondono ai rapporti delle principali consonanze musicali.
13. Anche per mezzo della moltiplicazione si possono ricavare valori significativi dal punto di vista musicale.
14. L'ultimo numer della serie, cioè 27, viene da tal uni equiparato al valore del leimma. Esso è stato anche identificato con il numero del tono, mentre alla sua metà, 13, si ascrive l'appellativo di diesi. In ogni caso i numeri platonici, e quelli ricavabili da essi, contengono i rapporti corrispondenti alle principali consonanze: la quarta (4/3), la quinta (3/2), l'ottava (2/1) e il tono (9/8).

Medietà aritmetiche e armoniche
15. Tra i numeri iniziali indicati da Platone vanno inseriti dei medi ... aritmetico ... [e] «armonico».
16. L'esigenza di generare una serie composta solo da numeri interi, ha indotto i commentatori a moltiplicare tutti i valori per 6. Una volta portata a termine anche la terza operazione suggerita da Timeo, quella di riempimento degli intervalli di quarta con quelli di tono, si è resa necessaria la moltiplicazione di tutti i valori ricavati per un ulteriore coefficiente, che Crantore e Eudoro individuarono in 384, mentre Plut. stabilisce in 192.
17. Uno dei problemi più acuti ai quali la lettura del passo del Timeo ha dato luogo si riferisce alla questione della divisibilità del tono (9/8) in due semitoni matematicamente uguali, oppure in due parti, una maggiore e l'altra minore. I Pitagorici, ragionando in termini matematici, sostengono la prima [recte seconda] soluzione. mentre gli Armonici propendono per la divisibilità del tono.
18. La dimostrazione matematica dà ragione ai Pitagorici, perché conferma l'indivisibilità del rapporto di 9/8.
19. Innalzando di un tono l'intera scala, si possono ottenere valori numeri altrettanto interessanti.

Distribuzione della serie e cosmo
20-30b. La seconda questione concerne la rappresentazione grafica della serie numerica della divisio. Secondo Teodoro i numeri vanno disposti per valori crescenti lungo un'unica retta. Mentre Crantore sostiene la necessità di disporli lungo i lati di una figura a forma di Lambda, i numeri derivati da 2 sulla sinistra e quelli derivati da 3 sulla destra, con la monade collocata al vertice. Plut. propende per qu esta seconda soluzione.
31-32. Nell' ambito della tradizione pitagorica i numeri della divisio sono stati interpretati da un punto di vista astronomico, come relativi ai diametri, alle distanze e alle velocità dei pianeti ...
33. Le eventuali corrispondenze tra numeri e valori astronomici non sono veramente prioritarie, dal momento che questi numeri si riferiscono prima di tutto all'anima, e solo in un secondo tempo ai diametri, alle distanze e alle velocità dei pianeti. La divisione numerica si adatta perfettamente all'anima e le consente di assolvere alla sua funzione di guida dei processi cosmici.

La sezione cosmologica corrisponde ai §§ 31-33 che riproduco integralmente dall'ed. Bompiani (ho omesso le note):

31. Platone infatti non introdusse i medi aritmetici e armonici mentre faceva la dimostrazione di una teoria matematica per un assunto di filosofia naturale, che non ne aveva bisogno, ma perché quel punto riguarda in modo particolarissimo la composizione dell’Anima.

Eppure alcuni ricercano le proporzioni sopra ricordate nelle velocità dei pianeti, altri piuttosto nelle loro distanze, e taluni nelle grandezze dei corpi celesti, e quelli che hanno fama di essere davvero precisi le ricercano nei diametri degli epicicli, poiché secondo loro il Demiurgo, avendo come fine queste proporzioni, avrebbe adattato ai corpi celesti l’Anima, divisa in sette parti. Molti anche trasferiscono qui elementi pitagorici moltiplicando per tre le distanze dei corpi celesti dal centro. E questo vien fatto ponendo l’unità in corrispondenza del Fuoco centrale, il 3 dell’Antiterra, il 9 della Terra, il 27 della Luna, l’81 in Mercurio, il 243 in Fosforo [Venere], e nel Sole stesso il 729, che è numero al tempo stesso quadrato [27] e cubico [9]: per questo essi talvolta chiamano il Sole quadrato e cubo. E in tal modo costoro accrescono mediante moltiplicazioni per tre anche gli altri numeri, molto deviando da ciò che è secondo ragione, se pur ci dev’essere una qualche utilità delle dimostrazioni geometriche, e facendo vedere che quanti muovono da esse risultano rispetto a loro di gran lunga più credibili, e che sebbene non siano precisi in tutto, tuttavia dicano con ottima approssimazione che il rapporto del diametro del Sole rispetto a quello della Terra sia di 12 a 1, e a sua volta quello del diametro della Terra rispetto a quello della Luna sia di 3 a 1; e che quella che appare la più piccola delle stelle fisse abbia un diametro non minore di un terzo rispetto al diametro della Terra [cioè ugualle alla Luna], e che per l’intero globo della Terra rispetto all’intero globo della Luna il rapporto sia di 27 a 1; e che i diametri di Venere e della Terra siano nel rapporto di 2 a 1 e i relativi globi abbiano il rapporto di 8 a 1; [a] e che l’ampiezza dell’ombra che manda in eclissi la Luna sia il triplo del diametro di questa, e che la distanza di cui la Luna si discosta, da una parte e dall’altra, dal circolo che passa attraverso i centri de i segni dello Zodiaco sia di 12 gradi.

a. In pratica la proporzione fra i diametri sarebbe: Terra 3, Luna 1, Venere 6, Sole 36, Stella (più piccola) 1

Le sue posizioni [della Luna] rispetto al Sole, nelle fasi di trigono e di quadratura assumono le forme di falce e di mezzaluna e, quando ha percorso sei segni zodiacali, essa produce il plenilunio, come un accordo nei sei toni di un’ottava. Quanto al Sole, che all’epoca dei solstizi ha minimi e all’epoca degli equinozi ha massimi i movimenti per mezzo dei quali toglie durata al giorno e la aggiunge alla notte, e viceversa, il rapporto è questo: nei primi 30 giorni dopo il solstizio d’inverno il Sole aggiunge al giorno un sesto dell’eccesso che la notte più lunga aveva rispetto alla più breve, e nei successivi 30 un terzo, e nei rimanenti fino all’equinozio la metà, pareggiando la disuguaglianza dei tempi in intervalli sestupli e tripli.

I Caldei da parte loro dicono che la primavera viene a essere rispetto all’autunno nel rapporto dell’intervallo di quarta, in quello di quinta rispetto all’inverno, e in quello dell’ottava rispetto all’estate.[b] Se giustamente Euripide delimita in quattro mesi l’estate e in altrettanti l’inverno e «in due mesi l’autunno grato e in egual numero la primavera» ne viene che le stagioni si cambiano nel rapporto dell’ottava.

b. Cioè: primavera [quarta] autunno [tono] inverno [quarta] estate

Alcuni poi, assegnando alla Terra la posizione della nota aggiunta [proslambanomene], e alla Luna la nota più bassa, e facendo muovere Mercurio e Venere rispettivamente nella nota più vicina a quella più bassa e a quella della seconda corda, sostengono che il Sole stesso come nota media tenga insieme l’ottava, distando dalla Terra di un intervallo di quinta, dalla sfera delle stelle fisse di uno di quarta [sistema descritto da Plinio].

32. Ma né l’ingegnosità di costoro riesce a toccare alcun elemento di verità, né quelli si attengono in alcun modo alla precisione. A coloro, comunque, ai quali queste cognizioni non sembrano lontane dal pensiero di Platone, appariranno aver legami molto stretti con i rapporti musicali queste altre: che essendoci cinque tetracordi (quelli delle note più basse, delle medie e delle congiunte e delle disgiunte e delle più alte) [systema téleion], i pianeti sono stati disposti in cinque intervalli, dei quali uno è quello dalla Luna al Sole e ai pianeti che procedono solidali con il Sole, cioè Mercurio e Venere, un altro quello da questi pianeti fino a Marte rosseggiante, il terzo quello tra questo e Giove, e di seguito quello che arriva fino a Saturno, e quinto infine quello che va da quest’ultimo alla sfera fissa: cosicché i suoni che delimitano i tetracordi hanno i rapporti dei pianeti [Teoria A]. E ancora, sappiamo che gli antichi ponevano due note più basse [ypate], tre più alte [nete], una media [mese] e una paramedia [paramese], in modo che le note fisse fossero tante quante i pianeti [Teoria B].

      Teoria A Teoria B
  la3 nete [superiore] Stelle fisse Saturno
  mi3 nete [disgiunto] Saturno Giove
  re3 nete [congiunto]   Marte
  si2 paramese Giove Sole
  la2 mese Marte Venere
  mi1 ypate [medio] Sole (+ Venere, Mercurio) Mercurio
  si1 ypate [inferiore] Luna Luna
  la1 proslambanomenos [Terra] [Terra]

I moderni invece, avendo posto sotto la nota più bassa la nota aggiunta, che ne differisce di un tono, hanno reso di due ottave l’intera scala, ma non hanno mantenuto l’ordine naturale degli accordi, perché l’intervallo di quinta viene a essere prima di quello di quarta, essendo stata aggiunta sotto la nota più bassa quella ancora più bassa di un tono. È chiaro invece che Platone aggiunge sì la nota, ma sopra la più alta [rispetto alla Teoria B]. Infatti nella Repubblica [617b4-7] egli dice che ciascuna delle otto sfere girando porta una Sirena che sta su di essa, e che queste Sirene cantano tutte emettendo ognuna un tono, e che da tutte si ha la fusione in un unico accordo. E queste Sirene rilassandosi intrecciano i loro divini fraseggi e decantano una melodia su otto note durante il sacro percorso circolare della loro danza: otto infatti erano anche quei primi termini dei rapporti doppi e tripli, venendo, nel computo, aggiunta l’unità a ciascuna delle due successioni. E gli antichi hanno trasmesso anche a noi le Muse, in numero di nove: otto che, come vuole Platone, si curano delle cose celesti; la nona che è chiamata a addolcire quelle terrene e che dal loro vagare e dalla loro discordia ferma la sregolatezza e la confusione che le posseggono.

33. Guardate allora se non sia l’Anima a guidare il cielo e le cose celesti con le melodie e i moti che le sono propri, dopo che è divenuta assai saggia e giusta; e se essa non sia diventata tale grazie ai rapporti armonici, le cui immagini si materializzano nelle parti visibili e viste dell’Universo, nei corpi: ma la sua prima e più prestigiosa facoltà è stata infusa nell’Anima in modo invisibile e la rende concorde con se stessa e docile, poiché tutte quante le altre sue parti sono in accordo con quella migliore e più divina.

Infatti il Demiurgo, che aveva ricevuto disordine e stonature nei movimenti dell’anima disarmonica e stolida essendo in discordia con se stessa, alcune cose le definì e le distinse, altre le ricondusse assieme e le coordinò valendosi di accordi e numeri: grazie a questi anche i corpi più sordi, pietre e pezzi di legno e cortecce di piante e ossa di animali e pungiglioni, se vengono mescolati e tra loro connessi ci danno statue mirabili alla vista e farmaci e strumenti di straordinaria potenza. Per cui anche Zenone di Cizio esortava i ragazzi a guardare i suonatori di aulo, perché si rendessero conto di quale suono emettessero corni, legni e canne e ossa, partecipando di razionalità e consonanza.

Mentre sostenere che tutte le cose assomiglino, secondo l’asserzione pitagorica, a un numero richiede un ragionamento, il fatto che a tutte le cose alle quali da differenza e dissomiglianza sia venuta una vicendevole comunione e consonanza, di cui siano la causa misura e ordine, in quanto partecipanti di numero e armonia, questo fatto, dico non è sfuggito neppure ai poeti, che chiamano concilianti e gentili le relazioni amichevoli, sgradevoli invece le persone ostili e i nemici, poiché il disaccordo è disarmonia. Colui che compose l’epicedio per Pindaro dicendo: «Era quest’uomo ben disposto verso gli stranieri e amico ai suoi concittadini», è chiaro che considerava la virtù atteggiamento conciliante, come lo stesso Pindaro in un certo luogo dice che Cadmo ascoltava il Dio che dispiegava verace musica.

I teologi di un tempo, che sono i più antichi tra i filosofi, mettevano strumenti musicali nelle mani delle statue degli dei, non perché credessero che essi sonassero la lira o l’aulo, ma perché ritenevano che nessuna cosa fosse tipica degli Dei quanto l’armonia e l’accordo. Proprio come è ridicolo chi cerca i rapporti di 3/2, 4/3, 2/1 nel giogo della lira, nella cassa di risonanza e nei pìroli (bisogna sì che questi elementi siano proporzionati l’uno all’altro nelle lunghezze e negli spessori, ma quell’armonia va ricercata nei suoni), così è verisimile che anche i corpi celesti e le ampiezze dei loro dischi e le velocità dei loro moti orbitali stiano convenientemente, come strumenti musicali, in rapporti stabiliti sia tra loro sia con il tutto, anche se la quantità della unità di misura ci è sfuggita; pur tuttavia è verisimile ritenere effetto di quei rapporti e di quei numeri, di cui il Demiurgo si servì, l’armonia e l’accordo dell’Anima con se stessa, per effetto dei quali sia, una volta trovatasi in esso riempì il cielo di innumerevoli cose buone, sia, con stagioni e mutamenti che hanno una loro misura organizzò le cose della terra in modo ottimo e bellissimo per la nascita e la sopravvivenza degli esseri che vi si generano.

Nicomaco

[da Zanoncelli 1990: 147-151]

3. Probabilmente i nomi delle note risalgono ai sette pianeti che percorrendo il cielo ruotano attorno alla terra; [a] si afferma infatti che ogni corpo lanciato in una materia penetrabile e ad alta elasticità genera necessariamente rumori che dipendono, per grandezza e ambito sonoro o dalla sua mole, o dalla sua particolare velocità, o dalla zona [= materiale] in cui compie la sua corsa, zona che può essere molto elastica o, al contrario, rigida. Le stesse tre distinzioni si osservano chiaramente in rapporto ai pianeti, diversi l'uno dall'altro per grandezza, velocità e luogo, sfreccianti eternamente e senza sosta nel fluido etereo. Proprio per questo ebbero tutti il nome di astri, nel senso di privi di stasi e in eterna corsa, termini ai quali risalgono anche quelli di dio e di etere. [b]

Dal moto di Crono [Saturno], che è il più in alto rispetto a noi, fu chiamato ipate il suono più grave dell'ottava, perché ipaton significa 'alto'; e la nete ebbe invece nome dalla Luna, il più basso di tutti e il più vicino alla terra, perché neton vuoi dire 'basso'. Dai pianeti che si trovano accanto a loro la paripate deriva il suo nome da Zeus [Giove], al di sotto di Crono, e la paranete da quello al di sopra della Luna, cioè Afrodite [Venere]. [c] La mese dal pianeta che si trova esattamente al centro, cioè il Sole, situato in quarta posizione a partire dal basso come dall'alto; la mese nell'antico eptacordo distava di un tetracordo dai due suoni estremi, così come Elios [Sole], tra i sette pianeti, è il quarto a partire da tutte e due le parti, e si trova in posizione assolutamente centrale. Ai due la ti del sole Ares [Marte], che si colloca nella sfera tra Zeus ed Elios, ha dato il nome all'ipermese o lichanos; ed Ermes [Mercurio], in mezzo tra Afrodite [Venere] ed Elios, alla paramese. Approfondiremo, amica mirabile che ami la bellezza e la bontà, con maggior cura questo argomento e con ampie dimostrazioni geometriche e aritmetiche nei commentari che ti ho promesso prima. [d]

a. L'ipotesi di Nicomaco si basa su etimologie che non riguardano i pianeti, ma il nome assegnato alla scala greca in base alla pratica musicale sulla lira, pertanto alcune note prendono il nome dalla posizione (nete = estrema, trite = terza, mese = mediana), altre da tecniche esecutive (lichanos = corda dell’indice, hypate = corda più distante), e il prefisso par- significa ‘vicino a’.
b. Le etimologie di Nicomaco (derivate da Platone, Crat. 410b e 397d) sono inconsistenti: aster non è il contrario di stasis (immaginandolo preceduto da una a privativa), né ha rapporto diretto con theos o aither.
c. Nicomaco ritiene che Venere sia più vicina alla luna di Mercurio (successione in genere preferita dalla tradizione antica).
d. La scala proposta, oltre a invertire la direzione delle altezze, appare ulteriormente impropria: è costituita da un doppio tetracordo (quindi senza relazione d'ottava), il mediante e il congiunta, e denomina Mercurio come se appartenesse al tetracordo disgiunto. Non vale la pena chiedersi quale scala Nicomaco avesse in mente, se cromatica o diatonica, perché probabilmente era un problema trascurato dalla sua approssimativa ricostruzione.

Censorino

Testo di straordinario successo nei tempi moderni (cfr bibliografia).

XIII. Ad haec accedit, quod Pythagoras prodidit, hunc totum mundum musica factum ratione: septemque stellas inter coelum et terram vagas, quae mortalium geneses moderantur, motum habere si eurytmon, et intervalla musicis diastematis congrua, sonitusque varios reddere, pro sua quamque altitudine, ita concordes, ut dulcissimain quidem concinant melodiam, sed nobis inaudibilem, propter vocis magnitudinem, quam capere aurium nostrarum angustiae non possunt. Considera che, come disse Pitagora, tutto l'universo è organizzato secondo il sistema musicale; che i sette astri che vagano tra il cielo e la terra e che regolano la vita dei mortali, hanno un movimento armonico e intervalli corrispondenti alle scale musicali, e che emettono suoni diversi secondo la propria altezza, e così consonanti che paiono una deliziosa melodia, ma che le nostre orecchie non sentono, troppo deboli per sostenere la maestosa grandezza di un tale concerto.
Nam, ut Eratosthenes geometrica ratione collegit, maximum terrae circuitum esse stadiorum cclii millium: ita Pythagoras, quot stadia inter terram et singulas stellas essent indicavit. Stadium autem in hac mundi mensura id potissimum intelligendum est, quod Italicum vocant, pedum dcxxv: nam sunt praeterea et alia, longitudine discrepantia: ut Olympicum, quod est pedum dc; item Pythicum, pedum m. Infatti, se Eratostene dimostrò con calcoli geometrici che l'intera circonferenza della terra misura 252 mila stadi, così Pitagora indicò quanti stadi c'erano tra la terra e ciascuno degli astri. E lo stadio a cui si fa riferimento in questa misurazione del mondo è quello detto italico, che è di 625 piedi; perché ce ne sono molti altri di diversa lunghezza, come lo stadio olimpico di 600 piedi, e il pitico di mille.
Igitur ab terra ad lunam Pythagoras putavit esse stadiorum circiter cxxvi millia, idque esse toni intervallum; a luna autem usque ad Mercurii stellam, quae stilbon vocatur, dimidium eius, velut emitonion, hinc ad phosphoron, quae est Veneris stella, fere tantumdem, hoc est aliud emitonion: inde porro ad solem ter tantum, quasi tonum et dimidium. Dunque, dalla terra alla luna, Pitagora pensava ci fossero circa 126 mila stadi, che danno l'intervallo di un tono; che dalla terra alla sfera di Mercurio, che si chiama stilbon, c'è mezzo tono, cioè un semitono; che da Mercurio alla sfera di Venere, che si chiama phosphoros, c'è circa lo stesso, cioè un semitono; che da questa sfera al sole ce n'è tre volte tanto, cioè un tono e mezzo.
Itaque solis astrum abesse a terra tonos tres et dimidium, quod vocatur diapente; a luna autem duos et dimidium, quod est diatessaron. Pertanto il sole è lontano dalla terra tre toni e un semitono, cioè l'intervallo che si chiama diapente; che è lontano dalla luna due toni e mezzo, cioè l'intervallo che si chiama diatessaron.
A sole vero ad stellam Martis, cui nomen est pyrois, tantumdem iutervalli esse, quantum a terra ad lunam, idque facere tonon; hinc ad Jovis stellam, quae phaeton appellatur, dimidium eius, quod facit emitonion: tantumdem a Iove ad Saturni stellam, cui phainon nomen est, id est aliud emitonion: inde ad summum coelum, ubi signa sunt, perinde emitonion. Dal sole alla sfera di Marte, che si chiama pyrois, c'è tanta distanza quanto dalla terra alla luna, cioè l'intervallo di un tono. Dalla sfera di Marte a quella di Giove, che si chiama phaethon, c'è mezza distanza, cioè un semitono. Dalla sfera di Giove a quella di Saturno, che si chiama phenon, c'è ancora un semitono.
Itaque a coelo summo ad solem diastema esse diatessaron id est duorum tonorum et dimidii: ad terrae autem summitatem ab eodem coelo tonos esse sex, in quibus sit diapason symphonia [36]. Da lì al Cielo ultimo c'è sempre l'intervallo di un semitono; che così, dal Cielo ultimo al sole, c'è l'intervallo di diatessaron, cioè di due toni e mezzo; e dallo stesso cielo al punto più basso della terra, ci sono sei toni, che dà l'intervallo di diapason.
Praeterea multa, quae musici tractant, ad alias retulit stellas, et hunc omnem mundum enarmonion [38] esse ostendit. Quare Dorylaus scripsit, esse hunc mundum organum Dei; alii addiderunt esse idem to choreion, quia septeni sunt vagae stellae, quae plurimum moveantur. Sed, his omnibus subtiliter tractandis, hic locus non est: quae, si vellem in unum librum separatim congerere, tamen in angustiis versarer: quin potius (quoniam me longius dulcedo musica abduxit) ad propositum revertor. Inoltre [Pitagora] ha messo in relazione con i vari astri molti altri aspetti relativi alla musica, e ha dimostrato che tutto l'universo è enarmonico: per questo Dorylaus ha scritto che questo mondo è lo strumento di Dio; altri hanno aggiunto che è il choreion (per la danza), per le evoluzioni varie e regolari dei sette astri erranti. Ma siccome tutto questo richiede dettagli minuziosi, non è questo il luogo per soffermarsi; anche se vi dedicassi un intero libro mi troverei ancora troppo stretto. Quindi, smettendo la digressione in cui mi ha portato il fascino della musica, torno al mio soggetto.

Ambrogio

[edizione Utet 2017]

I giornata: Dopo un’introduzione, dedicata alle diverse opinioni sull’origine del mondo (1-4) e a Mosè (5-7), l’omilia tratta la creazione in generale (8-24), con i seguenti argomenti: istantaneità della creazione, finitezza del mondo e eternità di Dio (8-9) — principio del mondo (10-19) — cielo e terra, loro figura, posizione e sostanza (20-24). La luce (25-38).

1. Bisogna proprio che gli uomini abbiano fatto gran conto dei propri pareri, per stabilire, alcuni di essi, tre princìpi costitutivi del tutto: Dio, la forma esemplare, e la materia, come fa Platone con i suoi discepoli; e sostenere che quei princìpi sono incorruttibili e increati ed eterni; e affermare inoltre che Dio ha fatto il mondo non come creatore della materia, ma come un artigiano che segue un esemplare, in questo caso l’idea, servendosi della materia, detta hyle, la quale, secondo loro, avrebbe fornito a tutte le cose le cause della generazione; e stabilire che perfino il mondo è incorruttibile, e non è stato né creato né fatto.
Altri poi – come Aristotele ha creduto di dimostrare con i suoi discepoli – hanno posto due princìpi, la materia e la forma, più un terzo, detto efficiente, a cui spetterebbe di causare secondo la propria forza quanto gli passerebbe per il capo di intraprendere.

II giornata: Qui si parla del firmamento: dopo il riepilogo (1-3) si affronta: la creazione del firmamento (4-5), pluralità dei cieli (6-7), le acque che stanno sopra di esso (8-11) e loro utilità (12-14), qualità diverse dei cieli e del firmamento (15-17); gaudio di Dio per la creazione del secondo giorno (18-22).

6. Perciò non solo non possiamo negare l’esistenza di un secondo cielo, bensì anche di un terzo, dal momento che l’Apostolo conferma con la testimonianza dei suoi scritti di essere stato rapito fino al terzo cielo [2 Cor 12.2]. Davide pone anche «i cieli dei cieli» [Sal 148.4] in quella schiera di esseri che lodano Dio cantando. Ispirandosi a Davide, i filosofi hanno supposto un movimento armoniosamente coordinato nelle sfere dei cinque pianeti, del sole e della luna, e spiegano che tutte le cose sono tenute insieme dalle loro orbite, o, meglio ancora, dalle loro sfere. E pensano che queste, vicendevolmente inserite come in un’unica circonferenza, ruotino in senso inverso, l’una con moto contrario all’altra, e che dalla foga di questa rotazione si sprigioni un suono indistinto, soave e delizioso, pieno di una raffinata melodia che incanta; e la ragione è che l’atmosfera, solcata da un moto tanto regolare, mescolando insieme i toni acuti con quelli gravi, produrrebbe concenti così diversi, pur nella loro proporzione armoniosa, da superare la bellezza di qualsiasi altra musica.

7. Se però, andando a fondo nella questione, provi a chiedere che ti dimostrino la realtà di questo fatto con le prove dei sensi e dell’udito, allora non sanno che cosa risponderti. Se fosse vero, allora come mai noi, che di solito avvertiamo anche i suoni più deboli, non riusciamo a sentire nulla mentre rimbomba il moto così enorme di quelle sfere, se l’orbita celeste, sulla quale è fissato, come dicono, il corso perpetuamente rotatorio dei pianeti ha una rivoluzione più celere e suscita un suono acuto, mentre l’orbita lunare suscita il suono più grave? ... Ma lasciamo pure a chi non è dei nostri, questioni che non riguardano né i nostri reali interessi né l’ordine narrativo delle pagine divine, che stiamo leggendo: quanto a noi, restiamo fedelmente devoti all’insegnamento delle Scritture celesti.

III giornata: L’acqua e la terra: dopo un accenno alla raccolta delle acque, simbolo della Chiesa (1-6), si spiega la fluidità dell’acqua (7-11), l’origine dei mari da un’unica acqua (12-16), la terra (17-19), la bellezza del mare (20-24). Creazione delle piante (25-72).

3. ... L’eresia è una valle, il gentilesimo è una valle, perché Dio è il Dio delle montagne, non delle valli. In fin dei conti, il giubilo è di casa nella Chiesa, invece nell’eresia e nel gentilesimo c’è solo il pianto e la tristezza. Per questo dice la Scrittura: «Ha disposto il pianto nella convalle» [Sal 83/84 7]. Perciò il popolo cattolico si è riunito da tutte le valli. [a] Non ci sono ormai più molte comunità, ma una sola è la comunità, una sola è la Chiesa. Anche qui da noi fu detto: «Si riunisca l’acqua da ogni valle», ed ecco costituita una comunità spirituale, un unico popolo: di eretici e di gentili si è riempita la Chiesa. Invece, il teatro è una valle, una valle è il circo, ove i cavalli cercano di salvarsi correndo gare truccate, ove avvengono lotte avvilenti e volgari, contese che sono un turpe sconcio. Eppure dai più assidui frequentatori del circo è venuta ad accrescersi la fede della Chiesa, e quotidianamente ne aumenta l’assemblea.

a. Ambrogio crea un'insolita metafora fra la valle, luogo chiuso e bacino di corruzione, e la cristianità che si diffonde e pervade il mondo come l'acqua.

5. Si è riunita l’acqua da tutti i laghi e da tutti i fossati ... si è riunita affinché abbiano a trovar diletto non nelle canzoni funeste dei buffoni di palcoscenico, che illanguidiscono l’anima disponendola agli a razzi, bensì nel canto armonioso della Chiesa, nella voce e nella santa vita del popolo che si fonde all’unisono nell’inneggiare a Dio; affinché si allietino non nel contemplare i ricchi tappeti di porpora e i preziosi sipari dei teatri, bensì questa scenografica costruzione del mondo, questa fusione di elementi contrastanti per natura, il cielo librato come un ampio soffitto per avvolgere gli abitanti dell’orbe, la terra fatta per essere lavorata, l’aria che si espande, i mari circondati dalle loro sponde; si allietino nel contemplare questo popolo, organo musicale per le mani di Dio, in cui echeggiano le note della rivelazione divina e agisce all’interno lo Spirito di Dio ...

21. Dio, dunque, vide che il mare era un bene. E di fatto questo elemento è splendido a vedersi, sia quando biancheggia per il sollevarsi delle masse d’acqua e delle creste ondose, e gli scogli spumeggiano di nivei spruzzi, sia quando, dolcemente increspandosi la sua superficie allo spirare di brezze più miti, acquista il cupo colore cangiante, proprio della serena bonaccia, che spesso abbacina gli occhi di chi lo contempla da lontano, allorché non sconvolge i lidi circostanti con la violenza dei suoi marosi, ma li saluta come abbracciandoli con sereni amplessi – e con che suono gradito, con che giocondo mormorio, con che soave e armonioso rimbalzare dell’onde! ...

23. ... Perciò il mare è rifugio alla temperanza, palestra di vita mortificata, solitudine austera, porto sicuro, tranquillità nel secolo, vita frugale nel mondo, e inoltre incentivo al raccoglimento per le persone fedeli e consacrate a Dio, sì che le loro salmodie rivaleggiano col mormorar dell’onde che sciabordano lievemente, e le isole echeggiano col loro applauso alla danza composta dei flutti santi, risuonando degli inni dei cristiani. E come potrei descrivere compiutamente la bellezza del mare, che il Creatore vide? Che altro devo aggiungere? Che cos’è il canto del mare, se non un’eco dei canti dell’assemblea cristiana? Perciò è molto giusto che la chiesa sia paragonata al mare: in principio, all’entrare della folla fedele, essa rigurgita da tutti gli ingressi delle sue onde e poi, mentre il popolo prega tutto insieme, scroscia come il riflusso di onde spumeggianti, quando il canto degli uomini, delle donne, delle vergini, dei ragazzi fa eco ai responsori dei salmi come l’armonioso fragore dell’onde.

IV giornata: Tratta la creazione degli astri che sono servitori di Dio, non divinità autonome (1-7), distinti dalla luce e ad essa posteriori (8-11); importanza degli astri come segni e confutazione dell’astrologia (12-19); stagioni, giorni e anni (20-24), grandezza degli astri (25-28), la luna e il suo simbolismo (29-34).

33. Gli stregoni non hanno alcun potere, là dove, ogni giorno, si canta a voce spiegata l’inno di Cristo.

V giornta: Creazione dei pesci (1-35) e degli uccelli (36-92)

36. ... Chi mai infatti, purché abbia un cuore, non arrossirebbe di chiudere il giorno senza ripetere i salmi, se perfino uccelli piccolissimi accompagnano lo spuntar dei giorni e delle notti con la loro abituale pietà e con i loro canti soavi?

37. ... Ma non ho nessun dubbio che sia impossibile a chi è rimasto sveglio fra i pesci [= quando vi parlavo dei pesci], creature mute, prender sonno in mezzo agli uccelli, creature canore, sentendosi invitato a star sveglio da un simile diletto.

38. ... Non c’è convenienza a indugiare fra creature abituate al piacere della velocità. Perciò le mie parole, che sono insolite e fuori di mano in un simile genere di trattazioni, echeggiando risuonino del canto sonoro degli uccelli.

39. Ma dove prenderò, per ispirarmi, i canti del cigno, che dilettano anche nell’improvvisa terribilità della morte imminente? Dove prenderò quelle naturali cadenze cantilenanti, per cui anche le sonore paludi echeggiano di canti piacevolissimi, tanto son belli? Dove, il verso del pappagallo e la soavità dei merli? Oh, se almeno cantasse l’usignuolo per svegliarmi dal sonno! Quest’uccello, infatti, suole indicare l’alba del giorno che nasce, e spandere per l’aria del mattino una più intensa letizia. Ma se tuttavia manca la dolcezza della voce di questi uccelli ecco il gemito delle tortore e il roco tubar delle colombe, ecco ancora la cornacchia chiamare a gran voce la pioggia ...

76. Quant’è dolce poi anche la cantilena che vien fuori dalla gola minuscola della cicala, al cui canto si fendono perfino gli alberi a mezzo dell’estate, allorché i calori del meriggio rendono le cicale più canterine, e quanto più pura è l’aria che a quell’epoca inspirano, tanto più terso ne risuona il canto. E nemmeno le api emettono un suono troppo sgradevole; infatti esse in quel ronzante mormorar della voce hanno una dolcezza gradita, e si direbbe che noi l’abbiamo imitata con una certa lentezza, per la prima volta, col suono spezzato delle trombe, di cui non c’è fragore più adatto per incitare gli animi al valore. E questa è la loro singolare caratteristica, perché si dice che siano senza polmoni e perciò prive della facoltà e degli organi della respirazione, ma che vivano d’aria.

85. Anche la notte ha le sue musiche, con cui suole allietare le veglie degli uomini; perfino la civetta ha i suoi canti. Ma che cosa dire dell’usignuolo, che, come sentinella sempre desta, mentre riscalda in grembo le uova, proteggendole come in un abbraccio, mitiga con la soavità del suo canto l’insonne travaglio della lunga notte, talché a me pare che la sua massima tensione sia quella di dar vita alle uova, che sta covando, non meno con la grande dolcezza della melodia che col tepore del suo corpo. Imitandone l’esempio, la donna meschinella, ma onesta, mentre muove con le sue mani la macina scalpellata perché ai suoi bambini non venga a mancare il pane, lenisce col canto notturno la povertà che la fa immalinconire, e sebbene non possa imitare la dolcezza dell’usignuolo, ne imita tuttavia il premuroso affetto.

88. Ma nella notte si sente anche il canto del gallo – e non solo gradito, ma anche utile, perché il gallo, come un amabile nostro coinquilino, sveglia chi ancora dormicchia, e avverte chi è pronto, e consola chi è in viaggio, attestando solennemente col suo segnale sonoro che la notte ha ormai fatto il suo corso. Al suo canto, il brigante lascia l’imboscata, e perfino la stella del mattino, ridestandosi, si leva su in cielo e l’illumina; al suo canto, il marinaio che non ha preso riposo sgombra la sua malinconia, e comincia a placarsi ogni tempestosa burrasca, che ai venti della sera si era d’un tratto levata; e, al sentirlo, il cuore religioso balza alla preghiera, e riprende la lettura interrotta; al suo canto, infine, anche la Pietra della Chiesa [= Pietro] lava nel pianto la sua colpa, contratta col rinnegare Cristo, prima che il gallo cantasse. Al canto del gallo torna in tutti la speranza, si allevia l’affanno degli infermi, si attutisce il dolore delle piaghe, e si placa l’arsura della febbre ...

VI giornata: Creazione degli animali (1-35) e dell'uomo, come spirito (36-53) e corpo (54-76).

61. ... I nervi, poi, sono come l’organo dei singoli sensi, e, dipartendosi dal cervello come altrettante corde di strumenti musicali, giungono alla sede delle loro singole funzioni, attraversando le parti del corpo ...

62. L’udito ha poi importanza rilevantissima, e una utilità press’a poco conforme a quella della vista. Per questo le orecchie sono alquanto prominenti, sia per conferire un decoroso ornamento al viso, sia per accogliere tutte quelle piccole impurità e gocce di sudore che scorrono dal capo, e al tempo stesso perché la voce, ripercotendosi nella loro concavità, possa entrarvi senza offendere gli interni meati. E se non fosse così, chi non resterebbe stordito a ogni suono un po’ più forte del normale, se già, pur con tutte queste precauzioni difensive, spesso ci sentiamo assordati quando ci colpisce un improvviso frastuono? È poi da dire che le orecchie sembrano protendersi come altrettanti baluardi contro il rigore del freddo e l’intensità del caldo, perché non succeda che il freddo penetri nei loro condotti aperti, né li bruci l’ardore eccessivo. Quanto poi all’interno labirinto auricolare, esso facilita e disciplina una certa regolarità del suono, poiché attraverso le cavità auricolari si forma come una cadenza, per cui il suono della voce, che vi è entrata, si scandisce in certo qual modo ritmicamente. Inoltre l’esperienza stessa ci insegna che le cavità auricolari sono capaci di tenere a lungo i suoni ricevuti, poiché nelle cavità montane o presso le rupi solitarie o nelle anse dei fiumi la voce si sente più soave, e ne rimbalza l’eco che piacevolmente risponde. E le stesse impurità dell’orecchio non sono prive di utilità, perché legano la voce, affinché ne duri più a lungo il ricordo e la soavità dentro di noi.

67. ... La voce, poi, viene trasportata come dalle ali del vento e, volando nel vuoto, sferza l’aria col suono suo vigoroso, e ora scuote, ora placa l’animo di chi ascolta, ne mitiga l’esasperazione, ne rinfranca lo sgomento, ne consola il dolore. La sonorità della voce ci sia perciò pure in comune con gli uccelli; ma coloro che si servono dei suoni vocali conforme alla ragione, non possono certo averne in comune l’uso con tutti gli animali irragionevoli. Infatti, noi abbiamo perfino i sensi in comune con tutti gli altri animali, però gli altri esseri viventi non li adoperano con la stessa nostra industriosità. Anche la giovenca alza gli occhi al cielo, ma non capisce che cosa vede; li alzano le fiere, li alzano gli uccelli, tutte le bestie possono liberamente vedere, ma solo nell’uomo è insita la coscienza, che dà voce alle cose che vede. Egli contempla con gli occhi il levarsi e il tramontare degli astri, vede l’ornamento del cielo, ammira le rotazioni delle stelle, sa distinguere anche la diversa intensità del loro fulgore, e sa quando spunta Vespero e quando Lucifero [= Venere], e perché l’uno sia la stella della sera, l’altro quella del mattino; conosce quali siano i movimenti di Orione, quali le fasi decrescenti della luna, e come il sole conosca il suo tramonto, e come conservi le orbite del suo percorso con un ordine immutabile.

Anche gli altri animali odono, ma chi, all’infuori dell’uomo, distingue i suoni che ode? Soltanto l’uomo, fra tutte le specie terrestri, sa raccogliere insieme i segreti della sapienza con l’udito, con la meditazione e col senno, egli che può dire: «Ascolterò quanto dirà in me il Signore Iddio» [Sal 84/85 9]. E questa è dote preziosissima, che l’uomo diventi strumento della voce di Dio e pronunzi con le labbra del corpo una rivelazione venuta dal cielo: «“Grida!” “Che cosa griderò?” “Ogni carne è come erba”» [Is 40.6]. L’uomo sentì quello che doveva dire, e gridò. Si tengano pure il loro senno quegli scienziati che misurano con la bacchetta gli spazi celesti e terrestri, si tengano la loro sagacia, di cui il Signore dice: «Io riproverò la sagacia dei sapienti» [Is 29.14, 1 Cor 1.19]. E nemmeno io parlerò qui delle clausole ritmiche del discorso o del ritmo e della melodia musicale, ma vi sto determinando quella sapienza, di cui l’autore ispirato dice: «Mi hai manifestato le verità difficili e segrete della tua sapienza» [Sal 50/51 8].

Capella

[edizione Bompiani 2001]

Mercurio si reca da Apollo per chiedere consiglio circa la donna da sposare e attraversa la sua foresta sacra del dio Sole (Apollo)

I. [11] ... anche per il sussurro delle brezze del bosco si sprigionava una modulazione di suono con un certo sfregamento di effetto musicale. Infatti, le cime più svettanti degli alberi alti, estese fino a tale punto, riecheggiavano di un suono acuto; tutto quello che, invece, confinava con il suolo e vi era vicino, con rami inclinati in basso, era un suono grave e roco a scuoterlo. I fusti di media altezza invece, grazie ai loro contatti, creavano un concento di armonie doppie e di 3/2, nonché di 4/3, e anche di 9/ 8, senza differenziazione di elementi di congiunzione, benché intervenissero dei semitoni. Così accadeva che quel bosco risuonasse dell'intera armonia e del canto dei celesti, con la congruenza delle modulazioni. [12] E mentre il Cillenio spiegava questo, Virtù apprese che in cielo le sfere con pari ritmi o producono concenti o accompagnano gli altrui. E non c'era da meravigliarsi che il bosco di Apollo mostrasse una tale armonia calcolata , dal momento che era lo stesso Delio a regolare nel Sole anche le sfere celesti, e questo era il motivo per cui egli era chiamato qui Febo, là Chioma-d'Oro;

Salita al cielo: le muse si dispongono sui pianeti

[27] ... la Terra si era illuminata di fiori ... I corpi celesti superiori, poi, e i sette pianeti con suoni armoniosi levavano un concento di una certa soave melodia, con un suono più dolce del consueto, poiché si erano accorti in anticipo che stavano giungendo le Muse: ed esse a loro volta si disposero, singolarmente, nelle sfere destinate a ciascuna, secondo dove ognuna aveva riconosciuto il suono della propria modulazione; Urania, infatti, occupò la sfera più esterna del firmamento stellato, che girava velocemente, echeggiando di un suono acuto; [28] Polinnia cominciò a regolare la sfera di Saturno, Euterpe quella di Giove; Erato, entrata nella sfera di Marte, prese a controllarla; Melpòmene quella mediana, dove il Sole abbellisce l'universo con luce fiammante; Tersicore si unì all'oro di Venere; Calliope abbracciò il giro del Cillenio [Mercurio], Clio la sfera più vicina, ossia pose la sua residenza nella Luna, la quale invero risuonava di note gravi, con modi musicali più rochi. Solo Talia invece, abbandonata, se ne stava seduta sul grembo stesso di un campo in fiore , poiché il suo mezzo di trasporto, il cigno, non sopportando il peso e nemmeno di spiccare il volo, si era diretto verso gli stagni che lo avevano visto crescere.

Universo musicale

II. [145] ... insieme con Filologia. La precedette là, mentre saliva, la processione delle Muse che cantava in coro ... [156] ... tutto ciò che intercorre dal circolo della Luna fino alla Terra si distingue per la separazione di uno spazio proprio ... [169] Allora i trasportatori, afferrata la lettiga della dea, la sollevarono con grande sforzo. Ma una volta che, sostenuti dalla leggerezza dell'aria, furono saliti di 126 mila stadi ed ebbero completato il primo suono dei toni celesti, la vergine, dopo essere entrata nel circolo lunare, supplicata da vapori sacrificali adatti a una dea, contemplò da vicino un certo corpo sferico e soffice [la Luna] che, come uno specchio fulgidissimo, rifletteva i raggi dello splendore gettatole addosso ... [171] Quindi, percorrendo la metà dello spazio impiegato per salire fino alla Luna, pervenne al circolo del Cillenio [Mercurio]. E una volta percorso tale semitono ... [181] Da qui fu affrettata la salita e si volò per lo spazio di un semitono fino al circolo di Venere ... [182] Ben presto ebbe il desiderio di raggiungere il cerchio del Sole e invero la salita, che si stimava di un tono e mezzo, era resa più faticosa di una volta e mezzo ... [194] ... ricevette l'ordine di passa attraverso le sedi degli dei, ma quando ella si fu sollevata di un semitono [a] la trattenne il circolo Piroide [Marte] in cui era il più grande dei figli di Giove ... [196] Una volta superato questo, giacché non le era costato fatica superare l'intervallo di un [altro] semitono, giunsero agli splendori del pianeta Giove, il cui circolo risuonava della [sua] melodia ... [197] Da qui ella attraversò anche questo circolo e, levatasi in alto di un intervallo simile, scorse il freddissimo creatore degli dei [Saturno] irrigidito dal gelo e con brine nivali. Ora quel medesimo orbe, attorno cui ella si sforzava di girare, risuonava di una melodia dorica ... [198] Di là con i più grandi sforzi si innalzarono di un grado e mezzo nel loro itinerario. Infatti nello spazio di un tono e mezzo si giunse al globo della sfera celeste e della rotondità incastonata di stelle che abbraccia l'universo. [199] E così affaticati per l'ascesa di sei toni [b] e per l'esaurita spossatezza degli stadi percorsi, quando si resero conto che ciò che avevano attraversato consuonava nella perfezione di una modulazione completa, ristorati dopo sforzi immensi si riposarono un poco.

a. In realtà, secondo la tradizione che muove da Plinio la distanza sarebbe un tono, ma probabilmente Capella si rifà a Igino che crea una scala anomala in cui fra Sole e Marte vi è un semitono. È tuttavia possibile si tratti di un errore poiché alla fine Capella calcola 6 toni complessivi che sarebbero invece 5 e mezzo se questa distanza fosse di un semitono.
b. I sei toni, posto che fra Sole e Marte vi sia un tono (e non un semitono), sono la distanza fra Luna e Stelle fisse, non dalla Terra.

Boezio

[edizione Marzi 1990]

I.1. ... il potere discriminante dell'orecchio, la cui potenza percettiva coglie i suoni in modo da impegnarsi in un giudizio e riconoscerne le differenze: e non solo, ma addirittura ne trae diletto se i modi sono gradevoli e armoniosi, ne soffre se sono senz'ordine e coerenza. Ne deriva che delle quattro discipline matematiche, tre hanno per oggetto la ricerca della verità, mentre la musica non soltanto è connessa con la speculazione, ma anche con la moralità. Nulla è infatti così strettamente umano quanto l'abbandonarsi a dolci armonie e il sentirsi contratti dalle discordanti: ciò non si limita a gusti singoli o a singole età, ma abbraccia le tendenze di tutti; e così i bambini, i giovani e pur anche i vecchi sono rivolti alle armonie musicali in virtù di naturale e per così dire spontanea disposizione, in modo che non esiste un'età che si sottragga al fascino di una dolce melodia. Quindi si può anche comprendere quel che non senza motivo ebbe a dire Platone, che cioè l'anima del mondo è in rapporto stretto con l'armonia musicale [a] ...

I.20. Nicomaco riferisce che da principio la musica fu tanto semplice che le bastavano quattro corde: ciò perdurò fino ad Orfeo ... Di tale tetracordo Mercurio è considerato l'inventore. Poi Torebo [= Tirreno], re dei Lidi, figlio di Atys, aggiunse la quinta corda e Hyagni di Frigia vi aggiunse in seguito la sesta. La settima corda fu opera di Terpandro di Lesbo, in similitudine parallela con i sette pianeti. Tra queste (corde) la più grave fu denominata hypate ['più distante'], perché più grande e più importante, per lo stesso motivo per cui chiamano Giove anche Hypaton. Con identico appellativo chiamano anche il Console, per l'eccellenza dell'autorità. Quella corda fu attribuita a Saturno per la lentezza del moto vibratorio e la gravità del suono ...

I.27. A proposito dei precedenti tetracordi aggiungerò questo soltanto, che cioè dall'hypate meson fino alla nete [mi2mi3] si realizza come un esempio dell'ordine e della determinazione celeste. Infatti l'hypate meson è attribuita a Saturno e la parhypate è rapportata alla sfera di Giove. La lichanòs meson fu considerata in parallelo con Marte, la mese con il Sole, la trite synemmenon con Venere, la paranete synemmenon con Mercurio. La nete, poi, è un esempio della sfera lunare. Marco Tullio [Cicerone], dal canto suo, dà un ordine tutto contrario. Infatti nel sesto libro del De Republica così dice:

È un fenomeno naturale che i suoni siano disposti in modo che da una parte siano gravi e dall'altra acuti. Per tale motivo l'ultima orbita dei corpi celesti, la cui rotazione è più rapida, è percorsa con suono acuto e vivace, mentre l'orbita lunare, più vicina, col suono più grave. Infatti la Terra, che è la nona, restando immobile, aderisce costantemente al suo punto di quiete.

Cicerone dunque sostiene che la terra è quasi un silenzio, per effetto della sua immobilità. Successivamente assegna alla Luna il suono più grave, il più vicino al silenzio, di modo che alla Luna fa corrispondere la proslambanomene [b], a Mercurio l'hypate hypaton, a Venere la parhypate hypaton, al Sole la lichanòs hypaton, a Marte l'hypate meson, a Giove la parhypate meson, a Saturno la lichanòs meson, all'ultimo cielo la mese ...

a. L'anima mundi che per Platone è un'energia vitale, con Boezio diventa, mutuata sull'anima umana, la componente emotiva.
b.
In realtà Cicerone non associa ai pianeti gradi precisi della scala che invece è una deduzione di Boezio (terra + la1la2). Il primo a farlo sarà Igino, ma nella forma: terra + mi2mi3).

II. 2. Dunque, per prima cosa, chi si pone a parlare di musica deve dire intanto quante siano le specie di musica nelle definizioni date dagli studiosi. Esse sono tre. La prima è appunto la musica del mondo, la seconda è quella pertinente all'uomo, e la terza è quella che si realizza al suono di strumenti, come cetre, tibie ed altri, posti al servizio del canto.

Vediamo dapprima quellà che è la musica del mondo: essa deve essere colta soprattutto in quei fenomeni che si osservano nel cielo stesso, nell'insieme degli elementi o nelle varietà delle stagioni. Come è possibile che la così veloce macchina del cielo si muova con tacito e silenzioso corso? Sebbene non giunga al nostro udito quel suono, ciò che necessariamente deve dipendere da molte cause, non potrà tuttavia un movimento così veloce di corpi tanto grandi non eccitare suono alcuno quando si tenga conto che i corsi degli astri, in modo particolare, sono tra loro connessi con tale armonia che nulla si possa intendere ugualmente organizzato, nulla che sia allo stesso modo intimamente ordinato. Infatti comunemente si sostiene che alcuni (corsi) sono più alti, altri più bassi, e inoltre tutti sono posti in giro da eguale sollecitazione in modo che, pur attraverso disuguaglianze diverse, l'ordine dei corsi sia condotto a valida stabilità. Ne deriva che l'ordine stabile della modulazione non può essere disgiunto da questo celeste rivolgimento. E se una segreta armonia non coordinasse le diverse e contrarie potenze dei quattro elementi, come potrebbero essi fondersi in un unico armonico organismo? Ora, tutta questa diversità genera varietà di stagioni e di frutti, tale tuttavia da configurare un unico complesso, quello dell'anno; per cui, se tu eliminassi con l'animo e col pensiero qualcuno di questi elementi che dispensano alle cose una così grande varietà, tutto perirebbe e non conserverebbe, per così dire, alcunché di armonico. E come nelle corde gravi c'è un termine del suono, in modo che la gravità non giunga fino al silenzio, e nelle acute c'è pure un limite all'altezza, in modo che le corde troppo tese per l'esiguità del suono non si rompano, conformandosi tutto secondo convenienza; così anche nella musica del mondo riconosciamo che nessun elemento può essere così smodato da annichilire l'altro in virtù della propria eccessiva potenza. In verità, qualunque esso sia, o reca i propri frutti o presta aiuto agli altri perché li procurino. Infatti, ciò che l'inverno congela, la primavera scioglie, l'estate asciuga col calore, l'autunno porta a maturazione; e le stagioni a vicenda o recano esse stesse i propri frutti o provvedono a che siano le altre a recarli; ma di ciò si dovrà parlare più avanti con maggior cura.

La musica umana, poi, la percepisce chiunque discenda in se stesso. Che cosa è infatti che associa al corpo quella incorporea vivacità del pensiero se non una certa combinazione, un equilibrato rapporto tra voci gravi e acute a realizzare una consonanza? Che altro c'è che congiunge tra loro le parti di una stessa anima, la quale, come vuole Aristotele, è informata da razionale e irrazionale? E che cosa è che mischia gli elementi del corpo o che congiunge le sue parti con valido adattamento? Anche di questo discuterò più avanti.

Terza è la musica che si dice strumentale. Questa si realizza per effetto di tensione, come negli strumenti a corde, o per mezzo dell' aria, come nelle tibie o in quelli che sfruttano il movimento dell'acqua, o per mezzo di una percussione, come in quelli che, strutturati a forma di concavità bronzee, vengono colpiti: ne derivano suoni diversi. Pertanto sembra opportuno, in questo lavoro, trattare come prima cosa la musica strumentale. Basta quindi con l'introduzione, poiché ora si debbono esporre i principi elementari della musica.

Dionigi

vi.1 ... non vogliamo affermare nulla di nostro capo, ma bensì esporre, secondo le nostre forze, ciò che i dottori hanno visto per mezzo di una santa intuizione e ciò che hanno insegnato riguardo agli spiriti beati ...

vii.1. Accettando questa distribuzione delle sante gerarchie, noi affermiamo che ogni nome dato alle intelligenze celesti é il segno delle proprietà divine che le distinguono. Così, secondo le testimonianze dei dotti ebrei, la parola Serafini significa luce e calore, e la parola Cherubini, pienezza di scienza e sovrabbondanza di saggezza.

Conveniva, senza dubbio, che la prima gerarchia celeste [Serafini] fosse formata dai più sublimi spiriti; poiché tale é l'ordine che essi occupano al di sopra di tutti gli altri, poiché la Divinità, per una relazione immediata e diretta, lascia fluire sovr'essi più puramente ed efficacemente gli splendori della sua gloria e le conoscenze dei suoi misteri ...

Il nome di Cherubini, mostra che questi sono chiamati a conoscere ed ammirare Dio, a contemplare la luce nel suo splendore originale e la bontà increata nei suoi più splendidi irraggiamenti; che, partecipando della sapienza, si foggiano a sua somiglianza, e spandono, senza invidia, sulle essenze inferiori, l'onda dei doni meravigliosi che hanno ricevuto.

Il nome di nobili ed augusti Troni significa che sono completamente liberati dalle umilianti passioni della terra ...

2. ... Esse [schiere] sono ugualmente contemplative ... sono inondate di una luce che sorpassa ogni conoscenza spirituale ... Esse sono anche perfette, non perché sappiano spiegare i misteri nascosti sotto la varietà dei simboli, ma perché nella loro alta ed intima unione con la Divinità, acquistano a contatto con le opere divine, quella scienza ineffabile che possiedono gli angeli ... imparano da Dio stesso le alte e sovrane ragioni delle opere divine ...

4. Tale é, per quanto mi é dato sapere, la prima gerarchia dei cieli. Ordinata a guisa di un cerchio intorno alla Divinità, la circonda immediatamente, e tra le gioie di una perenne conoscenza, esulta nella meravigliosa fissità di quell'entusiasmo che trasporta gli angeli.

Essa gioisce delle sue molte, chiare e pure visioni; essa brilla sotto il dolce riflesso dello splendore infinito; essa è nutrita di un alimento divino, insieme abbondante (perché nella sua prima distribuzione) e realmente uno e perfettamente identico, a causa della semplicità dell'augusta sostanza. Per di più essa ha l'onore di essere associata a Dio e di cooperare alle sue opere, ridisegnando, nella misura del suo potere, le perfezioni e le azioni divine. Essa conosce sovreminentemente alcuni ineffabili misteri e, secondo la sua capacità, entra a parte della scienza dell'Altissimo. Infatti la teologia ha insegnato all'umanità gli inni che cantano questi sublimi spiriti ed il luogo donde emana l'eccellenza della luce che li inonda: poiché, per parlare il linguaggio terrestre, qualcuno di loro ripete col fragore delle grandi acque: Benedetta sia la gloria di Dio dal santo luogo ov'ei risiede! (Ezechiele 3.12), ed altri fanno risuonare questo maestoso e celebre cantico: Santo, santo, santo è il Signore degli eserciti; tutta la terra é piena della sua gloria! (Isaia 6.3).

Ma noi abbiamo spiegato, a nostro modo, questi sacri canti dei cieli, nel trattato degli inni divini, in cui ci sembra di aver chiarita sufficientemente questa materia [altro testo del Corpus dove trattano le cerimonie del culto]. Qui ci contentiamo di ricordare che la prima gerarchia, iniziata dalla infinita carità alla conoscenza dei divini misteri, li trasmette beneficamente alle gerarchie inferiori. Per dir tutto in una parola, essa insegna loro che la maestà terribile, degna di ogni lode e al disopra di ogni benedizione, deve essere conosciuta e glorificata quanto é possibile dalle intelligenze alle quali il Signore si comunica, perché, secondo la testimonianza della Scrittura, esse sono per la loro sublimità divina, come augusti e santi luoghi ove la divinità riposa. Essa insegna loro che l'unità semplicissima, sussistendo in tre persone, abbraccia nella cura della sua provvidenza la intera creazione, dalle più nobili essenze dei cieli alle più vili sostanze della terra; perché é l'eterno principio e la causa di tutte le creature, e tutte le stringe in un vincolo meraviglioso, ineffabile.

Aureliano

I. ... Da ciò, dunque, si deduce quanto sia gradito a Dio il dovere di cantare, se fatto con mente attenta, quando in questo imitiamo i cori degli angeli, che si dice cantino senza cessare di cantare le lodi del Signore. Senza dubbio la compagine e il naturale accordo di codesto mondo contiene un’armonica proporzione. Infatti, se tu esaminassi come ogni altra cosa gioisca mentre il sole sale più in alto, e come evidentemente l’aria diventi più pura, e il volto della terra si rivesta della bellezza dei fiori, e il mare si plachi dal suo impeto, capiresti che ogni creatura, unita da una mirabile armonia, si accorda con se medesima. Con quanta congruenza l’uomo stesso si adatti a questa disciplina non potrà non comprenderlo colui che avrà capito di avere tutte le cose che di solito si attribuiscono a quest’arte. Infatti egli ha in gola un condotto per cantare, nel petto una sorta di cetra, distinta per così dire in corde dalle fibre del polmone, e nell’alterna mutazione delle vene e delle pulsazioni l’elevarsi e l’abbassarsi (della voce).

Una mente saggia potrà facilmente riconoscere che tutte queste cose si accordano tra loro, al punto da non poter dubitare che la disciplina musicale manifesta in tutte le cose che sono state create la Sapienza del Creatore, e pertanto ogni creatura deve lodare con un canto senza fine il proprio Autore, poiché tramite il profeta si esorta: «Lodate il Signore dai cieli» [Sal 148] e via di seguito fino alla fine del salterio. Nei quali tre salmi [gli ultimi tre], per così dire tutti partecipi di questa disciplina [la musica], nessuno è esonerato dall’essere spronato a ripetere degne lodi di Dio.

Methamorphosis Goliae

Un poemetto in cui il poeta in sogno accede all'olimpo dove si celebra il matrimonio di Mercurio e Filologia, turbato dalla sparizione di Mercurio condannato dai Cistercensi (chiaro riferimento alla condanna di Abelardo). Il poemetto è di 59 strofe. A parte le prime 2 strofe introduttive in cui il poeta parla in prima persona, seguono tre gruppi di 19 strofe. Il numero 19 è il risultato della somma delle prime 5 cifre della serie Platonica: 1 2 3 4 9, cioè l'unità con doppio triplo, quadrato e cubo. Sembra che la struttura poetica segua cioè lo schema:

doppio + quadrato | unità | triplo + cubo —— [2+4 | 1 | 3+9]

Non è possibile dire se questa struttura sia un caso. Certo è abbastanza insolito che si ripeta tre volte.

  Il poeta sogna
1. Sole post Arìetem | Taurum subintrante
novo terre faciem | flore picturante
pinu sub florigera | nuper pullulante
membra sompno foveram | paulo fessus ante
Il Sole, dopo l'Ariete, raggiunge il Toro: [a]
nuovi fiori ornano la faccia della terra.
Sotto un albero in fiore appena sbocciato
abbandonavo al sonno le membra, ormai stanco.
2/5. Nemus michi videor quoddam subintrare
cuius ramus ceperat omnis flosculare
quod nequivit hyemis algor deturpare
nec a sui decoris statu declinare
Mi sembrava d'insinuarmi in un bosco
dove ogni ramo aveva cominciato a fiorire,
dove il freddo dell'inverno non poteva corrompere
o alterare il suo stato di bellezza.
  Il bosco sonoro (2)
3/9. Circa ima nemoris aura susurrabat
cuius crebro flamine nemus consonabat
et ibidem gravitas rauca crepitabat
sed appulsu melico tota resultabat
In basso nella foresta il vento mormorava,
e della continua brezza il bosco risuonava [b]
e lì i toni rochi e gravi rimbombavano,
ma ogni impulso risultava musicale.
4/13. Circa partis medie medium ramorum
quasi multitudinem fingens tympanorum
personabat melicum quiddam et canorum
et extremo carmine dulcius olorum
Tra i rami centrali in mezzo al bosco,
sembrando quasi una moltitudine di timpani,
risuonava qualcosa di melodioso e armonioso
ma più dolce dell'ultimo canto del cigno. [c]
  armonia (4)
5/17. Epytrita, sexcupla, dupla iunctione
fit concentus consona modulacione
et, ut a canentibus fit in Elycone
totum nemus resonat in proporcione
Dall'unione di epitrita [4/3], sestupla [3/2] e doppia [2/1]
viene una consonanza d'armoniosa modulazione,
e come quando si canta in Elicona [d]
tutto il bosco risuona secondo proporzioni.
6/21. Nam ramorum medium flabro quaciente
et pulsu continuo ramos inpellente
mixtim semitonio interveniente
sonat dyatessaron, sonat dyapente
Così, battendo il vento nel mezzo dei rami,
agitati quei rami da impulso costante,
misto al semitono prodotto
risuona la quarta, risuona la quinta.
7/25. Set in parte nemoris eminenciore
resonabat sonitu vox acuciore
ut pars summa medie cum inferiore
responderet mutuo concordi tenore
Ma nella parte superiore del bosco
si sentiva una voce più acuta
così che la più alta insieme alla più bassa
si univa al tenor in reciproca consonanza.
8/29. Hic auditur avium vox dulcicanarum
quarum nemus sonuit voce querelarum
sed illa diversitas consonanciarum
prefigurat ordinem septem planetarum
Qui si sentivano voci d'uccelli con dolci canti
del cui gorgheggio il bosco risuonava:
proprio questa diversità di consonanze
prefigura l'ordine dei sette pianeti. [e]
  un prato (1)
9/33. Nemoris in medio campus patet latus
violis et alio flore purpuratus
quorum ad fragranciam et ad odoratus
visus michi videor esse bis renatus
In mezzo al bosco appare un ampio prato
porporato di violette e altri fiori
al cui profumo e alle cui fragranze
il mio aspetto sembra essere quasi rinato.
a. Il Sole entra nel Toro circa il 12 aprile. — b. I riferimenti musicali nel bosco sono mutuati da Capella (De nuptiis 1.11). — c. Oltre ad Ovidio (Her. 7.2) il mito del cigno è anche in Bernardo Silvestre (Cosmographia 1.3.449–50). — d. Il luogo dove abitano le muse. — e. Anche l'armonia dei pianeti è in De nuptiis 1.12.
  Un palazzo (3)
10/37. Stat ibidem regia columpnis elata
cuius substat iaspide basis solidata
paries iacinctinus, tecta deaurata
intus et exterius tota picturata
C'era un palazzo innalzato su colonne
il cui pavimento posava saldamente sul diaspro,
le pareti di zaffiro, il tetto d'oro,
dentro e fuori tutto dipinto [a]
11/41. Coniectare ceperam ex visa pictura
quod divina fuerat illa celatura
hoc Vulcanus fecerat speciali cura
totum sub involucro, totum sub figura
Cominciai a capire dalla decorazione che vedevo
che la costruzione era opera divina.
Vulcano l'aveva eseguita con una cura speciale
tutto [lo mostrava]: la struttura come il disegno.
12/45. Hic sorores pinxerat novem Elyconis
et celestis circulos omnes regionis
et cum hiis et aliis eventum Adonis
et Gradivi vincula et sue Dyonis
Qui aveva dipinto le nove sorelle di Elicona
e tutte le sfere della regione celeste
e tra questi ed altro la morte di Adone
e i legami con Gradivo [Marte] e con la sua Dione. [b]
  L'empireo con Mercurio (9)
13/49. Ista domus locus est universitatis
res et rerum continens formas cum formatis
quas creator optimus qui preest creatis
fecit et disposuit nutu bonitatis
Questa casa è luogo dell'universo
contiene la cosa e le forme di quanto è formato [c]
che il creatore ottimo che preesiste alla creazione
fece e dispose come manifestazione di bontà.
14/53. Hic intus multimodum audio concentum
ut dearum crederem fieri conventum
nam in suo genere omne instrumentum
sonat, et leticie facit argumentum
All'interno sento tal concerto polifonico
da farmi immaginare un consesso di divinità,
infatti ciascun strumento secondo la sua natura
suona ed è causa di letizia.
15/57. Illic quem audieram strepitus vocalis
rerum est concordia proporcionalis
nam ut sibi consonat vox instrumentalis
sic est nexus musicus in rebus equalis
Lo strepito delle voci che ho sentito in quel luogo
è la proporzionata concordia delle cose.
Così, come la voce degli strumenti è in sé consonsante
simile è il legame musicale fra le cose.
16/61. Intus regem conspicor alte residentem
et de more regio sceptro innitentem
et ipsius lateri coniugem herentem
hunc et illam subditis rebus disponentem
All'interno vidi il re seduto in alto
con lo scettro tenuto in modo regale
e a lato sua moglie vicina:
sia lui che lei amministravano il mondo sottostante. [d]
17/65. Per hunc rebus insitus calor figuratur
quamvis hic et aliud per hunc innuatur
per hanc tota machina mundi temperatur
arbor fructus parturit, terra fecundatur
Per lui si manifesta il calore dentro la materia,
benché con lui si mostra questo e altro
e con lei l'intera macchina del mondo è temperata,
gli alberi producono frutti, la terra è resa fertile.
18/69. Innuba de vertice regis Pallas exit
quam sibi collaterans firmo nexu nexit
illa peplo faciem circumquaque texit
nec nisi ad patrios visus se detexit
Pallade esce vergine dalla testa del re
che con fermo legame [il re] tenne unita a sé.
Ella si cucì un velo tutt'intorno alla figura
e non si svelò il volto se non ai padri. [e]
19/73. Hec mens est Altissimi, mens divinitatis
que nature legibus imperat et fatis
incomprehensibilis res est deitatis
nam fugit angustias nostre parvitatis
Lei è la mente dell'altissimo, la mente della divinità
che controlla le leggi della natura e del destino.
La realtà della divinità è incomprensibile
perché sfugge ai limiti della nostra miseria. [f]
20/77. Video Cyllennium, superum legatum
a predicti numinis sinistris locatum
ut nubentem decuit totum purpuratum
quadam pube tenera faciem umbratum
Vedo Cillenio [Mercurio] il messaggero degli dei
posto alla sinistra del suddetta divinità
secondo l'uso degli sposi tutta porporato,
il volto ombreggiato da una leggera peluria. [g]
21/81. In hoc quod est nuncius, volo designare
eloquendi gratiam multos copulare
Eius dixi faciem pubem obumbrare
sic sermonem lepide debes colorare
Con il suo ruolo di messaggero intendo spiegare
che la grazia dell'eloquenza unisce molte persone. [h]
Ho detto che la pubertà ne ombreggia il volto:
con simile spirito si deve adornare il sermone. [i]
a. Cfr Ovidio, Met. 2.1-18. — b. Dione è la madre di Venere, ma spesso usata per identificare Venere stessa. Adone è l'amante di Venere (Afrodite) secondo il mito ucciso da un cinchiale del geloso Marte. I due versi probabilmente identificano gli amori carnali e la loro fine tragica.c. Rif. a De nuptiis, 1.35; ripreso anche in Chrétien de Troyes, Erec et Enide, 6812-19. — d. Il regno condiviso è un'interpretazione insolita. Forse rimanda a Bernardo Silvestre che immaginava il mondo governato dalla platonica Provvidenza unita alla Natura. — e. Questa intelligenza che sorge da Dio (detta Pallade in ossequio al mito antico) è probabilmente l'anima mundi platonica. — f. Il verso spiega perché Pallade è velata. — g. Mercurio è frequentemente visto come braccio destro di Giove. — h. L'idea di comunione, il bene promosso dall'eloquenza (dote di Mercurio), è un'atra manifestazione dell'idea di armonia espressa dalla musica. — i. Riferimento al favore riconosciuto alla giovinezza (motivo di energia e seduzione) nella pratica oratoria.
  La sposa (2)
22/85. Nupta sibi comes est de stirpe divina
vestis de cyndalio, partim hyalina
Vultus rutilancior rosa matutina
quam nec sol decoxerat, nec lesit pruina
La sua sposa [Filologia] è di stirpe divina,
la sua veste di seta è in parte verde mare,
il suo viso brilla più della rosa del mattino
che il sole non ha inaridito né il gelo rovinato.
23/89. Nisi sapientie sermo copuletur
vagus, dissolutus est, infirmus habetur
et cum parum proficit, parum promeretur
eget ut remigio eius gubernetur
Se la parola non è unita alla saggezza
è casuale, incontrollata, ritenuta senza valore,
e poiché non fa del bene non ha ricompensa,
le manca ciò che potrebbe guidare il suo corso.
  Il dono di Saggezza (4)
24/93. Hanc donavit Fronesis dono speciali
in conventu numinum die nupciali
capiti inposuit sertum virginali
cuius domus rutilat gemma mediali
Phronesis [Saggezza] fece a lei un dono speciale:
alla presenza degli dei il giorno delle nozze
pose sul capo della fanciulla una ghirlanda
per cui il palazzo fu illuminato dalla gemma centrale.
25/93. Per sertum significo circumductionem
ut agendo habeas circumspectionem
gemma serti media signat rationem
cuius prevenire est omnem actionem
Con la ghirlanda intendo la circospezione:
come nell'agire si ha lungimiranza
la gemma al centro della ghirlanda significa la ragione
per cui si deve preparare ogni azione.
26/101. Sol sublimis capite suum gerit sertum
hinc et hinc innumeris radiis refertum
nichil huic absconditum, nichil inexpertum
set quid hoc significet satis est apertum
Il Sole in alto porta una sua ghirlanda
con qui e là innumerevoli raggi,
nulla gli è nascosto, nulla inesplorato
ma ciò che significa è ben noto. [a]
27/105. Huius erat facies mille specierum
diadema capitis clarum et sincerum
hic est mundi oculus, et causa dierum
et vitalis spiritus, et fomentum rerum
Il volto del quale era di mille forme
con diadema in testa chiaro e sincero.
Egli è l'occhio dell'universo, portatore del giorno
lo spirito vitale, il nutrimento delle cose.
  Gli elementi (1)
28/109. Ante deum quatuor erant urne stantes
elementis omnium rerum redundantes
diversorum generum era imitantes
hee sunt partes quatuor anni designantes
Davanti al dio c'erano quattro urne
piene degli elementi di tutte le cose,
imitando i periodi di diversi generi
designano le quattro parti dell'anno. [b]
a. Similitudine della gemma della ghirlanda con la luce del sole, metafora della conoscenza, perché lui tutto illumina. — b. Centralitù del numero 4 che corrisponde agli elementi e alle stagioni.
  Le Muse (3)
29/113. Sua Elyconides tenent instrumenta
ut perfecta gaudii fiant complementa
et applaudunt organis inter sacramenta
queque rei mystice prebent argumenta
Le eliconidi [muse] preparano i loro strumenti
affinché la gioia dell'occasione sia completa:
danno voce agli strumenti in mezzo alla cerimonia
e inoltre offrono contenuti al rito mistico.
30/117. Novem sunt in ordine, novem cecinere
novem novas manibus liras tenuere
et diversos pollice nervos tetigere
sed tamen concorditer sibi respondere
Sono in nove nella compagnia, nove cantavano,
nove tenevano in mano nuove cetre
e toccavano con le dita le diverse corde
eppure rispondevano l'uno all'altro armonicamente.
31/121. Quid designent, dicere grande non est onus
novem orbes opifex fecit ille bonus
octo sibi consonant, sono caret nonus
nam non habet fieri sine motu sonus
Cosa significhi non è difficile:
il buon creatore ha creato nove sfere,
otto cantano in armonia, la nona manca di suono
perché il suono non può esistere senza movimento.
  Psiche Grazie Sileno Venere Amore (9)
32/125. Vel sunt dotes, opifex quas Sychi largitur
quibus circumcingitur, quibus investitur
et quibus per circulos labens insignitur
cum carnis hospicium fragile aditur
Inoltre sono doni che il creatore ha concesso a Psiche
[doni] di cui è circondata, di cui è investita
e di cui è insignita nel percorrere le sfere
quando accede al fragile contenitore del corpo. [a]
33/129. Tres astabant virgines versus Iovem verse
stabant firme digitis connexis inter se
sunt aversa corpora, facies averse
sunt excelsi numinis proles universe
Tre fanciulle [b] erano in piedi rivolte verso Giove,
stavano con le dita saldamente intrecciate
i corpi rivolti altrove, i volti guardano indietro:
sono universo e prole del divino celeste.
34/133. Donum Dei largitas esse deputatur
siquis quicquam dederit, mox restituatur
et dati memoria firme teneatur
ut si simplex fuerit, duplex revertatur
La generosità è considerata un dono di Dio
se qualcuno ha dato qualcosa, che sia presto ripagato
e che il ricordo del dono sia tenuto ben in mente
anche se semplice che sia doppiamente ripagato.
35/137. Hinc cum bombis strepitus sonat crotallorum
a Sylleno ducitur agmen satyrorum
Temulentus titubat, et precedit chorum
atque risus excitat singulis deorum
Ora tra i colpi di tamburo risuonano i sonagli,
una banda di satiri è guidata da Sileno,
egli traballa ubriaco e supera il coro
provocando le risate di tutti gli dei.
36/141. Horum parti maxime Venus dominatur
iste sibi supplicat, ille famulatur
Hanc de more filius suus comitatur
nudus cecus puer est facies alatur
Venere domina la maggior parte della compagnia:
questo la supplica, quello l'asseconda,
come di consueto la accompagna il figlio [c]
nudo, cieco, appare giovane, è alato.
37/145. Nudus, nam propositum nequid sepelire
cecus, quia racio nequid hunc lenire
puer, nam plus puero solet lascivire
alatus, dum [g] facile solet preterire
È nudo, perché non può nascondere i suoi propositi.
Cieco, in quanto la ragione non può placarlo.
Giovane, perché più d'un giovane è lascivo.
Alato, perché fugge facilmente.
38/149. Illius vibrabile telum est auratum
et in summa cuspide modice curvatum
telum invitabile, telum formidatum
nam qui hoc percutitur pellit celibatum
L'arma che brandisce è dorata
e con la sua punta leggermente ricurva
è un'arma inevitabile, un'arma da temere
perché chi è colpito da essa abbandona il celibato. [d]
39/153. Sola soli Veneri Pallas adversatur
et pro totis viribus usque novercatur
nam quod placet Veneri Pallas aspernatur
Venus pudiciciam raro comitatur
Pallade si oppone a Venere [e], una contro una,
con tutta la sua forza al punto da essere matrigna:
perché Pallade disprezza ciò che è gradito a Venere,
Venere raramente è amica della castità.
40/157. Hic diversi militant, et diverse vite
qui ab usu solito dissident invite
quibus an plus valeat Pallas Afrodite
adhuc est sub pendulo, adhuc est sub lite
Adesso diversi militano, e con diverse opinioni,
perché si allontanano con riluttanza dall'uso solito:
per loro se più valga Pallade o Afrodite
ancora è incerto, ancora si discute.
a. Incerto il ruolo assunto da Psiche in questo contesto. — b. Le Grazie. — c. Amore. — d. Chiaro riferimento al contesto monastico (all'epoca ia preti non era vietato il matrimonio) cui il poeta evidentemente appartiene. — e. Contrapposizione fra ragione e desiderio.
  Coppie divine (2)
41/161. Nexibus Cupidinis Syche detinetur
Mars Nerine coniugis ignibus torretur
Ianus ab Argiona disiungi veretur
Sol a prole Pronoes diligi meretur
Psiche è presa nella rete di Cupido,
Marte brucia ardente per la moglie Nerina,
Giano teme di essere separato da Argione,
il Sole guadagna l'amore della figlia di Pronoia.
42/165. Syche per illecebras carnis captivatur
sors in Marte fluctuat, Nereus vagatur
opifex in opere suo gloriatur
quid fiat in posterum Deo scire datur
Psiche cade in preda alle tentazioni della carne,
le fortune di Marte fluttuano, Nereo divaga.
Il creatore si gloria della sua creazione:
sapere cosa accadrà in seguito è concesso a Dio.
  Coppie umane (4)
43/169. Aderant philosophi; Tales udus stabat
Crisippus cum numeris, Zeno ponderabat
ardebat Eraclius, Perdix circinabat
motus ille Samius proportionabat
Anche i filosofi erano presenti: Talete bagnato, [a]
Crisippo con i numeri; Zenone pesava,
Eraclito bruciava; Perdice [Calo] disegnava cerchi,
quello di Samo [Pitagora] proporzionava il moto.
44/173. Hinc dissuadet Appius, hinc persuadet Cato
implicabat Socrates, explicabat Plato
vacuum Archesilas tenuit pro rato
esse quod inceperat undique locato
Qui Appio dissuade, là Catone persuade,
Socrate implicava, Platone esplicava,
Arcesilao sosteneva la legge universale
che tutto ciò che aveva avuto un inizio era nullo.
45/177. Secum suam duxerat Getam Naso pullus
Cynthiam Propercius, Delyam Tibullus
Tullius Terenciam, Lesbiam Catullus
vates huc convenerat sine sua nullus
Il giovane Nasone [Ovidio] portò la sua tracia, [b]
Properzio la sua Cinzia, Tibullo Delia,
Cicerone Terentia, Catullo Lesbia.
Nessuno dei poeti era venuto senza il suo amore.
46/181. Queque suo suus est ardor et favilla
Plinium Calpurnie succendit scintilla
urit Apuleium sua Pudentilla
hunc et hunc amplexibus tenet hec et illa
Ognuna per il suo [uomo] è ardore e passione:
la scintilla di Calpurnia infiamma Plinio,
la sua Pudentilla fa bruciare Apuleio,
entrambe stringono i compagni nell'abbraccio.
  La poesia (1)
47/185. Versus fingunt varie metra variantes
coturnatos, lubricos, enodes, crepantes
hos endecasillabos, illos recursantes
totum dicunt lepide, nichil rusticantes
Compongono versi diversi con metri differenti,
nobili, divertenti, morbidi, aspri,
ora in endecasillabi, ora con ritornello
tutto quanto intonano è grazioso, mai rozzo.
a. A talete si attribuiscono gli studi sull'acqua. — b. L'amante di ovidio era di origine geta, ovvero tracia.
  Scuola di Chartres (3)
48/189. Ibi doctor cernitur ille Carnotensis
cuius lingua vehemens truncat velud ensis
et hic presul presulum stat Pictaviensis
proprius nubencium miles et castrensis
Qui si riconosce il dottore di Chartres [a]
la cui lingua severa taglia come una spada
ed anche la guida dei sacerdoti di Poitiers [b]
soldato e guerriero al servizio degli sposi.
49/193. Inter hos et alios in parte remota
Parvi Pontis incola, non loquor ignota
disputabat digitis directis in iota
et quecumque dixerat erant per se nota
Insieme a questi e ad altri, in un luogo separato
abitante a Petit-Pont [c] – non dico cose ignote –
disputava con le dita mettendo i puntini sulle i
e qualsiasi cosa dicesse era notevole.
50/197. Celebrem theologum vidimus Lumbardum
cum Yvone, Helyam Petrum, et Bernardum
quorum opobalsamum spirat os, et nardum
et professi plurimi sunt Abaielardum
Abbiamo visto il celebre teologo Lombardo
con Ivo, Pietro Elia e Bernardo [d]
le loro labbra diffondono balsamo e nardo
e tutti insegnano le dottrine di Abelardo
  Abelardo contro i Cistercensi (9)
51/201. Reginaldus monachus clamose contendit
et obliquis singulos verbis reprehendit
hos et hos redarguit, nec in se descendit
qui nostrum Porphirium laqueo suspendit
Il monaco Reginaldo [e] discute ad alta voce
e contesta ogni punto con parole sottili
sfidando questo e quello, non si tira mai idietro
lui che ha appeso il nostro Porfirio [f] ad un cappio.
52/205. Robertus theologus corde vivens mundo
adest et Manerius quem nulli secundo
alto loquens spiritu et ore profundo
quo quidem subtilior nullus est in mundo
Il teologo Roberto, [g] che vive puro di cuore
è qui con Manerio [h] a nessuno inferiore,
con spirito elevato e parole profonde
rispetto al quale nessuno al mondo è più sottile.
53/209. Hinc et Bartholomaeus faciem acutus
retor, dyaleticus, sermone astutus
et Robertus Amiclas simile secutus
cum hiis quos pretereo, populus minutus
Poi c'è Bartolomeo, [i] attento osservatore
retore, dialettico, sottile nel parlare,
e allo stesso modo segue Robert Amiclas, [j]
e con questi il popolo minuto che trascuro.
54/203. Nupta querit ubi sit suus Palatinus
cuius totus extitit spiritus divinus
querit cur se subtrahat quasi peregrinus
quem ad sua ubera foverat et sinus
La sposa chiede dove possa essere il suo Palatino [k]
il cui spirito è tutto divino,
chiede perché si sia ritirato come un estraneo
colui che aveva stretto ai fianchi e al seno.
55/217. Clamant a philosopho plures educati
“Cucullatus populi primas cucullati
et ut cepe tunicis tribus tunicati
imponi silencium fecit tanto vati
I molti studiosi formati dal filosofo gridano:
«Il primate incappucciato [l] della tribù incappucciata,
vestito con tre tuniche come una cipolla,
ha fatto imporre il silenzio a questo grande maestro.
56/221. Grex est hic nequicie, grex perdicionis
impius et pessimus heres Pharaonis
speciem exterius dans religionis
sed subest scintillula supersticionis
Questa è la folla dei malvagi, la folla dei dannati,
gli empi e i più malvagi eredi di Faraone,
che mostrano esteriormente l'apparenza della religiosità,
ma dentro hanno la fiamma della superstizione.
57/225. Gentis gens quisquilia, gens hec infrunita
cuius est cupiditas mentis infinita
Istos ergo fugias, et istos devita
et hiis ne respondeas, ‘non est sic vel ita’
Gente inutile fra le genti, gente senza senso
la cupidigia delle loro menti è infinita.
Fuggi da loro e prendi un'altra strada
e non risponder loro "non è così ma così"».
58/229. Dii decernunt super hoc, et placet decretum
ut a suo subtrahant hunc a cetu cetum
et ne philosophicum audiat secretum
studii mechanici teneat oletum
Gli dei deliberano al riguardo, e piaccia la decisione
che il gruppo sia allontanato da questa compagnia,
che non ascoltino il mistero filosofico
e stiano nel letamaio delle scienze meccaniche.
59/233. Quicquid tante curie sanctione datur
non cedat in irritum, ratum habeatur
cucullatus igitur grex vilipendatur
et a philosophicis scolis expellatur. AMEN
Ciò ch'è stabilito da tanto tribunale
non può essere ignorato, deve essere considerato,
perciò la tribù degli incappucciati sia disprezzata
e bandita dalle scuole dei filosofi. AMEN
a. Teodorico di Chartres, principale figura della scuola di Chartres. — b. Gilberto Porretano, vescovo di Poitiers (1142-1154), studiò a Chartres e fu maestro di Giovanni di Salisbury. Gli estremi del suo vescovado identificano l'epoca di composizione del poema. — c. Adamo di Petit-Pont, logico che insegnò a Parigi. — d. Pietro Lombardo (il cui Liber sententiarum fu commentato da Adamo); Ivo, diacono di Chartres; Pietro Elia, grammatico e innovatore; forse Bernardo Silvestre. Sono tutti intellettuali di grande erudizione favorevoli ad Abelardo. — e. Monaco non identificato, detrattore di Abelardo. — f. Abelardo. Qui più che un riferimento al filosofo Porfirio si fa un gioco con 'porporato' che rimanda all'abato vestito dallo sposo. — g. Teologo non identificato con certezza. — h. L'allievo più brillante di Abelardo. — i. Forse il futoro vescovo di Essex. — j. Maestro a Parigi. — k. Abelardo, forse identificato come Mercurio (abitante del cielo, quindi 'palatino') oppure in riferimento a Le Pallet, luogo di nascita di Belardo. — l. Bernardo di Chiaravalle, cistercense, principale detrattore di Abelardo.

Gaffurio

[da Daolmi, Ritratto di Gaffurio (2017): 146-152]

146] La pubblicazione della Practica musice (1496) ebbe straordinario successo tanto che fu ristampata a Brescia in tre diverse impressioni (1497, 1502, 1508) e di nuovo a Venezia (1512). Il frontespizio, il celeberrimo Cosmo musicale, compare solo nella prima edizione milanese: il disegno è però estraneo al contenuto del libro. Gaffurio lo ripubblicherà nel De harmonia (1518: iv.12), in connessione con un capitolo descrittivo.

148] La correlazione fra astronomia e musica rimanda all’idea platonica di anima dell’universo dove la musica è il soffio vitale razionale. Tuttavia i rapporti instaurati non sono quella tradizionali:

149] Se il legame fra muse e pianeti (cieli) era già stato formulato da Marziano Capella (Nozze i.27-28), la relazione fra scala musicale e pianeti non corrisponde alle due opzioni descritte da Boezio (Musica i.27) che invece pongono entrambe la mese in relazione al Sole. Gaffurio recupera il suo schema da Bartolomeo Ramos de Pareja, un teorico attivo a Bologna, che nel suo Musica practica (1482) aveva proposto questi stessi rapporti fra cieli e note (Haar 1974). Ramos, sulla scorta di Cicerone (Somnium Scipionis v.18), considera la Terra immobile e pertanto fa corrispondere alla Luna il suono più grave dell’antica scala greca (systema téleion). Anche l’associazione con gli otto tropi o trasposizioni tonali (non ‘modi’, come spesso si fraintende), segue il principio di porre il tropo più grave in corrispondenza con il primo suono. Ramos riproponeva questi rapporti per l’intero sistema greco (doppia ottava) attraverso una spirale circolare che saliva di grado. [...]

150] Il disegno di Gaffurio presenta comunque elementi di novità rispetto a Ramos. La terra non è un semplice pianeta, ma uno dei quattro elementi che occupano lo spazio sublunare come appare nel Cielo di Aristotele, e l’armonia cosmica è governata da Apollo affiancato dalle Grazie e da un vaso di fiori. Le Grazie danzanti, con in mano uno strumento, sono descritte in ps-Plutarco (Musica 14) come manifestazione della musicalità di Apollo: qui tuttavia lo strumento è direttamente posto nelle mani del dio.

151] Il vaso di fiori esprime la discesa dell’anima nel mondo, concetto rappresentato dalla coppa silvestre descritta da Macrobio («crater Liberi patris», in Commento i.12.7-8). L’anima infatti, avvicinandosi alla materia («silvestrem tumultum»), s’inebria ed è quindi governata da Dioniso (detto anche Libero). Il motto in alto («Mentis Apollineae vis has movet undique musas», ‘La forza della mente apollinea muove ovunque queste muse’) è un verso tratto da un epigramma originariamente parte dell’Appendix Vergiliana, in realtà anonimo (Riese 1870: ii.120; Peiper 1886: 412). Infine il significato del serpente tricefalo è stato interpretato da Panofsky (1926 e 1955), che vi ha riconosciuto il mostro che accompagna il dio Serapide, espressione e allegoria del Tempo (Macrobio, Saturnali i.20.13-15).

Non è improbabile che il tema della celebre Festa del Paradiso nell’allestimento di Leonardo da Vinci (1490) – dove un cosmo di pianeti impersonati da cantori celebra Isabella d’Aragona – possa essere stato suggerito da Gaffurio. [...]

Nel 1650 Athanasius Kircher riproporrà nel suo Obeliscus Pamphilius un adattamento della silografia di Gaffurio. L’immagine si sviluppa su dieci livelli, invece di nove, e trascura i tropi per introdurre la gerarchia ebraica degli angeli, secondo il dettato di Maimonide (1135-1204):

152] Se il rapporto fra cieli e muse è conservato (pur aggiungendovi il Primo Mobile), le altezze musicali slittano di grado e occupano una decima (ora la terra non è più sorda). I dieci ranghi angelici di Maimonide, sono privati del livello più basso (detto ishim o degli antropomorfi) ed è aggiunto Dio che li sovrasta tutti. Segnalo che nell’incisione l’ordine è modificato (quello originale corrisponde ai numeri fra parentesi qui in tabella) mentre è corretto nella spiegazione che accompagna l’immagine: non è improbabile che l’alterazione sia imputabile al disegnatore, non pratico di testi ebraici. Kircher inoltre sostituisce il vaso di fiori con un girasole, inteso come legame «rerum inferiorum cum superioribus» (p. 243), forse rievocando il mito di Clizia, mentre le tre Grazie esprimono «Apollinis ... splendorem, liberalitatem, faecunditatem». Il serpente, ignorando le connessioni con Cerbero e Serapide, diventa manifestazione della «forza genitale di Apollo diffusa nell’universo», mentre le tre teste significano «la triplice virtù che feconda la terra: umida, focosa e seminale».

Intermedi

La Descrizione di Bastiano De' Rossi è un volumetto celebrativo di un'ottantina di pagine così organizzato:

[ir] Frontespizio | [iir-3iiiv] Dedica al duca di Ferrara | p. 1: Descrizione | 7: Apparato | 18: Intermedio primo | 33: Prospettiva | 37: Intermedio secondo | 42: Intermedio terzo | 55: Intermedio quinto | 60-72: Intermedio sesto

— [presentazione del soggetto: armonia e le sirene celesti]

[p. 18] Ci si rappresentò in questo intermedio le [otto] Serene celesti guidate dall'Armonia, delle quali fa menzione Platone ne' libri della Repubblica, e due, oltre alle mentovate da lui, secondo l'opinion de' moderni, vi se n'aggiunse, cioè quelle della nona e decima sfera. E perché nello stesso luogo si truova scritto che ciascuna delle dette Serene siede sopra il cerchio o circonferenza di esse sfere, e gira con essa circonferenza, e girando manda fuora una sola voce distesa, e di tutte se n e fa un'armonia consonante, il poeta [Bardi?], poiché Platone vuole che da tutte ne nasca una consonante e sola armonìa, e l'armonia per natura va sempre avanti a color che cantano, la diede loro per iscorta e mandolla avanti in iscena.

E perché lo stesso Platone in altro luogo de' medesimi libri della Repubblica afferma la doria di tutte l'altre armonie esser la migliore, e Aristotele altresì, pur nella sua Repubblica lo conferma, e oltr'a ciò dice che tutti consentono lei aver dello stabile e del virile e propriamente della fortezza, la doria gli piacque di dimostrarci e vestilla con abito che aveva forte intenzione a questo costume: ma degli abiti più di sotto.

— [davanti la prospettiva di Roma dipinta, Armonia canta al liuto mentre a una nuvola e un tempietto compaiono in scena]

Cadute le cortine si vide immantenente apparir nel Cielo una nugola, e in terra, avanti alla scena, d'ordine dorico un tempietto di pietra rustica. [Si vide] in essa nugola una donna che se ne veniva pian piano in terra, suonando un liuto e cantando (oltre a quel del liuto ch'ella sonava, al suono di gravicembali, chitarroni e arpi che eran dentro alla prospettiva) il madrigal sottoscritto. Allato le sedevano, sì dall'una banda com e dall'altra, ma bene alquanto più basse quasi ad ascoltare il suo canto, tre altre donne, tanto naturalmente e con tal rilievo dipinte [p. 19] che parean vive. La musica fu d'Emilio de' Cavalieri, le parole del trovatore degl'intermedi [Bardi]:

[1.] Dalle celesti sfere
di celesti Sirene amica scorta
l'Armonia son ch'a voi vengo, o mortali.
Poscia che fino al ciel battendo l'ali
l'alta Fama n'apporta
che mai sì nobil coppia il Sol non vide
qual voi, nuova Minerva e forte Alcide.
The Taverner Consort Choir and Players
Andrew Parrott (1986)
Ricostruzione scenica per Channel 4 (1991)

E mentre che la detta nugola scendea 'n terra, avendo sotto alquanti raggi solari, pareva che di mano in man seguitandogli dove ell'arrivava coprisse il Sole.

— [la scena si svuota e rimane solo un cielo stellato]

Finito 'l canto, finì 'l cammino e [Armonia] si condusse al tempietto, e dentro con la nugola e con quei raggi solari innanzi vi si nascose e con esso sparì, non senza maraviglia di color che la rimiravano: né con minor maraviglia si condusse questa nugola in terra che se n'andasse, perciocchè non tanto era con la pittura e con altro contraffatta naturalmente, quanto che non si potendo in niuna guisa veder donde si reggesse, rassembrava nugola naturale stante nell'aria. E mentre che 'l popolo procacciava d'intendere e di vedere dove la nugola e 'l tempietto fossero andati, senza quasi avvedersene, in manco tempo ch'io non l'ho detto, andandosene verso 'l cielo e quivi ascondendoli sparì la scena di Roma, la quale anch'ella avrebbe potuto recar non picciola maraviglia, se le maraviglie ch'ell'ascondeva e che nel suo partir li lasciò vedere, di tanto gran tratto non s'avesser lasciata dietro la sua che non si fosse subitamente potuta porre in dimenticanza. E ciò fu che sparita, videro tutto quanto il cielo stellato con un sì fatto splendor che lo illuminava che l'avreste detto lume di luna: e la scena tutta in cambio di case (che a buona ragion pareva che si dovesson vedere) piena di nugole, alle vere sì somiglianti che si dubitò che non dovesser salire al cielo a darne una pioggia.

— [appaiono le Sirene su quattro nuvole]

E mentre che tal cosa si riguardava, si vide di su la scena muoversi [p. 20] quattro nugole, su le quali erano le mentovate Serene che fecero di sé non solamente improvvisa ma sì bella mostra e sì graziosa e con tanta ricchezza e magnificenza d'abiti che, come di sotto potrà vedersi, eccedevano il verisimile, e cominciarono tanto dolcemente a cantare questo suono in su liuti e viole che ben potevano, se la lor vista non gli avesse tenuti desti colla dolcezza dei canto loro, addormentar di profondo sonno, come vere Serene, gli ascoltatori.

[2.] Noi che, cantando, le celesti sfere
dolcemente rotar facciamo intorno,
in così lieto giorno
lasciando il Paradiso
meraviglie più altere
cantiam d'una bell'alma e d'un bel viso.
The Taverner Consort

Le parole di questo canto e gli altri madrigali che seguono appresso in questo intermedio furono composizione d'Ottavio Rinuccini, giovane gentiluomo di questa patria, per molte rare sue qualità ragguardevole, e la musica di Cristofano Malvezzi da Lucca prete e maestro di cappella in questa città.

— [si aggiungono Necessità con le Parche e gli  otto cieli. Si sente una  sinfonia (n. 3)]

Cantato ch'ell'ebbero, immantenente s'aperse il Cielo in tre luoghi e comparver con incredibil velocità a quell'aperture tre nugole. In quella del mezzo la dea della Necessità colle Parche, e nell'altre i sette pianeti e Astrea: e tale fu lo splendore che vi si vide per entro e tale gli abiti degl'lddei e degli eroi che si paoneggiavano in esso cielo, ricchi d'oro e di lucidi abbigliamenti, che potette ben parere ad ognuno che 'l Paradiso s'aprisse e che Paradiso fosse divenuto tutto l'apparato e la prospe ttiva.

Aperto il Cielo, in esso e in terra cominciò a sentirsi una così dolce e forse non più udita melodia che ben sembrava di Paradiso. Alla quale, oltre a gli strumenti che sonarono al canto dell'Armonia e delle Serene, vi s'aggiunsero del cielo tromboni, traverse e cetere.

— [poi tutti cantano. Al temine la nuvole svaniscono e con loro le Sirene]

Finita la melodia le Parche, le quali sedevano per [p. 21] egual distanzia e toccanti il fuso intorno alla madre Necessità nel mezzo del cielo – e che, come dice Platone, cantano all'armonia di quelle Serene, Lachesi le passate, Cloto le presenti e Atropo le cose a venire – cominciarono richiamandole al cielo a cantare, e per far più dolce armonia parve al poeta che i pianeti che sedevano nell'altre aperture del cielo, allato a quella del mezzo, cantassero anch'eglino insieme colle tre Parche e con esso loro la Madre Necessità. Al qual canto movendosi le Serene in su le lor nugole e, andandosene verso il cielo cantando e facendo un gentil dialogo che fu questo, rispondevan loro a vicenda:

Parche
[4.] Dolcissime Sirene
tornate al cielo e 'n tanto
facciam, cantando, a gara un dolce canto.
The Taverner Consort
Sirene
Non mai tanto splendore
vide Argo, Cipro o Delo.
Parche
[5.] A voi, regali amanti,
cediam noi tutti, gran numi del cielo.
Sirene
Per lei non pur s'infiora
ma di perle e rubin s'ingemma Flora.
Parche
Di puro argento ha l'onde
Arno per voi, gran duce, e d'or le sponde.
Sirene
Tessiam dunque ghirlande a sì gran regi
e sien di Paradiso i fiori e i fregi.
Parche
A lor fronte regal s'intrecci stelle.
Sirene
E Sole e Luna e cose alte e più belle.

Fu veramente cosa mirabile il vedere andarsene quelle nugole verso il cielo, quasi cacciate dal Sole, lasciandosi sotto di mano in man che salivano un chiaro splendore.

— [in fine Parche e Pianeti cantano l'ultimo madrigale]

Arrivate le Serene al cielo su dette nugole soavemente cantando finì il dialogo e cominciarono tutti insieme, e le Parche e i Pianeti ed elleno in su i mentovati strumenti, novellamente a cantare: [p. 22]

[6.] Coppia gentil d'avventurosi amanti
p er cui non pure il mondo
si fa lieto e giocondo
e spera aver da voi
s chiera d'invitti e gloriosi eroi
m a fiammeggiante d'amoroso zelo
canta ridendo e festeggiando 'l Cielo.
The Taverner Consort

Alla fine di questo canto tutte le sette nugole sparvono, serrossi il cielo, si dileguaron le stelle e con esse le nugole che annebbiavan la prospettiua, e parve che esso cielo fosse tutto alluminato dal Sole.

— [De Rossi descrive ciascun abito, prima di Armonia "doria" e poi delle altre sei]

Della qual prospettiva diremo descritti gli abiti delle deità che intervennero nello intermedio. E cominceremoci sì come quella che venne prima dall'Armonia. Dice Aristotile che l'armonia doria (che è quella che 'l poeta rappresentò) ha dello stabile e del virile e proprio della fortezza, ed egli e Platone s'accordano ch'ella sia la miglior di tutte l'altre armonie, in questa guisa la figurò: una bella dona con volto e sembiante tutto ripieno di gravità, vestita d'un verde oscuro, parendogli che quel colore più d'alcun altro avesse intenzione al costume d'essa. La vesta fu di velluto e, per più farla piena di maestà, l'adornò con bel fornimento d'oro massiccio e 'l cinto del colore della vesta, ma tutto ricoperto di gioie. In capo come reina e principale e miglior dell'altre sei armonie che le stavano dall'uno e dall'altro fianco e la mettevano in mezzo, una corona d'oro con sette gioie. La prima sopra la fronte maggiore e più bella di tutte l'altre ch'era la propria, a fignificare che anch'ella era di più pregio che le compagne. L'altre gioie andavano quanto a pregio secondo i gradi. L'acconciatura semplice ma nobile e piena anch'ella di maestà, dalla quale pendevan due veli che le ricoprivano con magnificenza le spalle e andavangli infino a' piedi. Era, per mostrar più perfezione, finta donna di mezz'età.

A man destra le sedeua a canto nel primo luogo l'armonia ipodoria e allato a lei l'ipofrigia [p. 23] e sotto all'ipofrigia avea l'ipolidia: nel primo luogo dalla sinistra la frigia, nel secondo la lidia, e nel terzo mixolidia, accomodate con quest'ordine dal poeta, secondo la mente de' buoni antichi.

L'ipodoria, come quella che più s'accosta alla maestà della doria, ottenne sotto a essa il primiero luogo, e ne volto mostrava come nell'abito alquanto più gravità dell'ipofrigia che l'era sotto, e simile l'ipofrigia dell'ipotidia. L'altre affai più acute di queste tre le stavan dalla sinistra, cioè la frigia nel primo, nel secondo la lidia e nel terzo luogo la mixolidia. E di grado in grado, scemando la perfezione, crescevano gli ornamenti vani e la giovanezza, in guisa che la sezzaia [= l'ultima] pareva una fanciulletta di poca eta. E ogni abito era appropriato al constume loro.

— [quindi delle Sirene]

Dopo l'Armonia le Serene: la prima d'esseche volgeva il ciel della Luna era infin dalle spalle a' fianchi sì come l'altre Serene, che si diranno tutta pennuta, e addosso le penne sovrapposte l'una all'altra in maniera che in più acconcio modo non istanno le naturali addosso agli uccelli. Erano finte di sbiancato ermisin mavì e lumeggiate d'ariento che la facevano apparir del color proprio del suo pianeta quando di notte si vede in Cielo. Alla fine delle penne un bel fregio d'oro e sotto un abito vago di raso bianco con alcuni ornamenti d'oro che le andavano a mezza gamba. I suoi calzaretti mavì adorni di gioie, di cammei, di mascherini e di veli d'ariento e d'oro, avendo it poeta avuto riguardo, contrario alle malvage Serene che hanno le parti basse brutte e deformi, di far queste in tutta perfezion di bellezza. Aveva biondi i capelli e piena di raggi lunari l'acconciatura, dalla quale pendevano in ordine vago e bello alcuni veli mavì che svolazzando faceano una lieta uista. E sopra all'acconciatura una Luna, e per più farta lieta e adorna le mise dietro alle spalle un manto di drappo rosso , nel quale percorendo i lumi che invisibili nelle nugole furono dall'artefice accomodati, come più di sotto diremo, risplendeva si fattamente che non vi si poteva affissare gli occhi.

— [di Necessità e delle Parche]

Stava la madre Necessità nel cielo all'apertura di mezzo e sopra un seggio di color cenerognolo si sedeva. Figurata dal facitore nella guisa che ce la descrive Orazio in quella sua ode [*]: di fiera vista, chiamandola egli saeva [dura], le mani di bronzo e in esse due fortissimi e grossi chiodi, di quelli con che si conficcan le travi. I cunei, ciò erano certi legami fortissimi e sottilissimi, quali della spezie della minugia che s'adoperavano a tormentare i colpevoli in guisa, strignendo con essi le membra loro, che venivan quasi ad unirsi. L'oncino e 'l piombo strutto che similmente l'è assegnato da quel poeta gliele dipinser nel seggio. La ’ncoronò di cipreffo e la vestì di raso bigio argentato. Tra le ginocchia le mise il fuso, il qual parea di diamante, e sì grande che con la cocca entrava ne' cieli come un fuso ordinario in un fusaiuolo.

* Orazio, Odi, i.35 (La Fortuna) vv.17-20: Te semper anteit saeva Necessitas | clavos trabalis et cuneos manu | gestans aena nec severus | uncus abest liquidumque plumbum [Sempre ti precede la dura | Necessità, portando nella bronzea mano | chiodi per le travi e cunei, e non mancano | feroci uncini e piombo liquido].

Le Parche le sedevano a' piedi: quella figurata per Cloto toccava il fuso da una parte con la man destra; Atropo dall'altra con la sinista, e Lachesis dall'una e dall'altra parte con l'una e con l'altra mano, come gli ha mostrato Platone, le quali egli inghirlanda e veste di bianco: e perciò ebbono elleno [ebbero quelle] una vesta di raso bianco lattato, ma perché facesser più bella vista, vi fi sparse alcuni ricami e una bella ghirlanda sopra l'acconciatura si pose loro.

— [segue la descrizione, con particolare riferimento all'abito, di 1) Diana (Luna), 2) Mercurio, 3) Venere, 4) Apollo (Sole), 5) Marte, 6) Giove, 7) Saturno, 8) Astrea (Stelle). Quindi personificazione di alcune virtù (dal momento che secondo Platone il cielo è il luogo dove vanno le anime beate): Giustizia con Numa Pompilio e Iside, Religione con Massinissa e una vestale, Pietà con Enea, padre, figlio e una donna, Amore (del marito per la moglie) con Tiberio Gracco e Porzia, Liberalità con Gerone di Siracusa e Busa Pugliese, Fortezza con Lucio Dentato e Camilla]



 

Kircher

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Steiner

Nel 1921 Rudolf Stainer e il compositore Leopold van der Pals tennero una conferenza a Dornach, in Svizzera, dove si erano rifugiati a causa della guerra. Alcune lezioni di Steiner (1906-1923) fra cui quella del 1921 furono pubblicate in Das Wesen des Musikalischen und das Tonerlebnis im Menschen (1969), libro tradotto in L’essenza della musica e l’esperienza del suono nell’uomo (Milano 1973).
Nella lezione di Dornach Van der Pals racconta la leggenda dell'origine del «violino lunare». La leggenda è tratta da Jules Combarieu, La musica e la magia [1909] (Milano 1982: 295-296):

Un giorno l'imperatore Fuhi [Fohi] – che visse secondo alcuni nel xxxvii secolo a.C., e secondo altri nel xxix secolo a.C. – vide cinque stelle precipitare su un albero e subito dopo una fenice farvi sopra la ruota. Egli si disse che quell'albero era stato elargito di doni preziosi dalla natura: lo fece allora abbattere per ricavarne uno strumento musicale. L'albero misurava trenta cubiti d'altezza ed era situato al trentatreesimo grado di latitudine. Per tale ragione l'imperatore fece tagliare il tronco in tre parti eguali, a rappresentare i tre elementi: il cielo, la terra, l'uomo [ ... ] Facendo cadere la sua scelta sul pezzo centrale, egli la fece immergere per settantadue giorni (il numero è determmato dai 72° dell'atmosfera) nell'acqua pura d'un fiume. Trascorso questo tempo, lo fece tirar fuori a seccare. Scelse dipoi un giorno fasto per farne cavare un liuto da un artigiano, e gli diede un nome tratto da un incantesimo detto giao-chi.
Lo strumento, che ebbe il manico adornato da una scultura che rappresentava una testa bifronte, giovane da una parte e fanciulla dall'altra, misurava tre cubiti e sei pollici di lunghezza (a significare i 360 gradi), otto pollici di larghezza (a significare le otto suddivisioni dell'anno), due pollici di spessore (a rappresentare i due elementi: cielo e terra); contava dodici tasti più uno, che rappresentavano i dodici mesi dell'anno più uno per il mese intercalare. Le cinque corde che montava stavano a indicare i cinque elementi: minerali, vegetali, acqua , fuoco, terra [...]
Non è lecito sonare questo strumento in sei occasioni: 1) quando faccia grande freddo; 2) quando faccia eccessivo caldo; 3) quando spiri vento molto forte; 4) quando piova con violenza; 5) quando si faccia udire il tuono; 6) quando ci sia la neve.
Ma ancora sette occasioni vi sono nelle quali non conviene farne intendere il suono, e sono precisamente: 1) nello svolgimento di funerali; 2) durante i riti sacrificali; 3) quando si sia occupati dalla cura dei propri interessi; 4) quando sia stata trascurata un'acconcia pulizia personale; 5) quando l'abito indossato non sia conveniente; 6) quando non si sia provveduto a bruciare incenso; 7) quando manchi la compagnia d'un amico.

Combarieu chiama lo strumento dan-nguyet o liuto della luna, il cui nome indica uno strumento tibetano a due sole corde. In cina lo strumento corrispondente, ma a 4 corde, è detto yueqin, versione moderna del ruan, dal manico più allungato. La parola luna si lega alla forma perfettamente tonda della cassa armonica. Tuttavia dalla descrizione sembra di capire che lo strumento descritto sia una pipa cinese (che non ha relazione con 'luna').
Steiner considerava l'uomo tripartito: 1) pensare, la testa, l'attività razionale e sensitiva consapevole; 2) sentire, il cuore-polmoni, l'attività emozionale o sistema ritmico, parzialmente consapevole; 3) volere, gli arti, il metabolismo, i bisogni fisci (fame, sonno, istinto) che non possiamo controllare.
Steiner definisce questa parte incontrollata luna, ma tutte e tre le parti sono espressione dell'armonia del cosmo. Sulla leggenda ecco le sue osservazioni:

Vorrei aggiungere soltanto una cosa: il signor van der Pals ha segnalato con ragione che nella leggenda cinese del violino lunare manca l'uomo. Credo che egli abbia inteso dire che è particolarmente sorprendente che l'uomo, in senso musicale, venga escluso dall'inserimento nel cosmo intero. [...] In un certo senso l'uomo vi sta già dentro [...] Nei Cinesi esiste proprio una profonda coscienza del rapporto fra la testa umana e le sfere superiori, fra il sistema ritmico dell'uomo, il sistema cuore-polmoni, e la terra cui l'uomo partecipa perché respira, in quanto con la respirazione stessa il suo sistema ritmico viene messo in movimento. [...] Il legame dell'uomo intero col cosmo resta invece indeterminato.

Ciò che nell'uomo resta così indeterminato veniva indicato come luna nell'uomo stesso. Vi era una coscienza fondamentale, anche se istintiva, che in certo modo la terza parte costitutiva di un uomo tripartito è in relazione con la luna. Ciò sta anche alla base di ogni comprensione scientifico-spirituale dell'uomo.

Da questo elemento affine alla luna si differenzia ciò che risulta dall'intero sistema ritmico, ciò che in un certo senso librandosi sopra il sistema ritmico rappresenta come il risultato, l'effetto del sistema ritmico stesso: è l'elemento solare che si dovrebbe trovare principalmente concentrato nel cuore dell'uomo. [...] A ciò si aggiunge nell'uomo ciò che è connesso con il sistema ritmico, che costituisce la struttura del suo apparato nervoso e che è in relazione con gli altri pianeti.

Saturno
Giove
Marte
Sole
Venere
Mercurio
Luna

Si ha quindi in alto nella testa Saturno, in relazione col sistema nervoso centrale, poi Giove, in relazione piuttosto con gli organi di senso, con gli occhi, quindi Marte in relazione con ciò che sta alla base degli organi del linguaggio e del canto, e infine Venere e Mercurio, che si riferiscono piuttosto al sistema nervoso simpatico. Si avrebbe così ciò che è alla base dell'intera organizzazione umana, come è trasmessa dalla Luna.

Si dovrebbero poi distinguere cinque linee di collegamento che risalgono ai cinque pianeti. In tal modo si otterrebbe l'interno dell'uomo organizzato nel senso di uno strumento musicale ideale, ma del tutto reale entro l'organismo umano. [...] Si pensino dunque i cinque astri: Saturno, Giove, Marte, Venere e Mercurio, che si inclinano verso l'albero-uomo e tendono su di lui la lira, in modo da farlo diventare uno strumento musicale. Sopra quell'insieme si libra, calandosi dall'universo spirituale, l'accordatore dello strumento: l'uccello Fenice, l'anima umana immortale.

In quella leggenda cinese vi è un senso realmente pieno di significato, e l'uomo ne resta fuori proprio perché è egli stesso la musica, perché la leggenda non parla appunto della cosa principale. Parla di ciò che mette insieme l'intero strumento musicale. [...]