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Gli Inni omerici sono una collezione di trentaquattro inni anonimi risalenti al vii-vi sec. a.C. Sono detti omerici perché scritti nello stesso dialetto dell'Iliade e dell'Odissea. L'attribuzione ad Omero (ma gli inni furono scritti da poeti diversi) risale a Tucidide (v sec. a.C.) | testo greco
O Musa, canta Ermes, figlio di Zeus e di Maia, signore di Cillene e dell'Arcadia ricca di greggi, messaggero veloce degl'immortali, che Maia generò, la ninfa augusta dalle belle trecce, unendosi in amore con Zeus. |
Invocazione alla musa | |
5 | Ella sfuggiva il consesso degli dei beati, dimorando nell'antro ombroso, dove il Cronide era solito unirsi con la ninfa dalle belle trecce, nel buio della notte – mentre il dolce sonno teneva Era dalle bianche braccia – celandosi agli dei immortali e agli uomini mortali. |
Amore di Maia con Giove, all'insaputa di Era |
10 15 |
Ma quando fu attuato il disegno del grande Zeus, e per lei la decima luna si stabilì nel cielo, il dio portò alla luce il fanciullo, e la sua opera fu palese: allora ella generò un figlio dalle molte arti, dalla mente sottile, predone, ladro di buoi, ispiratore di sogni, vigile nella notte, che sta in agguato alle porte; egli ben presto avrebbe compiuto gesta famose al cospetto degl'immortali. |
Nascita di Mercurio |
20 |
Nato all'aurora, a mezzogiorno suonava la lira, e dopo il tramonto rubò le vacche di Apollo arciere, nel giorno in cui lo generò Maia veneranda, il quarto del mese. Egli, quando balzò fuori dal grembo immortale della madre, non giacque a lungo inerte nella sacra culla, ma saltò in piedi, e si diede a cercare le vacche di Apollo, varcando la soglia dell'antro dalla volta sublime. |
Ruba le vacche di Apollo |
25 |
Là fuori trovò una tartaruga, e ne trasse gioia infinita: in verità, Ermes fu il primo che creò una tartaruga canora. Quella gli si parò di fronte presso l'uscita della corre, pascendosi, davanti alla casa, dell'erba rigogliosa, e zampettando placidamente: il veloce figlio di Zeus rise al vederla, e subito disse: |
La tartaruga |
30 35 40 |
«Ecco già un segno molto fausto per me: non lo dispregio. Salve, amica della mensa, dall'amabile aspetto, che accompagni la danza; tu appari benvenuta: donde vieni, o bel giocattolo? Tu indossi un guscio variegato, tartaruga che vivi sui monti; ebbene, io ti prenderò e ti porterò a casa; in qualche modo mi sarai utile, e non ti trascurerò: anzi tu gioverai a me prima che ad ogni altro. E meglio stare in casa: c'è pericolo fuori. Tu certo sarai per me una difesa contro il sortilegio funesto, da viva; e se poi tu morissi, allora sapresti cantare a meraviglia». Così disse, e, sollevatala a due mani, subito si diresse dentro la casa, portando l'amabile giocattolo. |
Parla con lei |
45 50 |
Poi, spingendo con una lama di grigio ferro, estrasse la polpa della tartaruga abitatrice dei monti. Come quando un rapido pensiero attraversa l'animo di un uomo che travagliano numerosi affanni, o quando balena dagli occhi la luce dello sguardo, così il glorioso Ermes pensava insieme le parole e gli atti. Tagliati nella giusta misura steli di canna, li infisse nel guscio della tartaruga, perforandone il dorso. Poi, con la sua accortezza, tese tutt'intorno una pelle di bue; fissò due bracci, li congiunse con una traversa, e tese sette corde di minugia di pecora, in armonia fra loro. |
Costruisce la chelys |
55 60 |
E quando l'ebbe costruito, reggendo l'amabile giocattolo, col plettro ne saggiò le corde, una dopo l'altra: quello sotto la sua mano diede un suono prodigioso, e il dio lo seguiva col suo dolce canto cimentandosi nell'improvvisare, così come i giovani, in festa, durante i banchetti, si sfidano con strofe pungenti: cantava di Zeus Cronide e di Maia dai bei calzari, come un tempo s'incontravano nell'amplesso amoroso, e così celebrava la propria nobile stirpe; esaltava poi le ancelle e la splendida dimora della ninfa, e i tripodi nella casa, e i numerosi lebeti. E mentre cantava, già nella sua mente meditava altre imprese. Portata la concava lira nella sua sacra culla ve la depose [...] |
Suona e canta |
420 425 |
[...] E facilmente egli placò proprio come voleva, il figlio della gloriosa Leto, l'arciere, per quanto fosse ostinato: la lira, tenuta sul braccio sinistro, saggiò col plettro, una corda dopo l'altra; quella, sotto la sua mano, mandò un suono prodigioso. Sorrise Febo Apollo rasserenandosi: gli penetrò nell'animo l'amabile armonia della voce divina, e un dolce desiderio lo prese al cuore, mentre ascoltava. Suonando soavemente la lira il figlio di Maia, sicuro di sé, stava alla sinistra di Febo Apollo: ben presto, traendo limpide note dalla cetra cominciò a cantare – e lo assecondava l'amabile voce – celebrando gli dei immortali e la terra tenebrosa: come, al principio dei tempi, ebbero origine, e come ciascuno ottenne la sua parte. |
Placa Apollo con la sua lira |
430 |
Al primo posto fra tutti gli dei esaltava col canto Mnemosine, la madre delle Muse: a lei infatti apparteneva il figlio di Maia; poi, secondo il rango e secondo la nascita di ognuno, l'augusto figlio di Zeus esaltava gli dei immortali tutto narrando con arte, e suonando la cetra che teneva sul braccio. |
Canta Mnemosine |
435 |
Un desiderio irresistibile prese il cuore di Apollo, nel petto, e, rivolgendosi ad Ermes, pronunciò parole alate: «Uccisore di vacche, briccone sempre in faccende, amico della mensa, tu hai inventato qualcosa che vale cinquanta vacche: credo che d'ora in poi ci metteremo facilmente d'accordo. |
Commozione di Apollo |
440 |
Ma ora, suvvia, rispondimi, figlio di Maia, dalle molte risorse: quest'arte miracolosa ti ha accompagnato fin dalla nascita, oppure uno degl'immortali, o degli uomini mortali, ti ha fatto questo dono stupendo, e ti ha insegnato il canto divino? |
Da dove lo strumento? |
445 |
Meravigliosa è la nuova voce che odo, e io affermo che mai alcuno degli uomini ne è venuto a conoscenza né alcuno degli dei che abitano le dimore dell'Olimpo, se non tu, furfante, figlio di Zeus e di Maia. Che arte è questa? Cos'è questo canto che ispira passioni irresistibili? Quale la via per attenerlo? Con esso, veramente è possibile raggiungere tutte insieme tre cose: la gioia, l'amore, e il dolce sonno. |
Più di ogni altro divino |
450 455 |
Anch'io, certo, mi accompagno con le Muse dell 'Olimpo cui sono care le danze, e la via luminosa del canto, e la fiorente melodia, e il clamore dei flauti, pieno di desiderio; eppure, finora, nessun'altra cosa fu mai tanto cara al mio animo fra le prove di bravura che si odono nei banchetti dei giovani: io vedo con ammirazione, figlio di Zeus, con quanta dolcezza suoni la cetra. |
Mignore di ogni strumento |
460 |
Ma ora, poiché, pur essendo piccino, nutri alti pensieri, siedi, mio caro, e dà ascolto col tuo animo a chi è più vecchio di te. Ora, senza dubbio, sarete famosi tra gli dei immortali tu stesso e tua madre; e questo ti dirò sinceramente: in verità, per questa mia lancia di corniolo, io t'insedierò fra gl'immortali come guida, prospero e glorioso, e ti darò magnifici doni, e fino in fondo non verrò meno alle promesse». |
Apollo premia Mercurio |
465 |
A lui Ermes rispose con abili parole: «Tu m'interroghi con molta eloquenza, o arciere; ed io, da parte mia, non ho nulla in contrario a che tu apprenda la mia arte. |
Parla Mercurio |
470 |
Oggi stesso la conoscerai: in verità voglio esserti amico nel pensiero e nelle parole. Ma tu, nella tua mente, già conosci bene ogni cosa: al primo posto infatti, figlio di Zeus, tu siedi fra gl'immortali, forte e possente: e ti ha caro il saggio Zeus, come è pienamente giusto, e ti ha concesso magnifici doni e privilegi; dicono poi che tu abbia appreso dalla voce di Zeus i vaticinii o arciere – da Zeus derivano tutti gli oracoli – in questo campo so bene io stesso, ragazzo mio, che tu sei ricco; ed è facile per te imparare qualunque cosa tu voglta. |
Mercurio si dispone a insegnare ad Apollo |
475 480 485 |
Ma, poiché dunque il tuo cuore è ansioso di suonare la cetra, canta e suona e abbandonati a questa gioia che ricevi da me; da parte tua, mio caro, lascia a me la gloria. Soavemente canta, tenendo fra le mani la canora compagna che sa parlare con dolcezza e con armonia. D'ora in poi, con animo sereno, portala al banchetto fiorito, all'amabile danza, alla splendida festa, per la gioia del giorno e della notte. Se alcuno, dopo lungo studio, la mette alla prova con arte e dottrina, cantando ella insegna tutto ciò che è gradito alla mente, suonata con mano lieve e con delicata esperienza; e rifugge dallo sforzo logorante. Ma se qualcuno, inesperto, la tenta da principio con mano rude, allora balbetterà fuori tono, a vuoto. |
Che sia strumento d'Apollo |
490 495 |
Del resto, è facile per te imparare qualunque cosa tu voglia. E in verità io ti farò dono della lira, nobile figlio di Zeus: io, da parte mia, per il monte e per la pianura nutrice di cavalli mi aggirerò tra i pascoli, o arciere, con le vacche abitatrici dei campi. Colà le vacche accoppiandosi coi tori partoriranno io abbondanza maschi e femmine alla rinfusa; e non conviene che tu, per quanto avido di guadagno, ti adiri oltre misura!» |
Per Mercurio le vacche |
500 |
Così di cendo, porse la lira; Febo Apollo la prese, e volentieri donò a Ermes la sferza rilucente e gli affidò la cura dell'armento: la assunse il figlio di Maia con animo lieto. E, reggendo con la sintstra la lira, l'augusto figlio di Leto, il dio arciere, Apollo, col plettro saggiò il tono delle corde; quella, sotto la sua mano, diede un suono prodigioso, e il dio la seguiva col suo dolce canto. |
Apollo dona le vacche a Mercurio e suona |
505 |
Dunque le vacche verso il prato divino guidarono; ed essi, gli splendidi figli di Zeus, si affrettarono sulla via del ritorno, verso l'Olimpo nevoso, rallegrandosi con la lira; si compiacque perciò il saggio Zeus, e li strinse in amicizia [...] |
Riconcilia: felicità di Giove |
[trad. di F. Cassola] |
Il concetto matematico assume importanza nella filosofia greca, anche in funzione etica, perché elemento di contatto fra due estremi, capace di podurre un continuum.
I greci conoscevano tre tipi di 'medio': aritmetico, geometrico, armonico.
Medio aritmetico: è il valore intermedio fra due estremi (per es. fra 12 e 6 il medio aritmetico è 9). Si calcola sommando i valori e dividendo per due. Se la somma dei due estremi corrisponde al diametro, il medio aritmetico è il raggio.
Medio geometrico: definisce un valore proporzionale (il primo sta al medio come il medio al secondo: per es. fra 9 e 4 il medio geometrico è 6). Si ottiene dalla radice del prodotto dalla moltiplicazione dei due fattori. In una circonferenza, il medio geometrico è il semiasse che passa per il punto di contatto e il perimetro.
Medio armonico: stabilisce un rapporto il cui valore si colloca nella differenza fra i due estremi con la stessa proprozione che mette in rapporto gli estremi. Per es. se a è 6 e b è 3 il rapporto è 2:1 per cui, calcolata la differenza fra a e b in 3, questa sarà divisa in proprozione (dove y è 2 e z è 1) e il medio x sarà 4. Si calcola facilmente raddoppiando il prodotto dei due valori estremi e dividendo per la somma degli stessi. Il medio armonico può essere visualizzato in una doppia circoferenza dove il circoletto interno identifica la differenza fra gli estremi a e b (la suddivisione fra y e z ha lo stesso rapporto di a e b)
In genere il medio armonico s'individua fra valori doppi o tripli: nel primo caso l'incremento rispetto a b è di 1/3, nel secondo caso di 1/2:
È possibile inoltre dimostrare che il medio aritmetico (r = raggio), il medio geometrico (s = semiasse) e il medio armonico (x) sono in relazione secondo la formula s2 = rx
Basta visualizzare geometricamente le tre medie osservando che il medio geometrico, corrisponde al quadrato (in verde) costruito sul semiasse (s). Invece di duplicare il numeratore (2ab) secondo formula, si può dimezzare il denominatore (a+b), usando il raggio invece del diametro per ottenere un rettangolo (in giallo) con un lato uguale al medio armonico (x) e l'altro a quello geometrico o raggio (r).
Nel disegno si propongono i due casi in cui la proporzione a:b prima è doppia e poi tripla (quelle più comuni alla musica). Si ha così che fra quadrato verde e rettangolo giallo l'area è la stessa, escludendo la porzione in comune e facendo corrispondere i triangoli rettangoli di contorno:
[passi dalla traduzione pubblicata da Laterza (Giarratano)]
[614b] ... ti racconterò ... la storia del valoroso Er figlio di Armenio, di schiatta panfilia. Costui era morto in guerra e quando dopo dieci giorni si raccolsero i cadaveri già putrefatti, venne trovato ancora incorrotto. Portato a casa, nel dodicesimo giorno stava per essere sepolto. Già era deposto sulla pira quando risuscitò e, risuscitato, prese a raccontare quello che aveva veduto nell’aldilà. Ed ecco il suo racconto.
[616b] Quando i singoli gruppi che si trovavano nel prato vi avevano trascorso sette giorni, nell’ottavo dovevano levarsi di lí e mettersi in cammino, per giungere nel quarto giorno in un luogo donde potevano scorgere, tesa dall’alto attraverso tutto il cielo e la terra, una luce diritta come una colonna, molto simile all’arcobaleno, ma piú intensa e piú pura. Vi erano arrivati dopo un giorno di marcia e colà avevano veduto, [c] in mezzo alla luce, tese dal cielo, le estremità dei suoi legami. Era questa luce a tenere avvinto il cielo e, come le gomene esterne delle triremi, a tenere insieme tutta la circonferenza.
Alle estremità era sospeso il fuso di Ananke [Necessità o Destino immutabile], per il quale giravano tutte le sfere. Il suo fusto e l’uncino erano di diamante, il fusaiolo una mescolanza di diamante e di altre materie. Il fusaiolo aveva questa natura: [d] per la figura era come quello che si usa in questo nostro mondo, ma il racconto di Er deve far pensare che fosse costruito come se entro un grande fusaiolo cavo e interamente intagliato fosse incastrato un altro consimile, ma piú piccolo, come quei vasi che entrano esattamente l’uno [e] nell’altro; e cosí un terzo, un quarto e altri quattro. Tutti insieme i fusaioli erano otto, incastrati l’uno nell’altro, e superiormente mostravano i loro orli circolari; costituivano il dorso continuo di un unico fusaiolo accentrato sul fusto e il fusto passava da parte a parte l’ottavo fusaiolo lungo l’asse mediano.
Il primo fusaiolo [stelle], il piú esterno, aveva il cerchio dell’orlo molto largo. Seguivano poi in ordine decrescente il sesto [venere], il quarto [marte], l’ottavo [luna], il settimo [sole], il quinto [mercurio], il terzo [giove], il secondo [saturno]. Il cerchio del maggiore era variegato, quello del settimo lucentissimo, quello [617a] dell’ottavo riceveva il colore dal settimo che lo illuminava, quelli del secondo e del quinto si somigliavano, ma erano piú gialli dei precedenti; il terzo aveva una tinta bianchissima, il quarto rossastra, il sesto veniva al secondo posto per bianchezza. Il fuso ruotava tutto volgendosi con moto uniforme e nel girare dell’insieme i sette cerchi interni giravano lenti in direzione opposta. Il piú rapido era l’ottavo, [b] secondi venivano, tutti insieme, il settimo, il sesto e il quinto; terzo in questo moto rotatorio era, come appariva a quelle anime, il quarto; quarto e quinto rispettivamente il terzo e il secondo.
Il fuso si volgeva sulle ginocchia di Ananke. Sull’alto di ciascuno dei suoi cerchi stava una Sirena che, trascinata in quel movimento circolare, emetteva un’unica nota su un unico tono; e tutte otto le note creavano un’unica armonia. Altre tre donne sedevano in cerchio a [c] eguali distanze, ciascuna su un trono: erano le sorelle di Ananke, le Moire [Parche presso i latini] in abiti bianchi e con serti sul capo, Lachesi Cloto Atropo. E cantavano in armonia con le Sirene: Lachesi il passato, Cloto il presente, Atropo il futuro. Cloto a intervalli toccava con la destra il fuso e ne accompagnava il giro esterno, cosí come faceva Atropo con la sinistra per [d] i giri interni; e Lachesi con l’una e con l’altra mano toccava ora i giri interni ora quello esterno. Al loro arrivo, le anime dovevano presentarsi a Lachesi. [...]
31b] VII. Quello ch’è nato deve essere corporeo e visibile e tangibile. Ma niente potrebbe essere visibile, separato dal fuoco, né tangibile senza solidità, né solido senza terra. Sicché dio, cominciando a comporre il corpo dell’universo, lo fece di fuoco e di terra. Ma non è possibile che due [c] cose sole si compongano bene senza una terza: bisogna che in mezzo vi sia un legame che le congiunga entrambe. E il più bello dei legami è quello che faccia, per quant’è possibile, una cosa sola di sé e delle cose legate: ora la proporzione compie questo in modo bellissimo. Perché quando di tre numeri o masse o potenze quali si vogliano, [32a] il medio sta all’ultimo come il primo al medio, e d’altra parte ancora il medio sta al primo, come l’ultimo al medio, allora il medio divenendo primo e ultimo, e l’ultimo e il primo divenendo a lor volta medi ambedue, così di necessità accadrà che tutti siano gli stessi, e divenuti gli stessi fra loro, saranno tutti una cosa sola. Se dunque il corpo dell’universo doveva essere piano e senz’alcuna profondità, [b] un solo medio bastava a collegare sé e le cose con sé congiunte: ma ora, poiché conveniva che il corpo dell’universo fosse solido (e i solidi non li congiunge mai un medio solo, ma due ogni volta, perché dio mise acqua e aria fra fuoco e terra, e proporzionati questi elementi fra loro, per quant’era possibile, nella medesima ragione, di modo che come stava il fuoco all’aria stesse anche l’aria all’acqua, e come l’aria all’acqua l’acqua alla terra, collegò e com[c]pose il cielo visibile e tangibile.
34a] VIII. Tutte queste ragioni meditò il dio-che-sempre-è [b] intorno al dio-che-doveva-essere-un-giorno, e fece un corpo liscio e uniforme ed eguale dal centro in ogni direzione e intero e perfetto e composto di corpi perfetti. E messa l’anima nel mezzo di esso, la distese per tutte le sue parti, e con questa stessa l’involse tutt’intorno di fuori, e così fece un cielo circolare, che si muove circolarmente, unico e solitario, ma atto per sua virtù ad accompagnarsi seco stesso e di nessun altro bisognoso e bastevolmente conoscitore e amante di se stesso. E per tutte queste cagioni generò [c] felice questo dio. L’anima poi dio non la fece dopo il corpo, come noi che ora prendiamo a parlarne in ultimo, perché, dopo averli congiunti, non avrebbe lasciato che il più vecchio fosse governato dal più giovine. Ma noi che molto dipendiamo dalla sorte e dal caso, così anche a caso parliamo. Egli invero formò l’anima anteriore e più antica del corpo per generazione e per virtù, in quanto che essa doveva governare il corpo, e questo obbedirle, e la formò di tali elementi e in tal guisa.
Dell’essenza indivisibile e [35a] che è sempre nello stesso modo e di quella divisibile che si genera nei corpi, di tutte e due forma, mescolandole insieme, una terza specie di essenza intermedia, che partecipa della natura del medesimo e di quella dell’altro, e così la stabilì nel mezzo di quella indivisibile e di quella divisibile per i corpi. E présele tutte e tre, le mescolò in una sola specie congiungendo a forza col medesimo la natura e [b] dell’altro che ricusava di mescolarsi.
E mescolando queste due nature con l’essenza, e di tre fatto di nuovo un solo intero, divise questo in quante parti conveniva, ciascuna delle quali era mescolata del medesimo, dell’altro e dell’essenza. Cominciò poi a dividere così: prima tolse dal tutto una parte, dopo di questa ne tolse una doppia di essa, e poi una terza ch’era una volta e mezzo la seconda e tre volte la prima, una quarta doppia della seconda, una quinta [c] tripla della terza, una sesta ottupla della prima, una settima ventisette volte maggiore della prima. Dopo [36a] di ciò riempì gl’intervalli doppi e tripli, tagliando ancora di là altre parti e ponendole nei loro intervalli, di modo che in ciascuno intervallo ci fossero due medii, e l’uno avanzasse un estremo e fosse avanzato dall’altro della stessa frazione di ciascuno di essi, e l’altro avanzasse e fosse avanzato dallo stesso numero.
E derivando da questi legami nei precedenti intervalli nuovi intervalli, cioè d’uno e mezzo, d’uno e un terzo e d’uno e un ottavo, riempì [b] con l’intervallo d’uno e un ottavo tutti gl’intervalli d’uno e un terzo, e lasciò una particella di ciascuno di essi, di modo che l’intervallo lasciato di questa particella avesse i suoi termini nello stesso rapporto numerico fra loro come 256 sta a 243 [= semitono]. E così impiegò tutta quella mescolanza, donde tagliava queste parti.
Pertanto, divisa in due nel senso della lunghezza tutta questa composizione e adattata l’una parte sull’altra [c] nella loro metà in forma di un X, le piegò in giro nello stesso punto, collegando ciascuna con se stessa e con l’altra dirimpetto alla loro intersezione, e v’impresse un movimento di rotazione uniforme nel medesimo spazio, e l’uno dei circoli lo fece esteriore [= equatore] e l’altro interiore [= eclittica]. E il movimento del circolo esteriore lo destinò come movimento della natura del medesimo, e quello del circolo interiore come movimento della natura dell’altro. E quello che ha la natura del medesimo lo rivolse secondo il lato a destra, e quello della natura dell’altro, secondo la diagonale a sinistra. Ma diè la signoria al movimento del medesimo e simile, e lo lasciò uno e indiviso, mentre divise sei volte [d] l’interiore, facendone sette circoli diseguali secondo gl’intervalli del doppio e del triplo, ch’erano tre per ciascuna parte. E a questi circoli ordinò che si movessero in senso contrario gli uni agli altri, e che tre fossero eguali per velocità e quattro diseguali fra loro e rispetto agli altri tre, ma tutti girassero secondo ragione.
[290b] 9. Risulta evidente da tutto questo che anche l’affermare che il moto dei corpi celesti produca un’armonia, in quanto i loro suoni generano un accordo, è si affermazione mirabile ed ingegnosa, ma la verità non è in questo modo. Vi sono infatti alcuni che ritengono che il moto di corpi di tale grandezza debba necessariamente produrre un suono, dal momento che questo accade anche con i corpi che ci circondano [= di cui abbiamo esperienza], i quali né hanno mole pari a quelli né si muovono con egual velocità; e il sole e la luna, e poi le stelle, che sono in tal numero, e di tal grandezza, e si muovono con un moto di tale velocità, è impossibile, dicono, che non producano un suono d’intensità straordinaria. Da queste premesse, e assumendo inoltre che le velocità, in virtù delle distanze fra i vari astri, hanno rapporto di accordi consonanti, essi affermano che il suono prodotto dal moto circolare degli astri è armonico.
Ma parendo assurdo che di questo suono non s’abbia anche noi percezione, causa di ciò dicono essere il fatto che questo suono ci accompagna già fin dalla nascita, per modo che esso non si lascia distinguere nel contrasto col silenzio: solo contrapposti infatti suono e silenzio si lasciano distinguere. Per modo che, come i fabbri per effetto dell’assuefazione non rilevano più nessuna differenza fra suono e silenzio, il medesimo accadrebbe anche a noi uomini. Tutto questo, come s’è detto prima, è sì enunciato in maniera non disarmonica e conforme alle arti delle muse, è però impossibile che le cose stiano in questo modo.
Non soltanto è assurdo che non si abbia di ciò alcuna percezione uditiva, e di questa difficoltà essi cercano di risolvere la causa, ma è anche incredibile che, sensazione a parte, noi non ne subiamo nessun effetto. I rumori molto intensi giungono difatti anche a frantumare le moli dei corpi inanimati; il fragore del tuono ad esempio spacca [291a] perfino le pietre e i corpi più resistenti. Quando poi i corpi in moto sian così grandi, poiché la forza di penetrazione del rumore è proporzionale alla grandezza in movimento, dovrebbe giungere fino a noi un rumore molte volte più forte di quello del tuono, e con una violenza d’intensità straordinaria. A buona ragione invece noi non abbiamo di ciò percezione uditiva, né appare che i corpi subiscano alcuna affezione violenta, e questo perché gli astri non producono rumore.
La causa di questo è evidente, e insieme ci attesta che i discorsi da noi fatti sono veri; l’aporia infatti che induce i Pitagorici ad affermare l’esistenza dell’armonia degli astri, è un argomento a conferma di quanto abbiamo detto. Tutti i corpi infatti che si muovono di moto proprio producono un rumore, che è provocato dall’attrito; i corpi invece che sono infissi in un corpo in movimento, o che appartengono ad esso, come le parti in una nave, non possono produrre rumore, e non ne produrrebbe neppure la nave, quando si muovesse secondando la corrente d’un fiume. Eppure queste medesime ragioni potrebbero essere addotte per sostenere come sia assurdo che l’albero o la poppa in una nave così grande non producano muovendosi un grande rumore, o, per riprender tutto, la stessa nave in moto. Ma il rumore è prodotto da un corpo in movimento in un mezzo immobile: invece, ciò che è solidale col corpo in movimento, non fa attrito, e quindi non produce rumore.
Va detto qui pertanto che, se i corpi degli astri, come tutti dicono, si muovessero in una massa d’aria, o di fuoco, diffusa per l’universo, produrrebbero necessariamente un rumore d’intensità straordinaria, e se così fosse, esso giungerebbe fino a noi e frantumerebbe i corpi di quaggiù. Cosicché, poiché non si constata che questo accada, abbiamo che nessuno di essi si muove di movimento animato, né di moto violento, quasi che la natura avesse previsto ciò che accadrebbe, e cioè che nulla di quanto si trova nella nostra regione permarrebbe nello stato in cui ora si trova. Che gli astri sono sferici, e che non si muovono di moto proprio, è stato detto.
[16] Ma allo stesso modo, Scipione, sull'esempio di questo tuo avo e come me che ti ho generato, coltiva la giustizia e il rispetto, valori che, già grandi se nutriti verso i genitori e i parenti, giungono al vertice quando riguardano la patria; una vita simile è la via che conduce al cielo e a questa adunanza di uomini che hanno già terminato la propria esistenza terrena e che, liberatisi del corpo, abitano il luogo che vedi» – si trattava, appunto, di una fascia risplendente tra le fiamme, dal candore abbagliante – «che voi, come avete appreso dai Greci, denominate Via Lattea».
Da qui, a me che contemplavo l'universo, tutto pareva magnifico e meraviglioso. C'erano, tra l'altro, stelle che non vediamo mai dalle nostre regioni terrene; inoltre, le dimensioni di tutti i corpi celesti erano maggiori di quanto avessimo mai creduto; tra di essi, il più piccolo era l'astro [= Luna] che, essendo il più lontano dalla volta celeste e il più vicino alla terra, brillava di luce riflessa. I volumi delle stelle, poi, superavano nettamente le dimensioni della terra. Anzi, a dire il vero, perfino la terra mi sembrò così piccola, che provai vergogna del nostro dominio, con il quale occupiamo, per così dire, solo un punto del globo.
[17] Poiché guardavo la terra con più attenzione, l'Africano mi disse: «Posso sapere fino a quando la tua mente rimarrà fissa a terra? Non ti rendi conto a quali spazi celesti sei giunto? Eccoti sotto gli occhi tutto l'universo compaginato in nove orbite, anzi, in nove sfere. Una sola di esse è celeste, la più esterna, che abbraccia tutte le altre: è il dio sommo che racchiude e contiene in sé le restanti. In essa sono confitte le sempiterne orbite circolari delle stelle, cui sottostanno sette sfere che ruotano in direzione opposta, con moto contrario all'orbita del cielo. Di tali sfere una è occupata dal pianeta chiamato, sulla terra, Saturno. Quindi si trova quel fulgido astro – propizio e apportatore di salute per il genere umano – che è detto Giove. Poi, in quei bagliori rossastri che tanto fanno tremare la terra, c'è il pianeta che chiamate Marte. Sotto, quindi, il Sole occupa la regione all'incirca centrale: è guida, sovrano e regolatore degli altri astri, mente e misura dell'universo, di tale grandezza, che illumina e avvolge con la sua luce tutti gli altri corpi celesti. Lo seguono, come compagni di viaggio, ciascuno secondo il proprio corso, Venere e Mercurio, mentre nell'orbita più bassa ruota la Luna, infiammata dai raggi del Sole. Al di sotto, poi, non c'è ormai più nulla, se non mortale e caduco, eccetto le anime, assegnate per dono degli dèi al genere umano; al di sopra della Luna tutto è eterno. La sfera che è centrale e nona, ossia la Terra, non è infatti soggetta a movimento, rappresenta la zona più bassa e verso di essa sono attratti tutti i pesi, per una forza che è loro propria».
[18] Dopo aver osservato questo spettacolo, non appena mi riebbi, esclamai: «Ma che suono è questo, così intenso e armonioso, che riempie le mie orecchie?».
«È il suono», rispose, «che sull'accordo di intervalli regolari, eppure distinti da una razionale proporzione, risulta dalla spinta e dal movimento delle orbite stesse e, equilibrando i toni acuti con i gravi, crea accordi uniformemente variati; del resto, movimenti così grandiosi non potrebbero svolgersi in silenzio e la natura richiede che le due estremità risuonino, di toni gravi l'una, acuti l'altra. Ecco perché l'orbita stellare suprema, la cui rotazione è la più rapida, si muove con suono più acuto e concitato, mentre questa sfera lunare, la più bassa, emette un suono estremamente grave; la Terra infatti, nona, poiché resta immobile, rimane sempre fissa in un'unica sede, racchiudendo in sé il centro dell'universo. Le otto orbite, poi, all'interno delle quali due hanno la stessa velocità, producono sette suoni distinti da intervalli, il cui numero è, possiamo dire, il nodo di tutte le cose; imitandolo, gli uomini esperti di strumenti a corde e di canto si sono aperti la via per ritornare qui, come gli altri che, grazie all'eccellenza dei loro ingegni, durante la loro esistenza terrena hanno coltivato gli studi divini.
[19] Le orecchie degli uomini, riempite da tale suono, sono diventate sorde. Nessun organo di senso, in voi mortali, è più debole: allo stesso modo, là dove il Nilo, da monti altissimi, si getta a precipizio nella regione chiamata Catadupa, abita un popolo che, per l'intensità del rumore, manca dell'udito. Il suono, per la rotazione vorticosa di tutto l'universo, è talmente forte, che le orecchie umane non hanno la capacità di coglierlo, allo stesso modo in cui non potete fissare il sole, perché la vostra percezione visiva è vinta dai suoi raggi».
14.4. Nonnulli existimant, cum dicitur sol in Ariete aut in quolibet signo esse, eum supra ipsas stellas Arietis iter facere. Qui autem hac ratione utuntur, longe a vera ratione errant. Nam neque sol, neque luna proxime sidera apparent. | C'è chi pensa che, quando si dice che il Sole è in Ariete o in qualsivoglia altro segno, esso si sposti proprio sulle stelle dell'Ariete. Chi adotta questa teoria si allontana parecchio dalla verità. Nè il Sole, infatti, né la Luna appaiono in prossimità delle costellazioni. |
Hac etiam de causa nonnulli VII stellas erraticas finxerunt, adiungentes eodem solem et lunam, quod cum quinque stellis feruntur. Luna enim proxime terram est; itaque diebus xxx totum mundum existimatur transire. | È appunto questa la ragione per cui alcuni hanno immaginato sette astri erranti, aggiungendovi il Sole e la Luna, poiché [questi] si spostano come i cinque pianeti. La Luna infatti è vicina alla Terra: ci mette trenta giorni, si ritiene, ad attraversare la totalità del cielo. |
Id hac evenit ratione. Ut si quis intra circulum zodiacum fecerit circulos, et eos hoc intervallo finxerit, ut terra sit in medio, et unam a terra ad lunam mensionem fecerit, quam Graeci tonon appellaverunt (hunc autem, quia non esse certum spatium potuerunt dicere, tonon dixerunt): igitur abest luna a terra tonum unum. | Ed ecco la spiegazione di tale fenomeno: supponiamo che uno tracci dei cerchi all'interno del circolo zodiacale ponendoli a intervalli tali che la Terra sia al centro e che dalla Terra alla Luna la misura sia data da quello che i Greci chiamano 'tono' (non potendo precisare la distanza, hanno utilizzato il termine 'tono'): la Luna dista così dalla Terra un tono. |
Hac igitur re, quod brevissimo circulo devehitur, diebus xxx ad primum pervenit signum. | Per il fatto che essa [Luna] percorre il cerchio più corto, in 30 giorni ritorna al primo segno [zodiacale]. |
Ab hoc circulo abest circulus tonum dimidium, quo circulo Mercurii stella vehitur; itaque diebus xxx ad alterum signum transiens tardius. | Da tale cerchio dista un semitono quello percorso dall'astro di Mercurio; così, procedendo più piano, esso ci mette 30 giorni per passare al segno successivo. |
Ab hoc circulo abest alter tonum dimidium; quo loco Veneris stella iter suum dirigit, tardiorem conficiens cursum, quam Mercurii stella. Transit enim ad aliud signum diebus xxx. | Da tale cerchio dista un semitono quello percorso dall'astro di Venere, procedendo più lentamente di quello di Mercurio: passa infatti al segno successivo in 30 giorni. |
Supra huius stellam solis est cursus, qui abest ab Hespero stella quae est Veneris, tonum dimidium. Ita cum inferioribus pariter percolans anno uno XII signa percurrit, tricesimo die ad aliud transiens signum. | Al di sopra di tale astro gira il Sole, che dista da Espero, l'astro di Venere, un semitono. Accompagnando i pianeti inferiori con il suo volo alato esso percorre in un anno i dodici segni, passando ogni 30 giorni da un segno al sucessivo. |
Supra solem igitur et eius circulum Martis est stella, quae abest a sole tonum dimidium. Itaque dicitur diebus lx ad aliud signum transire. | Al di sopra del Sole e della sua orbita si trova l'astro di Marte, che dista dal Sole un semitono. Si dice perciò che passi al segno successivo ogni 60 giorni. |
Supra hunc circulum Iovis est stella, quae abest a Martis tonum dimidium. Itaque anno uno transit ad alterum signum. | Al di sopra di tale cerchio c'è l'astro di Giove, che dista da quello di Marte un semitono. Ci mette un anno a passare da un segno al successivo. [125] |
Novissima stella Saturni, quae maximo vehitur circulo; haec autem abest a Iove tonum. Itaque annis xxx duodecim signa percurrit. | L'ultimo è l'astro di Saturno, che percorre l'orbita più grande: dista da Giove un tono. Ci mette trent'anni a percorrere i dodici segni. [126] |
Ab ipsorum tamen siderum corporibus Saturnus abest tonum anum et dimidium. | Le figure delle costellazioni, per parte loro, distano da Saturno un tono e mezzo. |
[traduzione Adelphi 2009] |
Platone (trad. Laterza) | Plutarco (trad. Bompiani) |
Prima citazione [§ 1] | |
Dell’essenza indivisibile e [35a] che è sempre nello stesso modo e di quella divisibile che si genera nei corpi, di tutte e due forma, mescolandole insieme, una terza specie di essenza intermedia, che partecipa della natura del medesimo e di quella dell’altro, e così la stabilì nel mezzo di quella indivisibile e di quella divisibile per i corpi. | Dell’essere privo di parti e che si mantiene sempre invariato, nonché di quello divisibile che si realizza nei corpi il Dio mescolandoli fece una terza forma intermedia di essere, |
[omessa] | e poi, con riguardo alla natura del Medesimo e dell’Altro e secondo tali due entità, la compose nel mezzo tra ciò che è privo di parti e il divisibile inerente ai corpi. |
E présele tutte e tre, le mescolò in una sola specie congiungendo a forza col medesimo la natura e [b] dell’altro che ricusava di mescolarsi. | E avendo preso quelle, che adesso erano tre, le mescolò tutte in una sola entità, adattando a forza nel Medesimo la natura – difficile a mescolarsi – dell’Altro. |
E mescolando queste due nature con l’essenza, e di tre fatto di nuovo un solo intero, divise questo in quante parti conveniva, ciascuna delle quali era mescolata del medesimo, dell’altro e dell’essenza. Cominciò poi a dividere così: | Mescolandole poi con l’essere, e da tre avendo fatto un tutto intero, di nuovo divise questo nelle parti in cui era conveniente, e ciascuna di queste era mescolata di Medesimo, di Altro e dell’essere. E cominciava a dividere nel modo seguente: |
Seconda citazione [§ 29] | |
prima tolse dal tutto una parte [1], dopo di questa ne tolse una doppia di essa [2], e poi una terza ch’era una volta e mezzo la seconda e tre volte la prima [3], una quarta doppia della seconda [4], una quinta [c] tripla della terza [9], una sesta ottupla della prima [8], una settima ventisette volte maggiore della prima [27]. | All’inizio (il Dio) tolse dal tutto una parte, e dopo questa tolse il doppio di essa, e poi, come terza, una di una volta e mezza la seconda e quindi tripla della prima, e come quarta una parte doppia della seconda, e poi una quinta tripla della terza; la sesta è otto volte la prima, e la settima ventisette volte la prima. |
Dopo [36a] di ciò riempì gl’intervalli doppi e tripli, tagliando ancora di là altre parti e ponendole nei loro intervalli, di modo che in ciascuno intervallo ci fossero due medii, e l’uno avanzasse un estremo e fosse avanzato dall’altro della stessa frazione di ciascuno di essi [medio armonico], e l’altro avanzasse e fosse avanzato dallo stesso numero [medio aritmetico]. | Dopo ciò egli riempiva gli intervalli doppi e tripli tagliando via ancora parti da là e mettendole nel mezzo di essi, in modo tale che in ciascun intervallo ci fossero due medi: l’uno che superasse della stessa frazione un estremo e ne fosse superato dall’altro, l’altro che superasse di un certo numero un estremo e di un numero uguale fosse superato dall’altro. |
E derivando da questi legami nei precedenti intervalli nuovi intervalli, cioè d’uno e mezzo, d’uno e un terzo e d’uno e un ottavo, riempì [b] con l’intervallo d’uno e un ottavo tutti gl’intervalli d’uno e un terzo, e lasciò una particella di ciascuno di essi, di modo che l’intervallo lasciato di questa particella avesse i suoi termini nello stesso rapporto numerico fra loro come 256 sta a 243. | Poiché da questi vincoli negli intervalli di partenza si erano costituiti intervalli di tre a due, di quattro a tre e di nove a otto, con quest’ultimo egli riempiva tutti gli intervalli di quattro a tre, lasciando di ciascuno di essi una frazione, e questo residuo intervallo determinato dalla frazione aveva i suoi termini nel rapporto numerico di 256 a 243. |
31. Platone infatti non introdusse i medi aritmetici e armonici mentre faceva la dimostrazione di una teoria matematica per un assunto di filosofia naturale, che non ne aveva bisogno, ma perché quel punto riguarda in modo particolarissimo la composizione dell’Anima.
Le sue posizioni [della Luna] rispetto al Sole, nelle fasi di trigono e di quadratura assumono le forme di falce e di mezzaluna e, quando ha percorso sei segni zodiacali, essa produce il plenilunio, come un accordo nei sei toni di un’ottava. Quanto al Sole, che all’epoca dei solstizi ha minimi e all’epoca degli equinozi ha massimi i movimenti per mezzo dei quali toglie durata al giorno e la aggiunge alla notte, e viceversa, il rapporto è questo: nei primi 30 giorni dopo il solstizio d’inverno il Sole aggiunge al giorno un sesto dell’eccesso che la notte più lunga aveva rispetto alla più breve, e nei successivi 30 un terzo, e nei rimanenti fino all’equinozio la metà, pareggiando la disuguaglianza dei tempi in intervalli sestupli e tripli.
I Caldei da parte loro dicono che la primavera viene a essere rispetto all’autunno nel rapporto dell’intervallo di quarta, in quello di quinta rispetto all’inverno, e in quello dell’ottava rispetto all’estate.[b] Se giustamente Euripide delimita in quattro mesi l’estate e in altrettanti l’inverno e «in due mesi l’autunno grato e in egual numero la primavera» ne viene che le stagioni si cambiano nel rapporto dell’ottava.
Alcuni poi, assegnando alla Terra la posizione della nota aggiunta [proslambanomene], e alla Luna la nota più bassa, e facendo muovere Mercurio e Venere rispettivamente nella nota più vicina a quella più bassa e a quella della seconda corda, sostengono che il Sole stesso come nota media tenga insieme l’ottava, distando dalla Terra di un intervallo di quinta, dalla sfera delle stelle fisse di uno di quarta [sistema descritto da Plinio].
32. Ma né l’ingegnosità di costoro riesce a toccare alcun elemento di verità, né quelli si attengono in alcun modo alla precisione. A coloro, comunque, ai quali queste cognizioni non sembrano lontane dal pensiero di Platone, appariranno aver legami molto stretti con i rapporti musicali queste altre: che essendoci cinque tetracordi (quelli delle note più basse, delle medie e delle congiunte e delle disgiunte e delle più alte) [systema téleion], i pianeti sono stati disposti in cinque intervalli, dei quali uno è quello dalla Luna al Sole e ai pianeti che procedono solidali con il Sole, cioè Mercurio e Venere, un altro quello da questi pianeti fino a Marte rosseggiante, il terzo quello tra questo e Giove, e di seguito quello che arriva fino a Saturno, e quinto infine quello che va da quest’ultimo alla sfera fissa: cosicché i suoni che delimitano i tetracordi hanno i rapporti dei pianeti [Teoria A]. E ancora, sappiamo che gli antichi ponevano due note più basse [ypate], tre più alte [nete], una media [mese] e una paramedia [paramese], in modo che le note fisse fossero tante quante i pianeti [Teoria B].
Teoria A | Teoria B | |||
la3 | nete [superiore] | Stelle fisse | Saturno | |
mi3 | nete [disgiunto] | Saturno | Giove | |
re3 | nete [congiunto] | Marte | ||
si2 | paramese | Giove | Sole | |
la2 | mese | Marte | Venere | |
mi1 | ypate [medio] | Sole (+ Venere, Mercurio) | Mercurio | |
si1 | ypate [inferiore] | Luna | Luna | |
la1 | proslambanomenos | [Terra] | [Terra] |
I moderni invece, avendo posto sotto la nota più bassa la nota aggiunta, che ne differisce di un tono, hanno reso di due ottave l’intera scala, ma non hanno mantenuto l’ordine naturale degli accordi, perché l’intervallo di quinta viene a essere prima di quello di quarta, essendo stata aggiunta sotto la nota più bassa quella ancora più bassa di un tono. È chiaro invece che Platone aggiunge sì la nota, ma sopra la più alta [rispetto alla Teoria B]. Infatti nella Repubblica [617b4-7] egli dice che ciascuna delle otto sfere girando porta una Sirena che sta su di essa, e che queste Sirene cantano tutte emettendo ognuna un tono, e che da tutte si ha la fusione in un unico accordo. E queste Sirene rilassandosi intrecciano i loro divini fraseggi e decantano una melodia su otto note durante il sacro percorso circolare della loro danza: otto infatti erano anche quei primi termini dei rapporti doppi e tripli, venendo, nel computo, aggiunta l’unità a ciascuna delle due successioni. E gli antichi hanno trasmesso anche a noi le Muse, in numero di nove: otto che, come vuole Platone, si curano delle cose celesti; la nona che è chiamata a addolcire quelle terrene e che dal loro vagare e dalla loro discordia ferma la sregolatezza e la confusione che le posseggono.
33. Guardate allora se non sia l’Anima a guidare il cielo e le cose celesti con le melodie e i moti che le sono propri, dopo che è divenuta assai saggia e giusta; e se essa non sia diventata tale grazie ai rapporti armonici, le cui immagini si materializzano nelle parti visibili e viste dell’Universo, nei corpi: ma la sua prima e più prestigiosa facoltà è stata infusa nell’Anima in modo invisibile e la rende concorde con se stessa e docile, poiché tutte quante le altre sue parti sono in accordo con quella migliore e più divina.
Infatti il Demiurgo, che aveva ricevuto disordine e stonature nei movimenti dell’anima disarmonica e stolida essendo in discordia con se stessa, alcune cose le definì e le distinse, altre le ricondusse assieme e le coordinò valendosi di accordi e numeri: grazie a questi anche i corpi più sordi, pietre e pezzi di legno e cortecce di piante e ossa di animali e pungiglioni, se vengono mescolati e tra loro connessi ci danno statue mirabili alla vista e farmaci e strumenti di straordinaria potenza. Per cui anche Zenone di Cizio esortava i ragazzi a guardare i suonatori di aulo, perché si rendessero conto di quale suono emettessero corni, legni e canne e ossa, partecipando di razionalità e consonanza.
Mentre sostenere che tutte le cose assomiglino, secondo l’asserzione pitagorica, a un numero richiede un ragionamento, il fatto che a tutte le cose alle quali da differenza e dissomiglianza sia venuta una vicendevole comunione e consonanza, di cui siano la causa misura e ordine, in quanto partecipanti di numero e armonia, questo fatto, dico non è sfuggito neppure ai poeti, che chiamano concilianti e gentili le relazioni amichevoli, sgradevoli invece le persone ostili e i nemici, poiché il disaccordo è disarmonia. Colui che compose l’epicedio per Pindaro dicendo: «Era quest’uomo ben disposto verso gli stranieri e amico ai suoi concittadini», è chiaro che considerava la virtù atteggiamento conciliante, come lo stesso Pindaro in un certo luogo dice che Cadmo ascoltava il Dio che dispiegava verace musica.
I teologi di un tempo, che sono i più antichi tra i filosofi, mettevano strumenti musicali nelle mani delle statue degli dei, non perché credessero che essi sonassero la lira o l’aulo, ma perché ritenevano che nessuna cosa fosse tipica degli Dei quanto l’armonia e l’accordo. Proprio come è ridicolo chi cerca i rapporti di 3/2, 4/3, 2/1 nel giogo della lira, nella cassa di risonanza e nei pìroli (bisogna sì che questi elementi siano proporzionati l’uno all’altro nelle lunghezze e negli spessori, ma quell’armonia va ricercata nei suoni), così è verisimile che anche i corpi celesti e le ampiezze dei loro dischi e le velocità dei loro moti orbitali stiano convenientemente, come strumenti musicali, in rapporti stabiliti sia tra loro sia con il tutto, anche se la quantità della unità di misura ci è sfuggita; pur tuttavia è verisimile ritenere effetto di quei rapporti e di quei numeri, di cui il Demiurgo si servì, l’armonia e l’accordo dell’Anima con se stessa, per effetto dei quali sia, una volta trovatasi in esso riempì il cielo di innumerevoli cose buone, sia, con stagioni e mutamenti che hanno una loro misura organizzò le cose della terra in modo ottimo e bellissimo per la nascita e la sopravvivenza degli esseri che vi si generano.
[da Zanoncelli 1990: 147-151]
3. Probabilmente i nomi delle note risalgono ai sette pianeti che percorrendo il cielo ruotano attorno alla terra; [a] si afferma infatti che ogni corpo lanciato in una materia penetrabile e ad alta elasticità genera necessariamente rumori che dipendono, per grandezza e ambito sonoro o dalla sua mole, o dalla sua particolare velocità, o dalla zona [= materiale] in cui compie la sua corsa, zona che può essere molto elastica o, al contrario, rigida. Le stesse tre distinzioni si osservano chiaramente in rapporto ai pianeti, diversi l'uno dall'altro per grandezza, velocità e luogo, sfreccianti eternamente e senza sosta nel fluido etereo. Proprio per questo ebbero tutti il nome di astri, nel senso di privi di stasi e in eterna corsa, termini ai quali risalgono anche quelli di dio e di etere. [b]
Dal moto di Crono [Saturno], che è il più in alto rispetto a noi, fu chiamato ipate il suono più grave dell'ottava, perché ipaton significa 'alto'; e la nete ebbe invece nome dalla Luna, il più basso di tutti e il più vicino alla terra, perché neton vuoi dire 'basso'. Dai pianeti che si trovano accanto a loro la paripate deriva il suo nome da Zeus [Giove], al di sotto di Crono, e la paranete da quello al di sopra della Luna, cioè Afrodite [Venere]. [c] La mese dal pianeta che si trova esattamente al centro, cioè il Sole, situato in quarta posizione a partire dal basso come dall'alto; la mese nell'antico eptacordo distava di un tetracordo dai due suoni estremi, così come Elios [Sole], tra i sette pianeti, è il quarto a partire da tutte e due le parti, e si trova in posizione assolutamente centrale. Ai due la ti del sole Ares [Marte], che si colloca nella sfera tra Zeus ed Elios, ha dato il nome all'ipermese o lichanos; ed Ermes [Mercurio], in mezzo tra Afrodite [Venere] ed Elios, alla paramese. Approfondiremo, amica mirabile che ami la bellezza e la bontà, con maggior cura questo argomento e con ampie dimostrazioni geometriche e aritmetiche nei commentari che ti ho promesso prima. [d]
Testo di straordinario successo nei tempi moderni (cfr bibliografia).
XIII. Ad haec accedit, quod Pythagoras prodidit, hunc totum mundum musica factum ratione: septemque stellas inter coelum et terram vagas, quae mortalium geneses moderantur, motum habere si eurytmon, et intervalla musicis diastematis congrua, sonitusque varios reddere, pro sua quamque altitudine, ita concordes, ut dulcissimain quidem concinant melodiam, sed nobis inaudibilem, propter vocis magnitudinem, quam capere aurium nostrarum angustiae non possunt. | Considera che, come disse Pitagora, tutto l'universo è organizzato secondo il sistema musicale; che i sette astri che vagano tra il cielo e la terra e che regolano la vita dei mortali, hanno un movimento armonico e intervalli corrispondenti alle scale musicali, e che emettono suoni diversi secondo la propria altezza, e così consonanti che paiono una deliziosa melodia, ma che le nostre orecchie non sentono, troppo deboli per sostenere la maestosa grandezza di un tale concerto. |
Nam, ut Eratosthenes geometrica ratione collegit, maximum terrae circuitum esse stadiorum cclii millium: ita Pythagoras, quot stadia inter terram et singulas stellas essent indicavit. Stadium autem in hac mundi mensura id potissimum intelligendum est, quod Italicum vocant, pedum dcxxv: nam sunt praeterea et alia, longitudine discrepantia: ut Olympicum, quod est pedum dc; item Pythicum, pedum m. | Infatti, se Eratostene dimostrò con calcoli geometrici che l'intera circonferenza della terra misura 252 mila stadi, così Pitagora indicò quanti stadi c'erano tra la terra e ciascuno degli astri. E lo stadio a cui si fa riferimento in questa misurazione del mondo è quello detto italico, che è di 625 piedi; perché ce ne sono molti altri di diversa lunghezza, come lo stadio olimpico di 600 piedi, e il pitico di mille. |
Igitur ab terra ad lunam Pythagoras putavit esse stadiorum circiter cxxvi millia, idque esse toni intervallum; a luna autem usque ad Mercurii stellam, quae stilbon vocatur, dimidium eius, velut emitonion, hinc ad phosphoron, quae est Veneris stella, fere tantumdem, hoc est aliud emitonion: inde porro ad solem ter tantum, quasi tonum et dimidium. | Dunque, dalla terra alla luna, Pitagora pensava ci fossero circa 126 mila stadi, che danno l'intervallo di un tono; che dalla terra alla sfera di Mercurio, che si chiama stilbon, c'è mezzo tono, cioè un semitono; che da Mercurio alla sfera di Venere, che si chiama phosphoros, c'è circa lo stesso, cioè un semitono; che da questa sfera al sole ce n'è tre volte tanto, cioè un tono e mezzo. |
Itaque solis astrum abesse a terra tonos tres et dimidium, quod vocatur diapente; a luna autem duos et dimidium, quod est diatessaron. | Pertanto il sole è lontano dalla terra tre toni e un semitono, cioè l'intervallo che si chiama diapente; che è lontano dalla luna due toni e mezzo, cioè l'intervallo che si chiama diatessaron. |
A sole vero ad stellam Martis, cui nomen est pyrois, tantumdem iutervalli esse, quantum a terra ad lunam, idque facere tonon; hinc ad Jovis stellam, quae phaeton appellatur, dimidium eius, quod facit emitonion: tantumdem a Iove ad Saturni stellam, cui phainon nomen est, id est aliud emitonion: inde ad summum coelum, ubi signa sunt, perinde emitonion. | Dal sole alla sfera di Marte, che si chiama pyrois, c'è tanta distanza quanto dalla terra alla luna, cioè l'intervallo di un tono. Dalla sfera di Marte a quella di Giove, che si chiama phaethon, c'è mezza distanza, cioè un semitono. Dalla sfera di Giove a quella di Saturno, che si chiama phenon, c'è ancora un semitono. |
Itaque a coelo summo ad solem diastema esse diatessaron id est duorum tonorum et dimidii: ad terrae autem summitatem ab eodem coelo tonos esse sex, in quibus sit diapason symphonia [36]. | Da lì al Cielo ultimo c'è sempre l'intervallo di un semitono; che così, dal Cielo ultimo al sole, c'è l'intervallo di diatessaron, cioè di due toni e mezzo; e dallo stesso cielo al punto più basso della terra, ci sono sei toni, che dà l'intervallo di diapason. |
Praeterea multa, quae musici tractant, ad alias retulit stellas, et hunc omnem mundum enarmonion [38] esse ostendit. Quare Dorylaus scripsit, esse hunc mundum organum Dei; alii addiderunt esse idem to choreion, quia septeni sunt vagae stellae, quae plurimum moveantur. Sed, his omnibus subtiliter tractandis, hic locus non est: quae, si vellem in unum librum separatim congerere, tamen in angustiis versarer: quin potius (quoniam me longius dulcedo musica abduxit) ad propositum revertor. | Inoltre [Pitagora] ha messo in relazione con i vari astri molti altri aspetti relativi alla musica, e ha dimostrato che tutto l'universo è enarmonico: per questo Dorylaus ha scritto che questo mondo è lo strumento di Dio; altri hanno aggiunto che è il choreion (per la danza), per le evoluzioni varie e regolari dei sette astri erranti. Ma siccome tutto questo richiede dettagli minuziosi, non è questo il luogo per soffermarsi; anche se vi dedicassi un intero libro mi troverei ancora troppo stretto. Quindi, smettendo la digressione in cui mi ha portato il fascino della musica, torno al mio soggetto. |
[edizione Utet 2017]
1. Bisogna proprio che gli uomini abbiano fatto gran conto dei propri pareri, per stabilire, alcuni di essi, tre princìpi costitutivi del tutto: Dio, la forma esemplare, e la materia, come fa Platone con i suoi discepoli; e sostenere che quei princìpi sono incorruttibili e increati ed eterni; e affermare inoltre che Dio ha fatto il mondo non come creatore della materia, ma come un artigiano che segue un esemplare, in questo caso l’idea, servendosi della materia, detta hyle, la quale, secondo loro, avrebbe fornito a tutte le cose le cause della generazione; e stabilire che perfino il mondo è incorruttibile, e non è stato né creato né fatto.
Altri poi – come Aristotele ha creduto di dimostrare con i suoi discepoli – hanno posto due princìpi, la materia e la forma, più un terzo, detto efficiente, a cui spetterebbe di causare secondo la propria forza quanto gli passerebbe per il capo di intraprendere.
6. Perciò non solo non possiamo negare l’esistenza di un secondo cielo, bensì anche di un terzo, dal momento che l’Apostolo conferma con la testimonianza dei suoi scritti di essere stato rapito fino al terzo cielo [2 Cor 12.2]. Davide pone anche «i cieli dei cieli» [Sal 148.4] in quella schiera di esseri che lodano Dio cantando. Ispirandosi a Davide, i filosofi hanno supposto un movimento armoniosamente coordinato nelle sfere dei cinque pianeti, del sole e della luna, e spiegano che tutte le cose sono tenute insieme dalle loro orbite, o, meglio ancora, dalle loro sfere. E pensano che queste, vicendevolmente inserite come in un’unica circonferenza, ruotino in senso inverso, l’una con moto contrario all’altra, e che dalla foga di questa rotazione si sprigioni un suono indistinto, soave e delizioso, pieno di una raffinata melodia che incanta; e la ragione è che l’atmosfera, solcata da un moto tanto regolare, mescolando insieme i toni acuti con quelli gravi, produrrebbe concenti così diversi, pur nella loro proporzione armoniosa, da superare la bellezza di qualsiasi altra musica.
7. Se però, andando a fondo nella questione, provi a chiedere che ti dimostrino la realtà di questo fatto con le prove dei sensi e dell’udito, allora non sanno che cosa risponderti. Se fosse vero, allora come mai noi, che di solito avvertiamo anche i suoni più deboli, non riusciamo a sentire nulla mentre rimbomba il moto così enorme di quelle sfere, se l’orbita celeste, sulla quale è fissato, come dicono, il corso perpetuamente rotatorio dei pianeti ha una rivoluzione più celere e suscita un suono acuto, mentre l’orbita lunare suscita il suono più grave? ... Ma lasciamo pure a chi non è dei nostri, questioni che non riguardano né i nostri reali interessi né l’ordine narrativo delle pagine divine, che stiamo leggendo: quanto a noi, restiamo fedelmente devoti all’insegnamento delle Scritture celesti.
3. ... L’eresia è una valle, il gentilesimo è una valle, perché Dio è il Dio delle montagne, non delle valli. In fin dei conti, il giubilo è di casa nella Chiesa, invece nell’eresia e nel gentilesimo c’è solo il pianto e la tristezza. Per questo dice la Scrittura: «Ha disposto il pianto nella convalle» [Sal 83/84 7]. Perciò il popolo cattolico si è riunito da tutte le valli. [a] Non ci sono ormai più molte comunità, ma una sola è la comunità, una sola è la Chiesa. Anche qui da noi fu detto: «Si riunisca l’acqua da ogni valle», ed ecco costituita una comunità spirituale, un unico popolo: di eretici e di gentili si è riempita la Chiesa. Invece, il teatro è una valle, una valle è il circo, ove i cavalli cercano di salvarsi correndo gare truccate, ove avvengono lotte avvilenti e volgari, contese che sono un turpe sconcio. Eppure dai più assidui frequentatori del circo è venuta ad accrescersi la fede della Chiesa, e quotidianamente ne aumenta l’assemblea.
5. Si è riunita l’acqua da tutti i laghi e da tutti i fossati ... si è riunita affinché abbiano a trovar diletto non nelle canzoni funeste dei buffoni di palcoscenico, che illanguidiscono l’anima disponendola agli a razzi, bensì nel canto armonioso della Chiesa, nella voce e nella santa vita del popolo che si fonde all’unisono nell’inneggiare a Dio; affinché si allietino non nel contemplare i ricchi tappeti di porpora e i preziosi sipari dei teatri, bensì questa scenografica costruzione del mondo, questa fusione di elementi contrastanti per natura, il cielo librato come un ampio soffitto per avvolgere gli abitanti dell’orbe, la terra fatta per essere lavorata, l’aria che si espande, i mari circondati dalle loro sponde; si allietino nel contemplare questo popolo, organo musicale per le mani di Dio, in cui echeggiano le note della rivelazione divina e agisce all’interno lo Spirito di Dio ...
21. Dio, dunque, vide che il mare era un bene. E di fatto questo elemento è splendido a vedersi, sia quando biancheggia per il sollevarsi delle masse d’acqua e delle creste ondose, e gli scogli spumeggiano di nivei spruzzi, sia quando, dolcemente increspandosi la sua superficie allo spirare di brezze più miti, acquista il cupo colore cangiante, proprio della serena bonaccia, che spesso abbacina gli occhi di chi lo contempla da lontano, allorché non sconvolge i lidi circostanti con la violenza dei suoi marosi, ma li saluta come abbracciandoli con sereni amplessi – e con che suono gradito, con che giocondo mormorio, con che soave e armonioso rimbalzare dell’onde! ...
23. ... Perciò il mare è rifugio alla temperanza, palestra di vita mortificata, solitudine austera, porto sicuro, tranquillità nel secolo, vita frugale nel mondo, e inoltre incentivo al raccoglimento per le persone fedeli e consacrate a Dio, sì che le loro salmodie rivaleggiano col mormorar dell’onde che sciabordano lievemente, e le isole echeggiano col loro applauso alla danza composta dei flutti santi, risuonando degli inni dei cristiani. E come potrei descrivere compiutamente la bellezza del mare, che il Creatore vide? Che altro devo aggiungere? Che cos’è il canto del mare, se non un’eco dei canti dell’assemblea cristiana? Perciò è molto giusto che la chiesa sia paragonata al mare: in principio, all’entrare della folla fedele, essa rigurgita da tutti gli ingressi delle sue onde e poi, mentre il popolo prega tutto insieme, scroscia come il riflusso di onde spumeggianti, quando il canto degli uomini, delle donne, delle vergini, dei ragazzi fa eco ai responsori dei salmi come l’armonioso fragore dell’onde.
33. Gli stregoni non hanno alcun potere, là dove, ogni giorno, si canta a voce spiegata l’inno di Cristo.
36. ... Chi mai infatti, purché abbia un cuore, non arrossirebbe di chiudere il giorno senza ripetere i salmi, se perfino uccelli piccolissimi accompagnano lo spuntar dei giorni e delle notti con la loro abituale pietà e con i loro canti soavi?
37. ... Ma non ho nessun dubbio che sia impossibile a chi è rimasto sveglio fra i pesci [= quando vi parlavo dei pesci], creature mute, prender sonno in mezzo agli uccelli, creature canore, sentendosi invitato a star sveglio da un simile diletto.
38. ... Non c’è convenienza a indugiare fra creature abituate al piacere della velocità. Perciò le mie parole, che sono insolite e fuori di mano in un simile genere di trattazioni, echeggiando risuonino del canto sonoro degli uccelli.
39. Ma dove prenderò, per ispirarmi, i canti del cigno, che dilettano anche nell’improvvisa terribilità della morte imminente? Dove prenderò quelle naturali cadenze cantilenanti, per cui anche le sonore paludi echeggiano di canti piacevolissimi, tanto son belli? Dove, il verso del pappagallo e la soavità dei merli? Oh, se almeno cantasse l’usignuolo per svegliarmi dal sonno! Quest’uccello, infatti, suole indicare l’alba del giorno che nasce, e spandere per l’aria del mattino una più intensa letizia. Ma se tuttavia manca la dolcezza della voce di questi uccelli ecco il gemito delle tortore e il roco tubar delle colombe, ecco ancora la cornacchia chiamare a gran voce la pioggia ...
76. Quant’è dolce poi anche la cantilena che vien fuori dalla gola minuscola della cicala, al cui canto si fendono perfino gli alberi a mezzo dell’estate, allorché i calori del meriggio rendono le cicale più canterine, e quanto più pura è l’aria che a quell’epoca inspirano, tanto più terso ne risuona il canto. E nemmeno le api emettono un suono troppo sgradevole; infatti esse in quel ronzante mormorar della voce hanno una dolcezza gradita, e si direbbe che noi l’abbiamo imitata con una certa lentezza, per la prima volta, col suono spezzato delle trombe, di cui non c’è fragore più adatto per incitare gli animi al valore. E questa è la loro singolare caratteristica, perché si dice che siano senza polmoni e perciò prive della facoltà e degli organi della respirazione, ma che vivano d’aria.
85. Anche la notte ha le sue musiche, con cui suole allietare le veglie degli uomini; perfino la civetta ha i suoi canti. Ma che cosa dire dell’usignuolo, che, come sentinella sempre desta, mentre riscalda in grembo le uova, proteggendole come in un abbraccio, mitiga con la soavità del suo canto l’insonne travaglio della lunga notte, talché a me pare che la sua massima tensione sia quella di dar vita alle uova, che sta covando, non meno con la grande dolcezza della melodia che col tepore del suo corpo. Imitandone l’esempio, la donna meschinella, ma onesta, mentre muove con le sue mani la macina scalpellata perché ai suoi bambini non venga a mancare il pane, lenisce col canto notturno la povertà che la fa immalinconire, e sebbene non possa imitare la dolcezza dell’usignuolo, ne imita tuttavia il premuroso affetto.
88. Ma nella notte si sente anche il canto del gallo – e non solo gradito, ma anche utile, perché il gallo, come un amabile nostro coinquilino, sveglia chi ancora dormicchia, e avverte chi è pronto, e consola chi è in viaggio, attestando solennemente col suo segnale sonoro che la notte ha ormai fatto il suo corso. Al suo canto, il brigante lascia l’imboscata, e perfino la stella del mattino, ridestandosi, si leva su in cielo e l’illumina; al suo canto, il marinaio che non ha preso riposo sgombra la sua malinconia, e comincia a placarsi ogni tempestosa burrasca, che ai venti della sera si era d’un tratto levata; e, al sentirlo, il cuore religioso balza alla preghiera, e riprende la lettura interrotta; al suo canto, infine, anche la Pietra della Chiesa [= Pietro] lava nel pianto la sua colpa, contratta col rinnegare Cristo, prima che il gallo cantasse. Al canto del gallo torna in tutti la speranza, si allevia l’affanno degli infermi, si attutisce il dolore delle piaghe, e si placa l’arsura della febbre ...
61. ... I nervi, poi, sono come l’organo dei singoli sensi, e, dipartendosi dal cervello come altrettante corde di strumenti musicali, giungono alla sede delle loro singole funzioni, attraversando le parti del corpo ...
62. L’udito ha poi importanza rilevantissima, e una utilità press’a poco conforme a quella della vista. Per questo le orecchie sono alquanto prominenti, sia per conferire un decoroso ornamento al viso, sia per accogliere tutte quelle piccole impurità e gocce di sudore che scorrono dal capo, e al tempo stesso perché la voce, ripercotendosi nella loro concavità, possa entrarvi senza offendere gli interni meati. E se non fosse così, chi non resterebbe stordito a ogni suono un po’ più forte del normale, se già, pur con tutte queste precauzioni difensive, spesso ci sentiamo assordati quando ci colpisce un improvviso frastuono? È poi da dire che le orecchie sembrano protendersi come altrettanti baluardi contro il rigore del freddo e l’intensità del caldo, perché non succeda che il freddo penetri nei loro condotti aperti, né li bruci l’ardore eccessivo. Quanto poi all’interno labirinto auricolare, esso facilita e disciplina una certa regolarità del suono, poiché attraverso le cavità auricolari si forma come una cadenza, per cui il suono della voce, che vi è entrata, si scandisce in certo qual modo ritmicamente. Inoltre l’esperienza stessa ci insegna che le cavità auricolari sono capaci di tenere a lungo i suoni ricevuti, poiché nelle cavità montane o presso le rupi solitarie o nelle anse dei fiumi la voce si sente più soave, e ne rimbalza l’eco che piacevolmente risponde. E le stesse impurità dell’orecchio non sono prive di utilità, perché legano la voce, affinché ne duri più a lungo il ricordo e la soavità dentro di noi.
67. ... La voce, poi, viene trasportata come dalle ali del vento e, volando nel vuoto, sferza l’aria col suono suo vigoroso, e ora scuote, ora placa l’animo di chi ascolta, ne mitiga l’esasperazione, ne rinfranca lo sgomento, ne consola il dolore. La sonorità della voce ci sia perciò pure in comune con gli uccelli; ma coloro che si servono dei suoni vocali conforme alla ragione, non possono certo averne in comune l’uso con tutti gli animali irragionevoli. Infatti, noi abbiamo perfino i sensi in comune con tutti gli altri animali, però gli altri esseri viventi non li adoperano con la stessa nostra industriosità. Anche la giovenca alza gli occhi al cielo, ma non capisce che cosa vede; li alzano le fiere, li alzano gli uccelli, tutte le bestie possono liberamente vedere, ma solo nell’uomo è insita la coscienza, che dà voce alle cose che vede. Egli contempla con gli occhi il levarsi e il tramontare degli astri, vede l’ornamento del cielo, ammira le rotazioni delle stelle, sa distinguere anche la diversa intensità del loro fulgore, e sa quando spunta Vespero e quando Lucifero [= Venere], e perché l’uno sia la stella della sera, l’altro quella del mattino; conosce quali siano i movimenti di Orione, quali le fasi decrescenti della luna, e come il sole conosca il suo tramonto, e come conservi le orbite del suo percorso con un ordine immutabile.
Anche gli altri animali odono, ma chi, all’infuori dell’uomo, distingue i suoni che ode? Soltanto l’uomo, fra tutte le specie terrestri, sa raccogliere insieme i segreti della sapienza con l’udito, con la meditazione e col senno, egli che può dire: «Ascolterò quanto dirà in me il Signore Iddio» [Sal 84/85 9]. E questa è dote preziosissima, che l’uomo diventi strumento della voce di Dio e pronunzi con le labbra del corpo una rivelazione venuta dal cielo: «“Grida!” “Che cosa griderò?” “Ogni carne è come erba”» [Is 40.6]. L’uomo sentì quello che doveva dire, e gridò. Si tengano pure il loro senno quegli scienziati che misurano con la bacchetta gli spazi celesti e terrestri, si tengano la loro sagacia, di cui il Signore dice: «Io riproverò la sagacia dei sapienti» [Is 29.14, 1 Cor 1.19]. E nemmeno io parlerò qui delle clausole ritmiche del discorso o del ritmo e della melodia musicale, ma vi sto determinando quella sapienza, di cui l’autore ispirato dice: «Mi hai manifestato le verità difficili e segrete della tua sapienza» [Sal 50/51 8].
[edizione Bompiani 2001]
I. [11] ... anche per il sussurro delle brezze del bosco si sprigionava una modulazione di suono con un certo sfregamento di effetto musicale. Infatti, le cime più svettanti degli alberi alti, estese fino a tale punto, riecheggiavano di un suono acuto; tutto quello che, invece, confinava con il suolo e vi era vicino, con rami inclinati in basso, era un suono grave e roco a scuoterlo. I fusti di media altezza invece, grazie ai loro contatti, creavano un concento di armonie doppie e di 3/2, nonché di 4/3, e anche di 9/ 8, senza differenziazione di elementi di congiunzione, benché intervenissero dei semitoni. Così accadeva che quel bosco risuonasse dell'intera armonia e del canto dei celesti, con la congruenza delle modulazioni. [12] E mentre il Cillenio spiegava questo, Virtù apprese che in cielo le sfere con pari ritmi o producono concenti o accompagnano gli altrui. E non c'era da meravigliarsi che il bosco di Apollo mostrasse una tale armonia calcolata , dal momento che era lo stesso Delio a regolare nel Sole anche le sfere celesti, e questo era il motivo per cui egli era chiamato qui Febo, là Chioma-d'Oro;
[27] ... la Terra si era illuminata di fiori ... I corpi celesti superiori, poi, e i sette pianeti con suoni armoniosi levavano un concento di una certa soave melodia, con un suono più dolce del consueto, poiché si erano accorti in anticipo che stavano giungendo le Muse: ed esse a loro volta si disposero, singolarmente, nelle sfere destinate a ciascuna, secondo dove ognuna aveva riconosciuto il suono della propria modulazione; Urania, infatti, occupò la sfera più esterna del firmamento stellato, che girava velocemente, echeggiando di un suono acuto; [28] Polinnia cominciò a regolare la sfera di Saturno, Euterpe quella di Giove; Erato, entrata nella sfera di Marte, prese a controllarla; Melpòmene quella mediana, dove il Sole abbellisce l'universo con luce fiammante; Tersicore si unì all'oro di Venere; Calliope abbracciò il giro del Cillenio [Mercurio], Clio la sfera più vicina, ossia pose la sua residenza nella Luna, la quale invero risuonava di note gravi, con modi musicali più rochi. Solo Talia invece, abbandonata, se ne stava seduta sul grembo stesso di un campo in fiore , poiché il suo mezzo di trasporto, il cigno, non sopportando il peso e nemmeno di spiccare il volo, si era diretto verso gli stagni che lo avevano visto crescere.
II. [145] ... insieme con Filologia. La precedette là, mentre saliva, la processione delle Muse che cantava in coro ... [156] ... tutto ciò che intercorre dal circolo della Luna fino alla Terra si distingue per la separazione di uno spazio proprio ... [169] Allora i trasportatori, afferrata la lettiga della dea, la sollevarono con grande sforzo. Ma una volta che, sostenuti dalla leggerezza dell'aria, furono saliti di 126 mila stadi ed ebbero completato il primo suono dei toni celesti, la vergine, dopo essere entrata nel circolo lunare, supplicata da vapori sacrificali adatti a una dea, contemplò da vicino un certo corpo sferico e soffice [la Luna] che, come uno specchio fulgidissimo, rifletteva i raggi dello splendore gettatole addosso ... [171] Quindi, percorrendo la metà dello spazio impiegato per salire fino alla Luna, pervenne al circolo del Cillenio [Mercurio]. E una volta percorso tale semitono ... [181] Da qui fu affrettata la salita e si volò per lo spazio di un semitono fino al circolo di Venere ... [182] Ben presto ebbe il desiderio di raggiungere il cerchio del Sole e invero la salita, che si stimava di un tono e mezzo, era resa più faticosa di una volta e mezzo ... [194] ... ricevette l'ordine di passa attraverso le sedi degli dei, ma quando ella si fu sollevata di un semitono [a] la trattenne il circolo Piroide [Marte] in cui era il più grande dei figli di Giove ... [196] Una volta superato questo, giacché non le era costato fatica superare l'intervallo di un [altro] semitono, giunsero agli splendori del pianeta Giove, il cui circolo risuonava della [sua] melodia ... [197] Da qui ella attraversò anche questo circolo e, levatasi in alto di un intervallo simile, scorse il freddissimo creatore degli dei [Saturno] irrigidito dal gelo e con brine nivali. Ora quel medesimo orbe, attorno cui ella si sforzava di girare, risuonava di una melodia dorica ... [198] Di là con i più grandi sforzi si innalzarono di un grado e mezzo nel loro itinerario. Infatti nello spazio di un tono e mezzo si giunse al globo della sfera celeste e della rotondità incastonata di stelle che abbraccia l'universo. [199] E così affaticati per l'ascesa di sei toni [b] e per l'esaurita spossatezza degli stadi percorsi, quando si resero conto che ciò che avevano attraversato consuonava nella perfezione di una modulazione completa, ristorati dopo sforzi immensi si riposarono un poco.
[edizione Marzi 1990]
I.1. ... il potere discriminante dell'orecchio, la cui potenza percettiva coglie i suoni in modo da impegnarsi in un giudizio e riconoscerne le differenze: e non solo, ma addirittura ne trae diletto se i modi sono gradevoli e armoniosi, ne soffre se sono senz'ordine e coerenza. Ne deriva che delle quattro discipline matematiche, tre hanno per oggetto la ricerca della verità, mentre la musica non soltanto è connessa con la speculazione, ma anche con la moralità. Nulla è infatti così strettamente umano quanto l'abbandonarsi a dolci armonie e il sentirsi contratti dalle discordanti: ciò non si limita a gusti singoli o a singole età, ma abbraccia le tendenze di tutti; e così i bambini, i giovani e pur anche i vecchi sono rivolti alle armonie musicali in virtù di naturale e per così dire spontanea disposizione, in modo che non esiste un'età che si sottragga al fascino di una dolce melodia. Quindi si può anche comprendere quel che non senza motivo ebbe a dire Platone, che cioè l'anima del mondo è in rapporto stretto con l'armonia musicale [a] ...
I.20. Nicomaco riferisce che da principio la musica fu tanto semplice che le bastavano quattro corde: ciò perdurò fino ad Orfeo ... Di tale tetracordo Mercurio è considerato l'inventore. Poi Torebo [= Tirreno], re dei Lidi, figlio di Atys, aggiunse la quinta corda e Hyagni di Frigia vi aggiunse in seguito la sesta. La settima corda fu opera di Terpandro di Lesbo, in similitudine parallela con i sette pianeti. Tra queste (corde) la più grave fu denominata hypate ['più distante'], perché più grande e più importante, per lo stesso motivo per cui chiamano Giove anche Hypaton. Con identico appellativo chiamano anche il Console, per l'eccellenza dell'autorità. Quella corda fu attribuita a Saturno per la lentezza del moto vibratorio e la gravità del suono ...
I.27. A proposito dei precedenti tetracordi aggiungerò questo soltanto, che cioè dall'hypate meson fino alla nete [mi2–mi3] si realizza come un esempio dell'ordine e della determinazione celeste. Infatti l'hypate meson è attribuita a Saturno e la parhypate è rapportata alla sfera di Giove. La lichanòs meson fu considerata in parallelo con Marte, la mese con il Sole, la trite synemmenon con Venere, la paranete synemmenon con Mercurio. La nete, poi, è un esempio della sfera lunare. Marco Tullio [Cicerone], dal canto suo, dà un ordine tutto contrario. Infatti nel sesto libro del De Republica così dice:
Cicerone dunque sostiene che la terra è quasi un silenzio, per effetto della sua immobilità. Successivamente assegna alla Luna il suono più grave, il più vicino al silenzio, di modo che alla Luna fa corrispondere la proslambanomene [b], a Mercurio l'hypate hypaton, a Venere la parhypate hypaton, al Sole la lichanòs hypaton, a Marte l'hypate meson, a Giove la parhypate meson, a Saturno la lichanòs meson, all'ultimo cielo la mese ...
II. 2. Dunque, per prima cosa, chi si pone a parlare di musica deve dire intanto quante siano le specie di musica nelle definizioni date dagli studiosi. Esse sono tre. La prima è appunto la musica del mondo, la seconda è quella pertinente all'uomo, e la terza è quella che si realizza al suono di strumenti, come cetre, tibie ed altri, posti al servizio del canto.
Vediamo dapprima quellà che è la musica del mondo: essa deve essere colta soprattutto in quei fenomeni che si osservano nel cielo stesso, nell'insieme degli elementi o nelle varietà delle stagioni. Come è possibile che la così veloce macchina del cielo si muova con tacito e silenzioso corso? Sebbene non giunga al nostro udito quel suono, ciò che necessariamente deve dipendere da molte cause, non potrà tuttavia un movimento così veloce di corpi tanto grandi non eccitare suono alcuno quando si tenga conto che i corsi degli astri, in modo particolare, sono tra loro connessi con tale armonia che nulla si possa intendere ugualmente organizzato, nulla che sia allo stesso modo intimamente ordinato. Infatti comunemente si sostiene che alcuni (corsi) sono più alti, altri più bassi, e inoltre tutti sono posti in giro da eguale sollecitazione in modo che, pur attraverso disuguaglianze diverse, l'ordine dei corsi sia condotto a valida stabilità. Ne deriva che l'ordine stabile della modulazione non può essere disgiunto da questo celeste rivolgimento. E se una segreta armonia non coordinasse le diverse e contrarie potenze dei quattro elementi, come potrebbero essi fondersi in un unico armonico organismo? Ora, tutta questa diversità genera varietà di stagioni e di frutti, tale tuttavia da configurare un unico complesso, quello dell'anno; per cui, se tu eliminassi con l'animo e col pensiero qualcuno di questi elementi che dispensano alle cose una così grande varietà, tutto perirebbe e non conserverebbe, per così dire, alcunché di armonico. E come nelle corde gravi c'è un termine del suono, in modo che la gravità non giunga fino al silenzio, e nelle acute c'è pure un limite all'altezza, in modo che le corde troppo tese per l'esiguità del suono non si rompano, conformandosi tutto secondo convenienza; così anche nella musica del mondo riconosciamo che nessun elemento può essere così smodato da annichilire l'altro in virtù della propria eccessiva potenza. In verità, qualunque esso sia, o reca i propri frutti o presta aiuto agli altri perché li procurino. Infatti, ciò che l'inverno congela, la primavera scioglie, l'estate asciuga col calore, l'autunno porta a maturazione; e le stagioni a vicenda o recano esse stesse i propri frutti o provvedono a che siano le altre a recarli; ma di ciò si dovrà parlare più avanti con maggior cura.
La musica umana, poi, la percepisce chiunque discenda in se stesso. Che cosa è infatti che associa al corpo quella incorporea vivacità del pensiero se non una certa combinazione, un equilibrato rapporto tra voci gravi e acute a realizzare una consonanza? Che altro c'è che congiunge tra loro le parti di una stessa anima, la quale, come vuole Aristotele, è informata da razionale e irrazionale? E che cosa è che mischia gli elementi del corpo o che congiunge le sue parti con valido adattamento? Anche di questo discuterò più avanti.
Terza è la musica che si dice strumentale. Questa si realizza per effetto di tensione, come negli strumenti a corde, o per mezzo dell' aria, come nelle tibie o in quelli che sfruttano il movimento dell'acqua, o per mezzo di una percussione, come in quelli che, strutturati a forma di concavità bronzee, vengono colpiti: ne derivano suoni diversi. Pertanto sembra opportuno, in questo lavoro, trattare come prima cosa la musica strumentale. Basta quindi con l'introduzione, poiché ora si debbono esporre i principi elementari della musica.
vi.1 ... non vogliamo affermare nulla di nostro capo, ma bensì esporre, secondo le nostre forze, ciò che i dottori hanno visto per mezzo di una santa intuizione e ciò che hanno insegnato riguardo agli spiriti beati ...
vii.1. Accettando questa distribuzione delle sante gerarchie, noi affermiamo che ogni nome dato alle intelligenze celesti é il segno delle proprietà divine che le distinguono. Così, secondo le testimonianze dei dotti ebrei, la parola Serafini significa luce e calore, e la parola Cherubini, pienezza di scienza e sovrabbondanza di saggezza.
Conveniva, senza dubbio, che la prima gerarchia celeste [Serafini] fosse formata dai più sublimi spiriti; poiché tale é l'ordine che essi occupano al di sopra di tutti gli altri, poiché la Divinità, per una relazione immediata e diretta, lascia fluire sovr'essi più puramente ed efficacemente gli splendori della sua gloria e le conoscenze dei suoi misteri ...
Il nome di Cherubini, mostra che questi sono chiamati a conoscere ed ammirare Dio, a contemplare la luce nel suo splendore originale e la bontà increata nei suoi più splendidi irraggiamenti; che, partecipando della sapienza, si foggiano a sua somiglianza, e spandono, senza invidia, sulle essenze inferiori, l'onda dei doni meravigliosi che hanno ricevuto.
Il nome di nobili ed augusti Troni significa che sono completamente liberati dalle umilianti passioni della terra ...
2. ... Esse [schiere] sono ugualmente contemplative ... sono inondate di una luce che sorpassa ogni conoscenza spirituale ... Esse sono anche perfette, non perché sappiano spiegare i misteri nascosti sotto la varietà dei simboli, ma perché nella loro alta ed intima unione con la Divinità, acquistano a contatto con le opere divine, quella scienza ineffabile che possiedono gli angeli ... imparano da Dio stesso le alte e sovrane ragioni delle opere divine ...
4. Tale é, per quanto mi é dato sapere, la prima gerarchia dei cieli. Ordinata a guisa di un cerchio intorno alla Divinità, la circonda immediatamente, e tra le gioie di una perenne conoscenza, esulta nella meravigliosa fissità di quell'entusiasmo che trasporta gli angeli.
Essa gioisce delle sue molte, chiare e pure visioni; essa brilla sotto il dolce riflesso dello splendore infinito; essa è nutrita di un alimento divino, insieme abbondante (perché nella sua prima distribuzione) e realmente uno e perfettamente identico, a causa della semplicità dell'augusta sostanza. Per di più essa ha l'onore di essere associata a Dio e di cooperare alle sue opere, ridisegnando, nella misura del suo potere, le perfezioni e le azioni divine. Essa conosce sovreminentemente alcuni ineffabili misteri e, secondo la sua capacità, entra a parte della scienza dell'Altissimo. Infatti la teologia ha insegnato all'umanità gli inni che cantano questi sublimi spiriti ed il luogo donde emana l'eccellenza della luce che li inonda: poiché, per parlare il linguaggio terrestre, qualcuno di loro ripete col fragore delle grandi acque: Benedetta sia la gloria di Dio dal santo luogo ov'ei risiede! (Ezechiele 3.12), ed altri fanno risuonare questo maestoso e celebre cantico: Santo, santo, santo è il Signore degli eserciti; tutta la terra é piena della sua gloria! (Isaia 6.3).
Ma noi abbiamo spiegato, a nostro modo, questi sacri canti dei cieli, nel trattato degli inni divini, in cui ci sembra di aver chiarita sufficientemente questa materia [altro testo del Corpus dove trattano le cerimonie del culto]. Qui ci contentiamo di ricordare che la prima gerarchia, iniziata dalla infinita carità alla conoscenza dei divini misteri, li trasmette beneficamente alle gerarchie inferiori. Per dir tutto in una parola, essa insegna loro che la maestà terribile, degna di ogni lode e al disopra di ogni benedizione, deve essere conosciuta e glorificata quanto é possibile dalle intelligenze alle quali il Signore si comunica, perché, secondo la testimonianza della Scrittura, esse sono per la loro sublimità divina, come augusti e santi luoghi ove la divinità riposa. Essa insegna loro che l'unità semplicissima, sussistendo in tre persone, abbraccia nella cura della sua provvidenza la intera creazione, dalle più nobili essenze dei cieli alle più vili sostanze della terra; perché é l'eterno principio e la causa di tutte le creature, e tutte le stringe in un vincolo meraviglioso, ineffabile.
I. ... Da ciò, dunque, si deduce quanto sia gradito a Dio il dovere di cantare, se fatto con mente attenta, quando in questo imitiamo i cori degli angeli, che si dice cantino senza cessare di cantare le lodi del Signore. Senza dubbio la compagine e il naturale accordo di codesto mondo contiene un’armonica proporzione. Infatti, se tu esaminassi come ogni altra cosa gioisca mentre il sole sale più in alto, e come evidentemente l’aria diventi più pura, e il volto della terra si rivesta della bellezza dei fiori, e il mare si plachi dal suo impeto, capiresti che ogni creatura, unita da una mirabile armonia, si accorda con se medesima. Con quanta congruenza l’uomo stesso si adatti a questa disciplina non potrà non comprenderlo colui che avrà capito di avere tutte le cose che di solito si attribuiscono a quest’arte. Infatti egli ha in gola un condotto per cantare, nel petto una sorta di cetra, distinta per così dire in corde dalle fibre del polmone, e nell’alterna mutazione delle vene e delle pulsazioni l’elevarsi e l’abbassarsi (della voce).
Una mente saggia potrà facilmente riconoscere che tutte queste cose si accordano tra loro, al punto da non poter dubitare che la disciplina musicale manifesta in tutte le cose che sono state create la Sapienza del Creatore, e pertanto ogni creatura deve lodare con un canto senza fine il proprio Autore, poiché tramite il profeta si esorta: «Lodate il Signore dai cieli» [Sal 148] e via di seguito fino alla fine del salterio. Nei quali tre salmi [gli ultimi tre], per così dire tutti partecipi di questa disciplina [la musica], nessuno è esonerato dall’essere spronato a ripetere degne lodi di Dio.
Un poemetto in cui il poeta in sogno accede all'olimpo dove si celebra il matrimonio di Mercurio e Filologia, turbato dalla sparizione di Mercurio condannato dai Cistercensi (chiaro riferimento alla condanna di Abelardo). Il poemetto è di 59 strofe. A parte le prime 2 strofe introduttive in cui il poeta parla in prima persona, seguono tre gruppi di 19 strofe. Il numero 19 è il risultato della somma delle prime 5 cifre della serie Platonica: 1 2 3 4 9, cioè l'unità con doppio triplo, quadrato e cubo. Sembra che la struttura poetica segua cioè lo schema:
Non è possibile dire se questa struttura sia un caso. Certo è abbastanza insolito che si ripeta tre volte.
Il poeta sogna | |
1. Sole post Arìetem | Taurum subintrante novo terre faciem | flore picturante pinu sub florigera | nuper pullulante membra sompno foveram | paulo fessus ante |
Il Sole, dopo l'Ariete, raggiunge il Toro: [a] nuovi fiori ornano la faccia della terra. Sotto un albero in fiore appena sbocciato abbandonavo al sonno le membra, ormai stanco. |
2/5. Nemus michi videor quoddam subintrare cuius ramus ceperat omnis flosculare quod nequivit hyemis algor deturpare nec a sui decoris statu declinare |
Mi sembrava d'insinuarmi in un bosco dove ogni ramo aveva cominciato a fiorire, dove il freddo dell'inverno non poteva corrompere o alterare il suo stato di bellezza. |
Il bosco sonoro (2) | |
3/9. Circa ima nemoris aura susurrabat cuius crebro flamine nemus consonabat et ibidem gravitas rauca crepitabat sed appulsu melico tota resultabat |
In basso nella foresta il vento mormorava, e della continua brezza il bosco risuonava [b] e lì i toni rochi e gravi rimbombavano, ma ogni impulso risultava musicale. |
4/13. Circa partis medie medium ramorum quasi multitudinem fingens tympanorum personabat melicum quiddam et canorum et extremo carmine dulcius olorum |
Tra i rami centrali in mezzo al bosco, sembrando quasi una moltitudine di timpani, risuonava qualcosa di melodioso e armonioso ma più dolce dell'ultimo canto del cigno. [c] |
armonia (4) | |
5/17. Epytrita, sexcupla, dupla iunctione fit concentus consona modulacione et, ut a canentibus fit in Elycone totum nemus resonat in proporcione |
Dall'unione di epitrita [4/3], sestupla [3/2] e doppia [2/1] viene una consonanza d'armoniosa modulazione, e come quando si canta in Elicona [d] tutto il bosco risuona secondo proporzioni. |
6/21. Nam ramorum medium flabro quaciente et pulsu continuo ramos inpellente mixtim semitonio interveniente sonat dyatessaron, sonat dyapente |
Così, battendo il vento nel mezzo dei rami, agitati quei rami da impulso costante, misto al semitono prodotto risuona la quarta, risuona la quinta. |
7/25. Set in parte nemoris eminenciore resonabat sonitu vox acuciore ut pars summa medie cum inferiore responderet mutuo concordi tenore |
Ma nella parte superiore del bosco si sentiva una voce più acuta così che la più alta insieme alla più bassa si univa al tenor in reciproca consonanza. |
8/29. Hic auditur avium vox dulcicanarum quarum nemus sonuit voce querelarum sed illa diversitas consonanciarum prefigurat ordinem septem planetarum |
Qui si sentivano voci d'uccelli con dolci canti del cui gorgheggio il bosco risuonava: proprio questa diversità di consonanze prefigura l'ordine dei sette pianeti. [e] |
un prato (1) | |
9/33. Nemoris in medio campus patet latus violis et alio flore purpuratus quorum ad fragranciam et ad odoratus visus michi videor esse bis renatus |
In mezzo al bosco appare un ampio prato porporato di violette e altri fiori al cui profumo e alle cui fragranze il mio aspetto sembra essere quasi rinato. |
a. Il Sole entra nel Toro circa il 12 aprile. — b. I riferimenti musicali nel bosco sono mutuati da Capella (De nuptiis 1.11). — c. Oltre ad Ovidio (Her. 7.2) il mito del cigno è anche in Bernardo Silvestre (Cosmographia 1.3.449–50). — d. Il luogo dove abitano le muse. — e. Anche l'armonia dei pianeti è in De nuptiis 1.12. |
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Un palazzo (3) | |
10/37. Stat ibidem regia columpnis elata cuius substat iaspide basis solidata paries iacinctinus, tecta deaurata intus et exterius tota picturata |
C'era un palazzo innalzato su colonne il cui pavimento posava saldamente sul diaspro, le pareti di zaffiro, il tetto d'oro, dentro e fuori tutto dipinto [a] |
11/41. Coniectare ceperam ex visa pictura quod divina fuerat illa celatura hoc Vulcanus fecerat speciali cura totum sub involucro, totum sub figura |
Cominciai a capire dalla decorazione che vedevo che la costruzione era opera divina. Vulcano l'aveva eseguita con una cura speciale tutto [lo mostrava]: la struttura come il disegno. |
12/45. Hic sorores pinxerat novem Elyconis et celestis circulos omnes regionis et cum hiis et aliis eventum Adonis et Gradivi vincula et sue Dyonis |
Qui aveva dipinto le nove sorelle di Elicona e tutte le sfere della regione celeste e tra questi ed altro la morte di Adone e i legami con Gradivo [Marte] e con la sua Dione. [b] |
L'empireo con Mercurio (9) | |
13/49. Ista domus locus est universitatis res et rerum continens formas cum formatis quas creator optimus qui preest creatis fecit et disposuit nutu bonitatis |
Questa casa è luogo dell'universo contiene la cosa e le forme di quanto è formato [c] che il creatore ottimo che preesiste alla creazione fece e dispose come manifestazione di bontà. |
14/53. Hic intus multimodum audio concentum ut dearum crederem fieri conventum nam in suo genere omne instrumentum sonat, et leticie facit argumentum |
All'interno sento tal concerto polifonico da farmi immaginare un consesso di divinità, infatti ciascun strumento secondo la sua natura suona ed è causa di letizia. |
15/57. Illic quem audieram strepitus vocalis rerum est concordia proporcionalis nam ut sibi consonat vox instrumentalis sic est nexus musicus in rebus equalis |
Lo strepito delle voci che ho sentito in quel luogo è la proporzionata concordia delle cose. Così, come la voce degli strumenti è in sé consonsante simile è il legame musicale fra le cose. |
16/61. Intus regem conspicor alte residentem et de more regio sceptro innitentem et ipsius lateri coniugem herentem hunc et illam subditis rebus disponentem |
All'interno vidi il re seduto in alto con lo scettro tenuto in modo regale e a lato sua moglie vicina: sia lui che lei amministravano il mondo sottostante. [d] |
17/65. Per hunc rebus insitus calor figuratur quamvis hic et aliud per hunc innuatur per hanc tota machina mundi temperatur arbor fructus parturit, terra fecundatur |
Per lui si manifesta il calore dentro la materia, benché con lui si mostra questo e altro e con lei l'intera macchina del mondo è temperata, gli alberi producono frutti, la terra è resa fertile. |
18/69. Innuba de vertice regis Pallas exit quam sibi collaterans firmo nexu nexit illa peplo faciem circumquaque texit nec nisi ad patrios visus se detexit |
Pallade esce vergine dalla testa del re che con fermo legame [il re] tenne unita a sé. Ella si cucì un velo tutt'intorno alla figura e non si svelò il volto se non ai padri. [e] |
19/73. Hec mens est Altissimi, mens divinitatis que nature legibus imperat et fatis incomprehensibilis res est deitatis nam fugit angustias nostre parvitatis |
Lei è la mente dell'altissimo, la mente della divinità che controlla le leggi della natura e del destino. La realtà della divinità è incomprensibile perché sfugge ai limiti della nostra miseria. [f] |
20/77. Video Cyllennium, superum legatum a predicti numinis sinistris locatum ut nubentem decuit totum purpuratum quadam pube tenera faciem umbratum |
Vedo Cillenio [Mercurio] il messaggero degli dei posto alla sinistra del suddetta divinità secondo l'uso degli sposi tutta porporato, il volto ombreggiato da una leggera peluria. [g] |
21/81. In hoc quod est nuncius, volo designare eloquendi gratiam multos copulare Eius dixi faciem pubem obumbrare sic sermonem lepide debes colorare |
Con il suo ruolo di messaggero intendo spiegare che la grazia dell'eloquenza unisce molte persone. [h] Ho detto che la pubertà ne ombreggia il volto: con simile spirito si deve adornare il sermone. [i] |
a. Cfr Ovidio, Met. 2.1-18. — b. Dione è la madre di Venere, ma spesso usata per identificare Venere stessa. Adone è l'amante di Venere (Afrodite) secondo il mito ucciso da un cinchiale del geloso Marte. I due versi probabilmente identificano gli amori carnali e la loro fine tragica. — c. Rif. a De nuptiis, 1.35; ripreso anche in Chrétien de Troyes, Erec et Enide, 6812-19. — d. Il regno condiviso è un'interpretazione insolita. Forse rimanda a Bernardo Silvestre che immaginava il mondo governato dalla platonica Provvidenza unita alla Natura. — e. Questa intelligenza che sorge da Dio (detta Pallade in ossequio al mito antico) è probabilmente l'anima mundi platonica. — f. Il verso spiega perché Pallade è velata. — g. Mercurio è frequentemente visto come braccio destro di Giove. — h. L'idea di comunione, il bene promosso dall'eloquenza (dote di Mercurio), è un'atra manifestazione dell'idea di armonia espressa dalla musica. — i. Riferimento al favore riconosciuto alla giovinezza (motivo di energia e seduzione) nella pratica oratoria. |
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La sposa (2) | |
22/85. Nupta sibi comes est de stirpe divina vestis de cyndalio, partim hyalina Vultus rutilancior rosa matutina quam nec sol decoxerat, nec lesit pruina |
La sua sposa [Filologia] è di stirpe divina, la sua veste di seta è in parte verde mare, il suo viso brilla più della rosa del mattino che il sole non ha inaridito né il gelo rovinato. |
23/89. Nisi sapientie sermo copuletur vagus, dissolutus est, infirmus habetur et cum parum proficit, parum promeretur eget ut remigio eius gubernetur |
Se la parola non è unita alla saggezza è casuale, incontrollata, ritenuta senza valore, e poiché non fa del bene non ha ricompensa, le manca ciò che potrebbe guidare il suo corso. |
Il dono di Saggezza (4) | |
24/93. Hanc donavit Fronesis dono speciali in conventu numinum die nupciali capiti inposuit sertum virginali cuius domus rutilat gemma mediali |
Phronesis [Saggezza] fece a lei un dono speciale: alla presenza degli dei il giorno delle nozze pose sul capo della fanciulla una ghirlanda per cui il palazzo fu illuminato dalla gemma centrale. |
25/93. Per sertum significo circumductionem ut agendo habeas circumspectionem gemma serti media signat rationem cuius prevenire est omnem actionem |
Con la ghirlanda intendo la circospezione: come nell'agire si ha lungimiranza la gemma al centro della ghirlanda significa la ragione per cui si deve preparare ogni azione. |
26/101. Sol sublimis capite suum gerit sertum hinc et hinc innumeris radiis refertum nichil huic absconditum, nichil inexpertum set quid hoc significet satis est apertum |
Il Sole in alto porta una sua ghirlanda con qui e là innumerevoli raggi, nulla gli è nascosto, nulla inesplorato ma ciò che significa è ben noto. [a] |
27/105. Huius erat facies mille specierum diadema capitis clarum et sincerum hic est mundi oculus, et causa dierum et vitalis spiritus, et fomentum rerum |
Il volto del quale era di mille forme con diadema in testa chiaro e sincero. Egli è l'occhio dell'universo, portatore del giorno lo spirito vitale, il nutrimento delle cose. |
Gli elementi (1) | |
28/109. Ante deum quatuor erant urne stantes elementis omnium rerum redundantes diversorum generum era imitantes hee sunt partes quatuor anni designantes |
Davanti al dio c'erano quattro urne piene degli elementi di tutte le cose, imitando i periodi di diversi generi designano le quattro parti dell'anno. [b] |
a. Similitudine della gemma della ghirlanda con la luce del sole, metafora della conoscenza, perché lui tutto illumina. — b. Centralitù del numero 4 che corrisponde agli elementi e alle stagioni. |
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Le Muse (3) | |
29/113. Sua Elyconides tenent instrumenta ut perfecta gaudii fiant complementa et applaudunt organis inter sacramenta queque rei mystice prebent argumenta |
Le eliconidi [muse] preparano i loro strumenti affinché la gioia dell'occasione sia completa: danno voce agli strumenti in mezzo alla cerimonia e inoltre offrono contenuti al rito mistico. |
30/117. Novem sunt in ordine, novem cecinere novem novas manibus liras tenuere et diversos pollice nervos tetigere sed tamen concorditer sibi respondere |
Sono in nove nella compagnia, nove cantavano, nove tenevano in mano nuove cetre e toccavano con le dita le diverse corde eppure rispondevano l'uno all'altro armonicamente. |
31/121. Quid designent, dicere grande non est onus novem orbes opifex fecit ille bonus octo sibi consonant, sono caret nonus nam non habet fieri sine motu sonus |
Cosa significhi non è difficile: il buon creatore ha creato nove sfere, otto cantano in armonia, la nona manca di suono perché il suono non può esistere senza movimento. |
Psiche Grazie Sileno Venere Amore (9) | |
32/125. Vel sunt dotes, opifex quas Sychi largitur quibus circumcingitur, quibus investitur et quibus per circulos labens insignitur cum carnis hospicium fragile aditur |
Inoltre sono doni che il creatore ha concesso a Psiche [doni] di cui è circondata, di cui è investita e di cui è insignita nel percorrere le sfere quando accede al fragile contenitore del corpo. [a] |
33/129. Tres astabant virgines versus Iovem verse stabant firme digitis connexis inter se sunt aversa corpora, facies averse sunt excelsi numinis proles universe |
Tre fanciulle [b] erano in piedi rivolte verso Giove, stavano con le dita saldamente intrecciate i corpi rivolti altrove, i volti guardano indietro: sono universo e prole del divino celeste. |
34/133. Donum Dei largitas esse deputatur siquis quicquam dederit, mox restituatur et dati memoria firme teneatur ut si simplex fuerit, duplex revertatur |
La generosità è considerata un dono di Dio se qualcuno ha dato qualcosa, che sia presto ripagato e che il ricordo del dono sia tenuto ben in mente anche se semplice che sia doppiamente ripagato. |
35/137. Hinc cum bombis strepitus sonat crotallorum a Sylleno ducitur agmen satyrorum Temulentus titubat, et precedit chorum atque risus excitat singulis deorum |
Ora tra i colpi di tamburo risuonano i sonagli, una banda di satiri è guidata da Sileno, egli traballa ubriaco e supera il coro provocando le risate di tutti gli dei. |
36/141. Horum parti maxime Venus dominatur iste sibi supplicat, ille famulatur Hanc de more filius suus comitatur nudus cecus puer est facies alatur |
Venere domina la maggior parte della compagnia: questo la supplica, quello l'asseconda, come di consueto la accompagna il figlio [c] nudo, cieco, appare giovane, è alato. |
37/145. Nudus, nam propositum nequid sepelire cecus, quia racio nequid hunc lenire puer, nam plus puero solet lascivire alatus, dum [g] facile solet preterire |
È nudo, perché non può nascondere i suoi propositi. Cieco, in quanto la ragione non può placarlo. Giovane, perché più d'un giovane è lascivo. Alato, perché fugge facilmente. |
38/149. Illius vibrabile telum est auratum et in summa cuspide modice curvatum telum invitabile, telum formidatum nam qui hoc percutitur pellit celibatum |
L'arma che brandisce è dorata e con la sua punta leggermente ricurva è un'arma inevitabile, un'arma da temere perché chi è colpito da essa abbandona il celibato. [d] |
39/153. Sola soli Veneri Pallas adversatur et pro totis viribus usque novercatur nam quod placet Veneri Pallas aspernatur Venus pudiciciam raro comitatur |
Pallade si oppone a Venere [e], una contro una, con tutta la sua forza al punto da essere matrigna: perché Pallade disprezza ciò che è gradito a Venere, Venere raramente è amica della castità. |
40/157. Hic diversi militant, et diverse vite qui ab usu solito dissident invite quibus an plus valeat Pallas Afrodite adhuc est sub pendulo, adhuc est sub lite |
Adesso diversi militano, e con diverse opinioni, perché si allontanano con riluttanza dall'uso solito: per loro se più valga Pallade o Afrodite ancora è incerto, ancora si discute. |
a. Incerto il ruolo assunto da Psiche in questo contesto. — b. Le Grazie. — c. Amore. — d. Chiaro riferimento al contesto monastico (all'epoca ia preti non era vietato il matrimonio) cui il poeta evidentemente appartiene. — e. Contrapposizione fra ragione e desiderio. |
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Coppie divine (2) | |
41/161. Nexibus Cupidinis Syche detinetur Mars Nerine coniugis ignibus torretur Ianus ab Argiona disiungi veretur Sol a prole Pronoes diligi meretur |
Psiche è presa nella rete di Cupido, Marte brucia ardente per la moglie Nerina, Giano teme di essere separato da Argione, il Sole guadagna l'amore della figlia di Pronoia. |
42/165. Syche per illecebras carnis captivatur sors in Marte fluctuat, Nereus vagatur opifex in opere suo gloriatur quid fiat in posterum Deo scire datur |
Psiche cade in preda alle tentazioni della carne, le fortune di Marte fluttuano, Nereo divaga. Il creatore si gloria della sua creazione: sapere cosa accadrà in seguito è concesso a Dio. |
Coppie umane (4) | |
43/169. Aderant philosophi; Tales udus stabat Crisippus cum numeris, Zeno ponderabat ardebat Eraclius, Perdix circinabat motus ille Samius proportionabat |
Anche i filosofi erano presenti: Talete bagnato, [a] Crisippo con i numeri; Zenone pesava, Eraclito bruciava; Perdice [Calo] disegnava cerchi, quello di Samo [Pitagora] proporzionava il moto. |
44/173. Hinc dissuadet Appius, hinc persuadet Cato implicabat Socrates, explicabat Plato vacuum Archesilas tenuit pro rato esse quod inceperat undique locato |
Qui Appio dissuade, là Catone persuade, Socrate implicava, Platone esplicava, Arcesilao sosteneva la legge universale che tutto ciò che aveva avuto un inizio era nullo. |
45/177. Secum suam duxerat Getam Naso pullus Cynthiam Propercius, Delyam Tibullus Tullius Terenciam, Lesbiam Catullus vates huc convenerat sine sua nullus |
Il giovane Nasone [Ovidio] portò la sua tracia, [b] Properzio la sua Cinzia, Tibullo Delia, Cicerone Terentia, Catullo Lesbia. Nessuno dei poeti era venuto senza il suo amore. |
46/181. Queque suo suus est ardor et favilla Plinium Calpurnie succendit scintilla urit Apuleium sua Pudentilla hunc et hunc amplexibus tenet hec et illa |
Ognuna per il suo [uomo] è ardore e passione: la scintilla di Calpurnia infiamma Plinio, la sua Pudentilla fa bruciare Apuleio, entrambe stringono i compagni nell'abbraccio. |
La poesia (1) | |
47/185. Versus fingunt varie metra variantes coturnatos, lubricos, enodes, crepantes hos endecasillabos, illos recursantes totum dicunt lepide, nichil rusticantes |
Compongono versi diversi con metri differenti, nobili, divertenti, morbidi, aspri, ora in endecasillabi, ora con ritornello tutto quanto intonano è grazioso, mai rozzo. |
a. A talete si attribuiscono gli studi sull'acqua. — b. L'amante di ovidio era di origine geta, ovvero tracia. |
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Scuola di Chartres (3) | |
48/189. Ibi doctor cernitur ille Carnotensis cuius lingua vehemens truncat velud ensis et hic presul presulum stat Pictaviensis proprius nubencium miles et castrensis |
Qui si riconosce il dottore di Chartres [a] la cui lingua severa taglia come una spada ed anche la guida dei sacerdoti di Poitiers [b] soldato e guerriero al servizio degli sposi. |
49/193. Inter hos et alios in parte remota Parvi Pontis incola, non loquor ignota disputabat digitis directis in iota et quecumque dixerat erant per se nota |
Insieme a questi e ad altri, in un luogo separato abitante a Petit-Pont [c] – non dico cose ignote – disputava con le dita mettendo i puntini sulle i e qualsiasi cosa dicesse era notevole. |
50/197. Celebrem theologum vidimus Lumbardum cum Yvone, Helyam Petrum, et Bernardum quorum opobalsamum spirat os, et nardum et professi plurimi sunt Abaielardum |
Abbiamo visto il celebre teologo Lombardo con Ivo, Pietro Elia e Bernardo [d] le loro labbra diffondono balsamo e nardo e tutti insegnano le dottrine di Abelardo |
Abelardo contro i Cistercensi (9) | |
51/201. Reginaldus monachus clamose contendit et obliquis singulos verbis reprehendit hos et hos redarguit, nec in se descendit qui nostrum Porphirium laqueo suspendit |
Il monaco Reginaldo [e] discute ad alta voce e contesta ogni punto con parole sottili sfidando questo e quello, non si tira mai idietro lui che ha appeso il nostro Porfirio [f] ad un cappio. |
52/205. Robertus theologus corde vivens mundo adest et Manerius quem nulli secundo alto loquens spiritu et ore profundo quo quidem subtilior nullus est in mundo |
Il teologo Roberto, [g] che vive puro di cuore è qui con Manerio [h] a nessuno inferiore, con spirito elevato e parole profonde rispetto al quale nessuno al mondo è più sottile. |
53/209. Hinc et Bartholomaeus faciem acutus retor, dyaleticus, sermone astutus et Robertus Amiclas simile secutus cum hiis quos pretereo, populus minutus |
Poi c'è Bartolomeo, [i] attento osservatore retore, dialettico, sottile nel parlare, e allo stesso modo segue Robert Amiclas, [j] e con questi il popolo minuto che trascuro. |
54/203. Nupta querit ubi sit suus Palatinus cuius totus extitit spiritus divinus querit cur se subtrahat quasi peregrinus quem ad sua ubera foverat et sinus |
La sposa chiede dove possa essere il suo Palatino [k] il cui spirito è tutto divino, chiede perché si sia ritirato come un estraneo colui che aveva stretto ai fianchi e al seno. |
55/217. Clamant a philosopho plures educati “Cucullatus populi primas cucullati et ut cepe tunicis tribus tunicati imponi silencium fecit tanto vati |
I molti studiosi formati dal filosofo gridano: «Il primate incappucciato [l] della tribù incappucciata, vestito con tre tuniche come una cipolla, ha fatto imporre il silenzio a questo grande maestro. |
56/221. Grex est hic nequicie, grex perdicionis impius et pessimus heres Pharaonis speciem exterius dans religionis sed subest scintillula supersticionis |
Questa è la folla dei malvagi, la folla dei dannati, gli empi e i più malvagi eredi di Faraone, che mostrano esteriormente l'apparenza della religiosità, ma dentro hanno la fiamma della superstizione. |
57/225. Gentis gens quisquilia, gens hec infrunita cuius est cupiditas mentis infinita Istos ergo fugias, et istos devita et hiis ne respondeas, ‘non est sic vel ita’ |
Gente inutile fra le genti, gente senza senso la cupidigia delle loro menti è infinita. Fuggi da loro e prendi un'altra strada e non risponder loro "non è così ma così"». |
58/229. Dii decernunt super hoc, et placet decretum ut a suo subtrahant hunc a cetu cetum et ne philosophicum audiat secretum studii mechanici teneat oletum |
Gli dei deliberano al riguardo, e piaccia la decisione che il gruppo sia allontanato da questa compagnia, che non ascoltino il mistero filosofico e stiano nel letamaio delle scienze meccaniche. |
59/233. Quicquid tante curie sanctione datur non cedat in irritum, ratum habeatur cucullatus igitur grex vilipendatur et a philosophicis scolis expellatur. AMEN |
Ciò ch'è stabilito da tanto tribunale non può essere ignorato, deve essere considerato, perciò la tribù degli incappucciati sia disprezzata e bandita dalle scuole dei filosofi. AMEN |
a. Teodorico di Chartres, principale figura della scuola di Chartres. — b. Gilberto Porretano, vescovo di Poitiers (1142-1154), studiò a Chartres e fu maestro di Giovanni di Salisbury. Gli estremi del suo vescovado identificano l'epoca di composizione del poema. — c. Adamo di Petit-Pont, logico che insegnò a Parigi. — d. Pietro Lombardo (il cui Liber sententiarum fu commentato da Adamo); Ivo, diacono di Chartres; Pietro Elia, grammatico e innovatore; forse Bernardo Silvestre. Sono tutti intellettuali di grande erudizione favorevoli ad Abelardo. — e. Monaco non identificato, detrattore di Abelardo. — f. Abelardo. Qui più che un riferimento al filosofo Porfirio si fa un gioco con 'porporato' che rimanda all'abato vestito dallo sposo. — g. Teologo non identificato con certezza. — h. L'allievo più brillante di Abelardo. — i. Forse il futoro vescovo di Essex. — j. Maestro a Parigi. — k. Abelardo, forse identificato come Mercurio (abitante del cielo, quindi 'palatino') oppure in riferimento a Le Pallet, luogo di nascita di Belardo. — l. Bernardo di Chiaravalle, cistercense, principale detrattore di Abelardo. |
[da Daolmi, Ritratto di Gaffurio (2017): 146-152]
146] La pubblicazione della Practica musice (1496) ebbe straordinario successo tanto che fu ristampata a Brescia in tre diverse impressioni (1497, 1502, 1508) e di nuovo a Venezia (1512). Il frontespizio, il celeberrimo Cosmo musicale, compare solo nella prima edizione milanese: il disegno è però estraneo al contenuto del libro. Gaffurio lo ripubblicherà nel De harmonia (1518: iv.12), in connessione con un capitolo descrittivo.
148] La correlazione fra astronomia e musica rimanda all’idea platonica di anima dell’universo dove la musica è il soffio vitale razionale. Tuttavia i rapporti instaurati non sono quella tradizionali:
149] Se il legame fra muse e pianeti (cieli) era già stato formulato da Marziano Capella (Nozze i.27-28), la relazione fra scala musicale e pianeti non corrisponde alle due opzioni descritte da Boezio (Musica i.27) che invece pongono entrambe la mese in relazione al Sole. Gaffurio recupera il suo schema da Bartolomeo Ramos de Pareja, un teorico attivo a Bologna, che nel suo Musica practica (1482) aveva proposto questi stessi rapporti fra cieli e note (Haar 1974). Ramos, sulla scorta di Cicerone (Somnium Scipionis v.18), considera la Terra immobile e pertanto fa corrispondere alla Luna il suono più grave dell’antica scala greca (systema téleion). Anche l’associazione con gli otto tropi o trasposizioni tonali (non ‘modi’, come spesso si fraintende), segue il principio di porre il tropo più grave in corrispondenza con il primo suono. Ramos riproponeva questi rapporti per l’intero sistema greco (doppia ottava) attraverso una spirale circolare che saliva di grado. [...]
150] Il disegno di Gaffurio presenta comunque elementi di novità rispetto a Ramos. La terra non è un semplice pianeta, ma uno dei quattro elementi che occupano lo spazio sublunare come appare nel Cielo di Aristotele, e l’armonia cosmica è governata da Apollo affiancato dalle Grazie e da un vaso di fiori. Le Grazie danzanti, con in mano uno strumento, sono descritte in ps-Plutarco (Musica 14) come manifestazione della musicalità di Apollo: qui tuttavia lo strumento è direttamente posto nelle mani del dio.
151] Il vaso di fiori esprime la discesa dell’anima nel mondo, concetto rappresentato dalla coppa silvestre descritta da Macrobio («crater Liberi patris», in Commento i.12.7-8). L’anima infatti, avvicinandosi alla materia («silvestrem tumultum»), s’inebria ed è quindi governata da Dioniso (detto anche Libero). Il motto in alto («Mentis Apollineae vis has movet undique musas», ‘La forza della mente apollinea muove ovunque queste muse’) è un verso tratto da un epigramma originariamente parte dell’Appendix Vergiliana, in realtà anonimo (Riese 1870: ii.120; Peiper 1886: 412). Infine il significato del serpente tricefalo è stato interpretato da Panofsky (1926 e 1955), che vi ha riconosciuto il mostro che accompagna il dio Serapide, espressione e allegoria del Tempo (Macrobio, Saturnali i.20.13-15).
Non è improbabile che il tema della celebre Festa del Paradiso nell’allestimento di Leonardo da Vinci (1490) – dove un cosmo di pianeti impersonati da cantori celebra Isabella d’Aragona – possa essere stato suggerito da Gaffurio. [...]
Nel 1650 Athanasius Kircher riproporrà nel suo Obeliscus Pamphilius un adattamento della silografia di Gaffurio. L’immagine si sviluppa su dieci livelli, invece di nove, e trascura i tropi per introdurre la gerarchia ebraica degli angeli, secondo il dettato di Maimonide (1135-1204):
152] Se il rapporto fra cieli e muse è conservato (pur aggiungendovi il Primo Mobile), le altezze musicali slittano di grado e occupano una decima (ora la terra non è più sorda). I dieci ranghi angelici di Maimonide, sono privati del livello più basso (detto ishim o degli antropomorfi) ed è aggiunto Dio che li sovrasta tutti. Segnalo che nell’incisione l’ordine è modificato (quello originale corrisponde ai numeri fra parentesi qui in tabella) mentre è corretto nella spiegazione che accompagna l’immagine: non è improbabile che l’alterazione sia imputabile al disegnatore, non pratico di testi ebraici. Kircher inoltre sostituisce il vaso di fiori con un girasole, inteso come legame «rerum inferiorum cum superioribus» (p. 243), forse rievocando il mito di Clizia, mentre le tre Grazie esprimono «Apollinis ... splendorem, liberalitatem, faecunditatem». Il serpente, ignorando le connessioni con Cerbero e Serapide, diventa manifestazione della «forza genitale di Apollo diffusa nell’universo», mentre le tre teste significano «la triplice virtù che feconda la terra: umida, focosa e seminale».
La Descrizione di Bastiano De' Rossi è un volumetto celebrativo di un'ottantina di pagine così organizzato:
[p. 18] Ci si rappresentò in questo intermedio le [otto] Serene celesti guidate dall'Armonia, delle quali fa menzione Platone ne' libri della Repubblica, e due, oltre alle mentovate da lui, secondo l'opinion de' moderni, vi se n'aggiunse, cioè quelle della nona e decima sfera. E perché nello stesso luogo si truova scritto che ciascuna delle dette Serene siede sopra il cerchio o circonferenza di esse sfere, e gira con essa circonferenza, e girando manda fuora una sola voce distesa, e di tutte se n e fa un'armonia consonante, il poeta [Bardi?], poiché Platone vuole che da tutte ne nasca una consonante e sola armonìa, e l'armonia per natura va sempre avanti a color che cantano, la diede loro per iscorta e mandolla avanti in iscena.
Cadute le cortine si vide immantenente apparir nel Cielo una nugola, e in terra, avanti alla scena, d'ordine dorico un tempietto di pietra rustica. [Si vide] in essa nugola una donna che se ne veniva pian piano in terra, suonando un liuto e cantando (oltre a quel del liuto ch'ella sonava, al suono di gravicembali, chitarroni e arpi che eran dentro alla prospettiva) il madrigal sottoscritto. Allato le sedevano, sì dall'una banda com e dall'altra, ma bene alquanto più basse quasi ad ascoltare il suo canto, tre altre donne, tanto naturalmente e con tal rilievo dipinte [p. 19] che parean vive. La musica fu d'Emilio de' Cavalieri, le parole del trovatore degl'intermedi [Bardi]:
E mentre che la detta nugola scendea 'n terra, avendo sotto alquanti raggi solari, pareva che di mano in man seguitandogli dove ell'arrivava coprisse il Sole.
Finito 'l canto, finì 'l cammino e [Armonia] si condusse al tempietto, e dentro con la nugola e con quei raggi solari innanzi vi si nascose e con esso sparì, non senza maraviglia di color che la rimiravano: né con minor maraviglia si condusse questa nugola in terra che se n'andasse, perciocchè non tanto era con la pittura e con altro contraffatta naturalmente, quanto che non si potendo in niuna guisa veder donde si reggesse, rassembrava nugola naturale stante nell'aria. E mentre che 'l popolo procacciava d'intendere e di vedere dove la nugola e 'l tempietto fossero andati, senza quasi avvedersene, in manco tempo ch'io non l'ho detto, andandosene verso 'l cielo e quivi ascondendoli sparì la scena di Roma, la quale anch'ella avrebbe potuto recar non picciola maraviglia, se le maraviglie ch'ell'ascondeva e che nel suo partir li lasciò vedere, di tanto gran tratto non s'avesser lasciata dietro la sua che non si fosse subitamente potuta porre in dimenticanza. E ciò fu che sparita, videro tutto quanto il cielo stellato con un sì fatto splendor che lo illuminava che l'avreste detto lume di luna: e la scena tutta in cambio di case (che a buona ragion pareva che si dovesson vedere) piena di nugole, alle vere sì somiglianti che si dubitò che non dovesser salire al cielo a darne una pioggia.
E mentre che tal cosa si riguardava, si vide di su la scena muoversi [p. 20] quattro nugole, su le quali erano le mentovate Serene che fecero di sé non solamente improvvisa ma sì bella mostra e sì graziosa e con tanta ricchezza e magnificenza d'abiti che, come di sotto potrà vedersi, eccedevano il verisimile, e cominciarono tanto dolcemente a cantare questo suono in su liuti e viole che ben potevano, se la lor vista non gli avesse tenuti desti colla dolcezza dei canto loro, addormentar di profondo sonno, come vere Serene, gli ascoltatori.
Le parole di questo canto e gli altri madrigali che seguono appresso in questo intermedio furono composizione d'Ottavio Rinuccini, giovane gentiluomo di questa patria, per molte rare sue qualità ragguardevole, e la musica di Cristofano Malvezzi da Lucca prete e maestro di cappella in questa città.
Cantato ch'ell'ebbero, immantenente s'aperse il Cielo in tre luoghi e comparver con incredibil velocità a quell'aperture tre nugole. In quella del mezzo la dea della Necessità colle Parche, e nell'altre i sette pianeti e Astrea: e tale fu lo splendore che vi si vide per entro e tale gli abiti degl'lddei e degli eroi che si paoneggiavano in esso cielo, ricchi d'oro e di lucidi abbigliamenti, che potette ben parere ad ognuno che 'l Paradiso s'aprisse e che Paradiso fosse divenuto tutto l'apparato e la prospe ttiva.
Aperto il Cielo, in esso e in terra cominciò a sentirsi una così dolce e forse non più udita melodia che ben sembrava di Paradiso. Alla quale, oltre a gli strumenti che sonarono al canto dell'Armonia e delle Serene, vi s'aggiunsero del cielo tromboni, traverse e cetere.
Finita la melodia le Parche, le quali sedevano per [p. 21] egual distanzia e toccanti il fuso intorno alla madre Necessità nel mezzo del cielo – e che, come dice Platone, cantano all'armonia di quelle Serene, Lachesi le passate, Cloto le presenti e Atropo le cose a venire – cominciarono richiamandole al cielo a cantare, e per far più dolce armonia parve al poeta che i pianeti che sedevano nell'altre aperture del cielo, allato a quella del mezzo, cantassero anch'eglino insieme colle tre Parche e con esso loro la Madre Necessità. Al qual canto movendosi le Serene in su le lor nugole e, andandosene verso il cielo cantando e facendo un gentil dialogo che fu questo, rispondevan loro a vicenda:
Fu veramente cosa mirabile il vedere andarsene quelle nugole verso il cielo, quasi cacciate dal Sole, lasciandosi sotto di mano in man che salivano un chiaro splendore.
Arrivate le Serene al cielo su dette nugole soavemente cantando finì il dialogo e cominciarono tutti insieme, e le Parche e i Pianeti ed elleno in su i mentovati strumenti, novellamente a cantare: [p. 22]
Alla fine di questo canto tutte le sette nugole sparvono, serrossi il cielo, si dileguaron le stelle e con esse le nugole che annebbiavan la prospettiua, e parve che esso cielo fosse tutto alluminato dal Sole.
Della qual prospettiva diremo descritti gli abiti delle deità che intervennero nello intermedio. E cominceremoci sì come quella che venne prima dall'Armonia. Dice Aristotile che l'armonia doria (che è quella che 'l poeta rappresentò) ha dello stabile e del virile e proprio della fortezza, ed egli e Platone s'accordano ch'ella sia la miglior di tutte l'altre armonie, in questa guisa la figurò: una bella dona con volto e sembiante tutto ripieno di gravità, vestita d'un verde oscuro, parendogli che quel colore più d'alcun altro avesse intenzione al costume d'essa. La vesta fu di velluto e, per più farla piena di maestà, l'adornò con bel fornimento d'oro massiccio e 'l cinto del colore della vesta, ma tutto ricoperto di gioie. In capo come reina e principale e miglior dell'altre sei armonie che le stavano dall'uno e dall'altro fianco e la mettevano in mezzo, una corona d'oro con sette gioie. La prima sopra la fronte maggiore e più bella di tutte l'altre ch'era la propria, a fignificare che anch'ella era di più pregio che le compagne. L'altre gioie andavano quanto a pregio secondo i gradi. L'acconciatura semplice ma nobile e piena anch'ella di maestà, dalla quale pendevan due veli che le ricoprivano con magnificenza le spalle e andavangli infino a' piedi. Era, per mostrar più perfezione, finta donna di mezz'età.
A man destra le sedeua a canto nel primo luogo l'armonia ipodoria e allato a lei l'ipofrigia [p. 23] e sotto all'ipofrigia avea l'ipolidia: nel primo luogo dalla sinistra la frigia, nel secondo la lidia, e nel terzo mixolidia, accomodate con quest'ordine dal poeta, secondo la mente de' buoni antichi.
L'ipodoria, come quella che più s'accosta alla maestà della doria, ottenne sotto a essa il primiero luogo, e ne volto mostrava come nell'abito alquanto più gravità dell'ipofrigia che l'era sotto, e simile l'ipofrigia dell'ipotidia. L'altre affai più acute di queste tre le stavan dalla sinistra, cioè la frigia nel primo, nel secondo la lidia e nel terzo luogo la mixolidia. E di grado in grado, scemando la perfezione, crescevano gli ornamenti vani e la giovanezza, in guisa che la sezzaia [= l'ultima] pareva una fanciulletta di poca eta. E ogni abito era appropriato al constume loro.
Dopo l'Armonia le Serene: la prima d'esseche volgeva il ciel della Luna era infin dalle spalle a' fianchi sì come l'altre Serene, che si diranno tutta pennuta, e addosso le penne sovrapposte l'una all'altra in maniera che in più acconcio modo non istanno le naturali addosso agli uccelli. Erano finte di sbiancato ermisin mavì e lumeggiate d'ariento che la facevano apparir del color proprio del suo pianeta quando di notte si vede in Cielo. Alla fine delle penne un bel fregio d'oro e sotto un abito vago di raso bianco con alcuni ornamenti d'oro che le andavano a mezza gamba. I suoi calzaretti mavì adorni di gioie, di cammei, di mascherini e di veli d'ariento e d'oro, avendo it poeta avuto riguardo, contrario alle malvage Serene che hanno le parti basse brutte e deformi, di far queste in tutta perfezion di bellezza. Aveva biondi i capelli e piena di raggi lunari l'acconciatura, dalla quale pendevano in ordine vago e bello alcuni veli mavì che svolazzando faceano una lieta uista. E sopra all'acconciatura una Luna, e per più farta lieta e adorna le mise dietro alle spalle un manto di drappo rosso , nel quale percorendo i lumi che invisibili nelle nugole furono dall'artefice accomodati, come più di sotto diremo, risplendeva si fattamente che non vi si poteva affissare gli occhi.
Stava la madre Necessità nel cielo all'apertura di mezzo e sopra un seggio di color cenerognolo si sedeva. Figurata dal facitore nella guisa che ce la descrive Orazio in quella sua ode [*]: di fiera vista, chiamandola egli saeva [dura], le mani di bronzo e in esse due fortissimi e grossi chiodi, di quelli con che si conficcan le travi. I cunei, ciò erano certi legami fortissimi e sottilissimi, quali della spezie della minugia che s'adoperavano a tormentare i colpevoli in guisa, strignendo con essi le membra loro, che venivan quasi ad unirsi. L'oncino e 'l piombo strutto che similmente l'è assegnato da quel poeta gliele dipinser nel seggio. La ’ncoronò di cipreffo e la vestì di raso bigio argentato. Tra le ginocchia le mise il fuso, il qual parea di diamante, e sì grande che con la cocca entrava ne' cieli come un fuso ordinario in un fusaiuolo.
Le Parche le sedevano a' piedi: quella figurata per Cloto toccava il fuso da una parte con la man destra; Atropo dall'altra con la sinista, e Lachesis dall'una e dall'altra parte con l'una e con l'altra mano, come gli ha mostrato Platone, le quali egli inghirlanda e veste di bianco: e perciò ebbono elleno [ebbero quelle] una vesta di raso bianco lattato, ma perché facesser più bella vista, vi fi sparse alcuni ricami e una bella ghirlanda sopra l'acconciatura si pose loro.
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Vorrei aggiungere soltanto una cosa: il signor van der Pals ha segnalato con ragione che nella leggenda cinese del violino lunare manca l'uomo. Credo che egli abbia inteso dire che è particolarmente sorprendente che l'uomo, in senso musicale, venga escluso dall'inserimento nel cosmo intero. [...] In un certo senso l'uomo vi sta già dentro [...] Nei Cinesi esiste proprio una profonda coscienza del rapporto fra la testa umana e le sfere superiori, fra il sistema ritmico dell'uomo, il sistema cuore-polmoni, e la terra cui l'uomo partecipa perché respira, in quanto con la respirazione stessa il suo sistema ritmico viene messo in movimento. [...] Il legame dell'uomo intero col cosmo resta invece indeterminato.
Ciò che nell'uomo resta così indeterminato veniva indicato come luna nell'uomo stesso. Vi era una coscienza fondamentale, anche se istintiva, che in certo modo la terza parte costitutiva di un uomo tripartito è in relazione con la luna. Ciò sta anche alla base di ogni comprensione scientifico-spirituale dell'uomo.
Da questo elemento affine alla luna si differenzia ciò che risulta dall'intero sistema ritmico, ciò che in un certo senso librandosi sopra il sistema ritmico rappresenta come il risultato, l'effetto del sistema ritmico stesso: è l'elemento solare che si dovrebbe trovare principalmente concentrato nel cuore dell'uomo. [...] A ciò si aggiunge nell'uomo ciò che è connesso con il sistema ritmico, che costituisce la struttura del suo apparato nervoso e che è in relazione con gli altri pianeti.
Si ha quindi in alto nella testa Saturno, in relazione col sistema nervoso centrale, poi Giove, in relazione piuttosto con gli organi di senso, con gli occhi, quindi Marte in relazione con ciò che sta alla base degli organi del linguaggio e del canto, e infine Venere e Mercurio, che si riferiscono piuttosto al sistema nervoso simpatico. Si avrebbe così ciò che è alla base dell'intera organizzazione umana, come è trasmessa dalla Luna.
Si dovrebbero poi distinguere cinque linee di collegamento che risalgono ai cinque pianeti. In tal modo si otterrebbe l'interno dell'uomo organizzato nel senso di uno strumento musicale ideale, ma del tutto reale entro l'organismo umano. [...] Si pensino dunque i cinque astri: Saturno, Giove, Marte, Venere e Mercurio, che si inclinano verso l'albero-uomo e tendono su di lui la lira, in modo da farlo diventare uno strumento musicale. Sopra quell'insieme si libra, calandosi dall'universo spirituale, l'accordatore dello strumento: l'uccello Fenice, l'anima umana immortale.
In quella leggenda cinese vi è un senso realmente pieno di significato, e l'uomo ne resta fuori proprio perché è egli stesso la musica, perché la leggenda non parla appunto della cosa principale. Parla di ciò che mette insieme l'intero strumento musicale. [...]