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XI-XII secolo

La miniatura raffigura la morte d'Orlando raccontata nella Chason de Roland (ms. conservato a St. Gallen, Kantonsbibliothek, VadSlg 302, ii, f. 50v). Ormai sconfitto l'esercito dei paladini di Carlo Magno, anche l'amato arcivescovo Turpino è morto (a terra l'elmo a forma di mitra). Orlando lo abbraccia commosso e, ormai ferito anche lui a morte, ancora in mano la durlindana, s'accinge a suonare l'olifante, il corno che gli ha dato Carlo Magno per i momenti di pericolo. La Chason de Roland, sebbene ricordi la battaglia di Roncisvalle del 778, fu scritta fra l'XI-XII secolo, e apre la strada alla grande fortuna delle chanson de geste in lingua d'oil che circoleranno attorno all'università di Parigi. Contemporanea alla produzione trobadorica (in lingua d'oc) la chanson de geste, generalmente in lasse di decasillabi assonantati, si cantava su una stessa melodia ripetuta ogni due versi e conclusa con un ritornello.

PAPATO E IMPERO NELL'EUROPA DEI FEUDI
– Il benessere seguìto al risorto S.R.I. incentiva i commerci e la formazione di una società comunale.
– Divisione della chiesa fra cattolici e bizantini (Grande scisma, 1054).
Guglielmo il Conquistatore, duca di Normandia occupa l'Inghilterra (1066).
– La diffusione cluniacense (nel 1098 sorge un altro grande monastero a Citeaux, da cui i cistecensi) induce a moralizzare la Chiesa (compromessa dalla corruzione dei vescovi-conti) e permette al Papato di rivendicare la supremazia sull'Impero.
– La lotta delle investiture segna una prima vittoria ecclesiastica con l'umiliazione di Enrico IV a Canossa (1077).
– A Bologna si fonda la prima università (1088): la cultura si sposterà dai monasteri nei nuovi centri laici di studio.
– Il concordato di Worms (1122) chiude a favore del papato la lotta delle investiture.

1100 d.C.
| La conquista dell'inghilterra da parte del normanno Guglielmo il Conquistatore (1066) sarà all'origine del conflitto infinito fra Francia e Inghilterrà che giungerà fino alla Guerra dei Cent'anni. L'indole espansionista dei Normanni non si smentisce: solo trent'anni prima avevano occupato l'Italia del Sud e da tempo ormai erano stanziali in Spagna.

LA MUSICA
– la contrapposizione fra papato e impero contribuisce, insieme alle università, a differenziare la cultura sacra da quella laica: viene annotata anche la produzione profana (monodica e polifonica) e soprattutto si sviluppano reportori in volgare..

 

La monodia profana

da: Giulio Cattin, Il Medioevo I, Torino 1987 (Storia della musica, 1/2), pp. 141-173.

Lirica latina | Trovatori | Trovieri | Minnesänger | Cantigas | Inghilterra | Italia

La lirica latina (IX-XI sec.)

Continuità e origini del canto profano

Sebbene non ci siano note testimonianze musicali scritte anteriori al secolo IX, è ovvio e doveroso supporre che la tradizione dei canti profani sia stata ininterrotta anche nei secoli precedenti. Tale congettura non è solo scontata, ma imposta da un fitto numero di riferimenti che si leggono in testi storici e giuridici (prescrizioni di sinodi e canoni di concili) relativi all'esistenza d'un repertorio popolare di canzoni e danze, contro il quale furono invano lanciati i divieti dell'autorità ecclesiastica. Cantica amatoria e poculatoria, cantiones di vario genere e danze, anche ecclesiastiche, sopravvissero ad ogni intervento proibitivo fino al secolo XIII ed oltre, rivelando una irriducibile vitalità, cui non fu estranea la connivenza di abitudini che quelle manifestazioni avevano introdotto perfino all'interno dei riti.

Se la tradizione indiretta può supplire alla mancanza di dati documentari per provare l'estensione del fenomeno, nessuna informazione essa ci offre circa la natura e i caratteri musicali di questi canti. In passato si favoleggiò sulla loro funzione mediatrice tra la tradizione della latinità classica e quella del tardo Medioevo: una tesi tramontata da quando si affrontò l'analisi delle più antiche reliquie di canti profani a noi giunte e databili dal secolo IX. Le indagini hanno inferto il colpo di grazia anche all'altra tesi cara agli studiosi ottocenteschi, quella dell'origine popolare della poesia e della musica liturgica e paraliturgica che già conosciamo; perciò è necessario ricondurle entrambe, come ad unica sorgente, al fervore creativo che nei medesimi secoli diede vita ai tropi, alle sequenze, al dramma liturgico.

Gli autori furono dunque gli stessi monaci o clerici (leggi: studenti delle scuole monastiche o episcopali); come vedremo, dall'ambiente scolaresco (Università) provengono anche più tardive raccolte contenenti i carmina dei goliardi (clerici vagantes), che si differenziano solo per i temi trattati dalla coeva produzione chiesastica: ne esce così ribadito il carattere unitario del mondo culturale, quello della chiesa e della scuola, da cui proviene l'eredità della lirica mediolatina, lo stesso mondo che dal suo seno esprimerà anche le prime forme della lirica romanza.

Modelli classici e soggetti storici

I più antichi cimeli della musica profana medioevale si distinguono in due gruppi, il primo dei quali comprende l'intonazione neumatica di testi poetici di Orazio, dell'Eneide virgiliana e di Boezio. Sebbene la lettura non sia sempre univoca per colpa della notazione che è ancora adiastematica, questi frammenti testimoniano la continuità dell'attenzione rivolta ai classici specialmente nel periodo carolingio e un modo di approccio, quello musicale, assai significativo.

Più ricco di suggestioni è il secondo gruppo, composto da un manipolo di composizioni epico-storiche, tra le quali predominano i compianti (planctus) per la morte di personaggi illustri. Una decina di questi canti profani è raccolta in un solo manoscritto proveniente da San Marziale (ora a Parigi, Bibl. Nat., lat. 1154) redatto nel secolo IX e forse neumato poco dopo.

Il Planctus de obitu Karoli (per la morte di Carlo Magno) in versi a sistema accentuativo alterna con il ritornello Heu mibi misero! distici non privi di rude solennità che invitano tutte le regioni (l'incipit è A solis ortu usque ad occidua | littora maris...) a piangere la morte del grande imperatore. A riprova del legame con le melodie chiesastiche, nella notazione di questo planctus ricorre il quilisma, sicura tessera di riconoscimento delle cantilene liturgiche ornate.

Planctus KaroliA solis ortu usque ad occidua | Deller consort | Harmonia Mundi, 1975 — txt | Paris, Latin 1154, f. 132

In Mecum timavi saxa, novem flumina... Paolino patriarca di Aquileia (m. 802) esprime il suo lamento per Enrico duca del Friuli morto in combattimento contro gli Avari. Se il carme fu composto nel 799, anche la melodia è indubitabilmente uno dei cimeli musicali più vetusti, se non altro perché ci è trasmessa identica in un codice di Berna del secolo X: indice che già quell'epoca essa aveva conosciuto una cospicua notorietà. Pur richiamandosi a vicende profane, il componimento ebbe destinazione liturgica essendovi palese la solenne gravità della preghiera.

Planctus di PaolinoMecum timavi saxa | Deller consort | Harmonia Mundi, 1975

Imbevuta nel testo di reminiscenze liturgiche e musicalmente derivata da fonte ecclesiastica è anche l'anonima celebrazione della battaglia combattuta a Fontenoy tra i figli di Ludovico il Pio, il 25 giugno dell'anno 841: Aurora rora cum primo mane ....

Di poco posteriore e con gli stessi caratteri è il Planctus Hugonis abbatis (Hug dulce nomen...), forse un figlio naturale di Carlo Magno perito mentre si prodigava a sedare le contese tra i successori di Ludovico.

Planctus Hugonis abbatisHug dulce nomen | Deller consort | Harmonia Mundi, 1975

Limiti di spazio impediscono di ricordare altri componimenti conservati in fonti diverse; ma non possiamo ignorare il notissimo saluto del maestro a un suo scolaro partente (O admirabile Veneris idolum), composto forse a Verona nel secolo X e testimoniato in altre fonti con le parole dei pellegrini in cammino verso Roma: O Roma nobilis, orbis et domina [Vat. Lat. 3227, f. 80v | audio1 | audio2]. Si tratta d'un contrafactum, cioè del prestito d'una melodia a parole differenti: questo procedimento è antichissimo e documenta innumeri e reciproci scambi tra le sfere del sacro e del profano.

O admirabile Veneris idolum
Questo saluto anonimo (X sec.) rivolto a un giovane che parte «per fluvium Athesim» presenta alcuni canoni che saranno della poesia cortese, fra cui il rivale geloso qui chiamato «emulos». Si osservi inoltre l'uso espressivo dell'allitterazione e dell'immaginario pietroso dei versi Dura materies... che ricordano il mito di Deucalione.
O admirabile Veneris idolum
cujus materiae nihil est frivolum;
archos te protegat, qui stellas et polum
fecit et maria condidit et solum.
O meraviglioso dio di bellezza
dalle forme mai leziose,
ti protegga il creatore di cieli stellati,
signore del mare e del sole
Furis ingenio non sentias dolum;
Cloto te diligat, quae bajulat colum.
Che la tua natura di fuco non patisca inganni;
e ti favorisca Cloto che regge il fuso.
Saluto puerum non per ypothesim,
sed firmo pectore deprecor Lachesim,
sororem Atropos, ne curet heresim.
Neptunum comitem habeas et Thetim,
cum vectus fueris per fluvium Athesim.
Ragazzo, il mio saluto non è di circostanza:
prego con tutte le mie forze che Lachesi
e la sorella Atropo non vogliano conquistarti.
Che Nettuno e Teti ti siano compagni
quando ti porterai sull'Adige.
Quo fugis amabo, cum te dilexerim.
Miser, quid faciam, cum te non viderim?   
Dove fuggirai, ti amerò perché ti ho amato.
Misero, che farò quando non ti vedrò più?
Dura materies ex matris ossibus
creavit homines jactis lapidibus.
Ex quibus unus est iste puerulus,
qui lacrimabiles non curat gemitus.
Da sassi gettati, le ossa della Madre,
la dura terra generò uomini,
fra cui anche questo giovinetto
che ignora i gemiti del pianto.
Cum tristis fuero gaudebit emulus.
Ut cerva rugio, cum fugit hinnulus
Quando sarò triste godrà il rivale.
Grido come la cerva a cui è fuggito il cerbiatto.
O admirabileMagister Petrus, Vacillantis | Mauricio Molina, dir.

Della lirica profana nel secolo XI è sicura testimonianza la raccolta dei cosiddetti Carmina Cantabrigensia (un codice scritto nella Renania, attualmente alla Biblioteca Universitaria di Cambridge, Gg. 5.35). Vi figurano composizioni in forma di sequenza, alcune delle quali ispirate a vari temi (elogio di imperatori, ritmi scherzosi, canzoni amorose, ecc.). Si distingue per la piana cantabilità l'invito amoroso improntato al Cantico dei Cantici Iam, dulcis amica, venito, in strofe tetrastiche, il cui schema musicale è ABCD.

Al medesimo periodo appartiene il Codice Vaticano Regina 1462, che ci ha trasmesso la celebre 'alba' bilingue: Phebi claro nondum orto iubare, il cui ritornello fu ritenuto ora provenzale, ora appartenente alla Ladinia, ora influenzato da modelli franco-mozarabici.

I 'planctus' di Abelardo

Una posizione di rilievo nella storia della lirica profana detiene Pietro Abelardo (1079-1142), di cui ci è pervenuto anche un inno liturgico con melodia: O quanta qualia sunt illa sabbata.

O quanta qualia sunt illa sabbata
Quae semper celebrat superna curia.
Quae fessis requies, quae merces fortibus,
Cum erit omnia Deus in omnibus.

Vere Ierusalem est illa civitas,
Cuius pax iugis est, summa iucunditas,
Ubi non praevenit rem desiderium,
Nec desiderio minus est praemium.

Quis rex, quae curia, quale palatium,
Quae pax, quae requies, quod illud gaudium,
Huius participes exponant gloriam,
Si quantum sentiunt, possint exprimere.

Nostrum est interim mentem erigere
Et totis patriam votis appetere,
Et ad Ierusalem a Babylonia
Post longa regredi tandem exilia.

Illic molestiis finitis omnibus
Securi cantica Sion cantibimus,
Et iuges gratias de donis gratiae
Beata referet plebs tibi, Domine.

Illic ex sabbato succedet sabbatum,
Perpes laetitia sabbatizantium,
Nec ineffabiles cessabunt iubili,
Quos decantabimus et nos et angeli.

Perenni Domino perpes sit gloria,
Ex quo sunt, per quem sunt, in quo sunt omnia;   
Ex quo sunt Pater est; per quem sunt, Filius;
In quo sunt, Patris et Filii Spiritus.

Quanto virtuosi sono quei sabati
che sempre la corte celeste celebra
che danno riposo agli stanchi e ricompensa ai forti   
quando Dio sarà tutto per tutti

La vera Gerusalemme è quella città
la cui pace è eterna, gioia suprema,
dove il desiderio non supera il giusto
né la ricompensa è inferiore al desiderio.

Che re, che corte, che palazzo,
che pace, che riposo, che gioia è quella
i cui partecipi ne testimoniano la gloria
se possono esprimere ciò che sentono

Sta a noi alzare la testa nel frattempo
e raggiungere la patria con ogni mezzo
e da Babilonia a Gerusalemme
dopo lungo esilio finalmente tornare

Lì finiscono tutti i guai
canteremo sicuri il canto di Sion
e grazia eterna per il dono della grazia
il popolo beato tornerà a te, Signore

Lì il sabato seguirà al sabato
gioia perpetua celebrare il sabato
nè cesseranno i giubili ineffabili
che cantiamo noi e gli angeli

Eterna gloria a Dio eterno
da cui sono, per cui sono e in cui sono tutte le cose
da cui sono è il Padre, per cui sono è il figlio
in cui sono, è lo Spirito del Padre e del Figlio

— Munich Capella Antiqua | Sony, 1984

— Azam Ali (da Portals of Grace, 2002) con le scene di
Stealing Heaven (Donner 1988), film su Abelardo ed Eloisa

———

Il testo, tradotto in inglese (1854) come O what their joy and
their glory must be
[] è entrato nell'innario anglicano:

Manchester Cathedral Choir

La sua originalità emerge soprattutto nei sei planctus, che celano sotto immagini bibliche i casi del suo sventurato amore per Eloisa. Dal punto di vista della versificazione i planctus costituiscono un banco di prova delle possibilità tecniche offerte a un poeta del secolo XII; e Abelardo sembra volerle esplorare tutte con ostinato accanimento, sfruttando soprattutto l'area delle sequenze liberate dal giogo del parallelismo e ricondotte alla libertà della loro storia primitiva. In una ritmica perfettamente sillabica o determinata dall'accento intensivo, rivendica ai propri versi varietà di movenze (accanto al ritmo binario usa quello ternario) e li combina arditamente in nuove strutture strofiche penetrate da un fitto gioco di rime e di assonanze. Non meno nuovo è l'assetto musicale dei planctus, che sono intonati per esteso. Dobbiamo la conservazione della melodia al manoscritto Vaticano Regina lat. 288 redatto, per la parte che ci interessa, all'inizio del secolo XIII. I neumi sono in campo aperto e vagamente diastematici: ne consegue un alto grado d'incertezza nella individuazione della linea melodica.

Per il sesto componimento (Planctus David super Saul et Jonatha) si aggiungono altre due fonti, il cui apporto è notevole per la lettura melodica e ritmica. Il terzo pianto (Planctus virginum Israel super filia Jepte Galadite) è stato a lungo studiato per i suoi legami melodici con il Lai des pucelles; secondo il parere ora prevalente le due composizioni deriverebbero da un medesimo prototipo. Il segno della novità attribuibile ad Abelardo sta appunto nel legame – in qualsiasi modo lo si voglia interpretare – tra il planctus latino e un canto d'amore; si aggiunga, in altra direzione, l'influsso del planctus abelardiano sui planctus Mariae documentato dal riscontro di parallelismi melodici nel più famoso di questi ultimi, il Planctus ante nescia di Gottfried.

Planctus David Oxford camerata | Naxos, 1994
Planctus cygni Paul Hillier | Harmonia Mundi, 1994

Alla trascrizione moderna dei planctus di Abelardo hanno lavorato negli ultimi decenni non pochi studiosi con risultati talora contrastanti specialmente nell'interpretazione ritmica: si passa dalla notazione quadrata gregoriana (Laurenzi) all'applicazione della teoria modale (Lipphardt), attraverso il metodo «ritmicosillabico», che riconosce alla sillaba il valore di tempo-base anche se intonata da più note (Machabey e Vecchi). L'impossibilità di fondare su convincenti ed esclusive motivazioni una di queste letture ha sconsigliato altri studiosi (ad esempio Lorenz Weinrich ) dal proporne una propria. La trascrizione moderna in tal caso si riduce a una riproduzione della melodia in note uguali e prive d'un preciso valore metrico, con l'aggiunta dei fenomeni grafici più appariscenti, come le legature e le note liquescenti. Non la si giudichi una posizione rinunciataria: essa è il frutto d'una maggiore consapevolezza delle difficoltà implicite in ciascuna scelta e nell'ammissione che il problema ritmico della monodia nata nei secoli XI-XII non può oggi essere risolto in modo apodittico. [...]

I 'Carmina Burana'

L'ultimo significativo episodio della melica mediolatina (pur esso coinvolto nella problematica dell'interpretazione ritmica) ci presenta i canti dei goliardi o scholares. Sono in tutto una cinquantina, conservati nel canzoniere di Benediktbeuren (donde il nome di Carmina Burana) e in altre fonti minori. Benché redatto verso la fine del secolo XIII, il codice dell'abbazia di Benediktbeuren attualmente a Monaco, Staatsbibl., Clm. 4660, reca una notazione neumatica intraducibile direttamente. Per buona sorte, alcune canzoni si leggono in altri codici che aiutano a ricostruirne la melodia.

La poesia dei goliardi costituisce davvero un punto d'arrivo che assomma esperienze differenti (sequenze, lais, innodia, ritmi ritornellati per danza, ecc. ) con le ormai inevitabili sezioni in volgare. In larga misura è anonima, ma si conoscono i nomi di alcuni poeti: Abelardo, già ricordato, e il suo scolaro Ilario autore anche di drammi liturgici; il Primate, ossia Ugo di Orléans, l'Archipoeta di Colonia e Gualtiero di Chàtillon, che diede anche le note alle sue canzoni. La produzione melica in latino continuò anche nei secoli successivi, ma per servire il tempio. Per i temi profani le lingue nazionali erano ormai lo strumento maturo dell'espressione poetica e musicale.

In taberna quando sumus Adattamento di Giorgio Ubaldi della melodia originale
In taberna quando sumus Versione dai Carmina Burana di Carl Orff (coro e percussioni, 1937
Gruppi polifonici e solisti diretti da Giorgio Ubaldi | Clarius Audi, 1995
In taberna quando sumus,
non curamus quid sit humus,
sed ad ludum properamus,
cui semper insudamus.
quid agatur in taberna
ubi nummus est pincerna,
hoc est opus ut quaeratur;
si quid loquar, audiatur.
Quando siamo in osteria
non ci preoccupiamo di dover morire,
ma ci lanciamo in quel gioco
per il quale sempre ci diamo da fare.
Che cosa si faccia in osteria
dove il denaro ci offre da bere,
questo val la pena di sapere:
ascoltate quello che sto per dirvi!
Quidam ludunt, quidam bibunt,
quidam indiscrete vivunt,
sed in ludo qui morantur,
ex his quidam denudantur,
quidam ibi vestiuntur,
quidam saccis induuntur;
ibi nullus timet mortem,
sed pro Baccho mittunt sortem.
Alcuni giocano a dadi, altri bevono,
altri vivono dissolutamente;
e di quelli che indugiano a giocare
alcuni vengono spennati,
altri si arricchiscono,
altri devono vestirsi di sacchi.
Qui nessuno teme la morte,
ma in nome di Bacco si gioca a dadi.
Primo pro nummata vini
ex hac bibunt libertini;
semel bibunt pro captivis,
post haec bibunt ter pro vivis,
quater pro Christianis cunctis,
quinquies pro fidelibus defunctis,
sexies pro sororibus vanis,
septies pro militibus silvanis,
Prima si beve alla salute di chi paga
così usano gli smodati:
una volta per quelli finiti in prigione,
tre volte per tutti i viventi,
quattro per tutti i cristiani,
cinque per i fedeli defunti,
sei per le suore frivole,
sette per i briganti,
octies pro fratribus perversis,
nonies pro monachis dispersis,
decies pro navigantibus,
undecies pro discordantibus,
duodecies pro paenitentibus,
tredecies pro iter agentibus.
Tam pro papa quam pro rege
bibunt omnes sine lege.
otto per i frati pervertiti,
nove per i monaci scappati,
dieci per i naviganti,
undici per i litiganti,
dodici per i penitenti,
tredici per i viaggiatori.
Per il papa o per il re
bevon tutti senza limiti.
Bibit hera, bibit herus,
bibit miles, bibit clerus,
bibit ille, bibit illa,
bibit servus cum ancilla,
bibit velox, bibit piger,
bibit albus, bibit niger,
bibit constans, bibit vagus,
bibit rudis, bibit magus,
Beve la dama, beve il signore,
beve il soldato, beve il chierico,
beve quello, beve quella,
beve il servo con l'ancella,
beve il lesto, beve il pigro,
beve il bianco, beve il negro,
beve il costante, beve il vano,
beve il rozzo, beve il dotto,
Bibit pauper et aegrotus,
bibit exul et ignotus,
bibit puer, bibit canus,
bibit praesul et decanus,
bibit soror, bibit frater,
bibit anus, bibit mater,
bibit ista, bibit ille,
bibunt centum, bibunt mille.
beve il povero e il malato,
beve l'esule e lo sconosciuto,
beve il ragazzo beve il canuto,
beve il vescovo e il decano,
beve la suora, beve il frate,
beve la nonna, beve la madre,
beve questa, beve quello,
bevon cento, bevon mille.
Parum sescentae nummatae
durant cum immoderate
bibunt omnes sine meta,
quamvis bibant mente laeta,
sic nos rodunt omnes gentes,
et sic erimus egentes.
qui nos rodunt confundantur
et cum iustis non scribantur.
Poco duran seicento denari,
se bevon tutti
alla grande senza limiti.
pur se bevon a mente lieta,
Allora tutti ci disprezzano,
e siamo così poveracci!
Chi ci sprezza sia confuso,
e fra i giusti non sia scritto.

Trovatori (XII sec.)

La molteplicità delle esperienze metriche e musicali della lirica mediolatina sacra e profana fu la premessa indispensabile dalla quale fiorì la produzione lirica in lingua provenzale (d'oc) e francese (d'oïl). [...] La nuova poesia sbocciò nelle stesse regioni che erano state all'avanguardia nel fervore creativo di tropi, versus, sequenze e drammi; [...] vers appunto si denominarono le composizioni dei primi trovatori. È significativa anche un'altra derivazione lessicale, se pur non del tutto documentata: trovatore da 'trovare', e questo da tropare, cioè «fare dei tropi». [...]

Repertorio e fonti

Uno dei lati più appariscenti della poesia trobadorica e trovierica è l'enorme sproporzione tra il numero delle poesie (circa 5000) e quello delle melodie conservate (circa un terzo); dei soli trovatori abbiamo 2542 testi e 264 melodie. Tuttavia altri aspetti peculiari vanno ricordati: pur cominciando la fioritura della poesia provenzale tra il finire del secolo XI e l'inizio del XII, nessuno dei manoscritti che ne conservano le melodie è anteriore alla metà del XIII secolo e taluni scendono al XIV; inoltre la loro notazione non appartiene, in generale, all'ars mensurabilis e, come possiamo ormai immaginare, la loro trascrizione rimane nell'incertezza per quanto concerne il ritmo. Le fonti delle melodie trobadoriche ammontano a oltre una dozzina, ma quattro manoscritti hanno maggiore importanza: Parigi, Bibl. Nat., f. 22543 (160 melodie); Milano, Bibl. Ambrosiana, R. 71 sup. (81 melodie); Parigi, Bibl. Nat., fr. 844 (51 melodie) e fr. 20050 (25 melodie). Tra i manoscritti si contano stupendi codici miniati raccolti per personaggi importanti, forse sotto la direzione d'un musico competente, e manufatti più modesti quali potevano correre tra le mani d'un jongleur.

Autori

Generalmente l'attribuzione dei testi poetici è sicura, mentre sussistono perplessità per l'assegnazione di talune melodie sia per la disparità delle attribuzioni, sia perché siamo lontani dal conoscere con precisione quali trovatori-poeti abbiano dato anche la melodia ai propri testi: le uniche fonti di informazione al riguardo sono le vidas, la cui scarsa attendibilità è stata in troppi casi provata. A rendere più complesso il problema della paternità melodica si aggiungono talora le versioni assai distanti testimoniate per un identico testo; spesso non si tratta solo di varianti, ma di vere redazioni differenti.

Il primo dei trovatori conosciuti fu Guglielmo IX duca di Aquitania (1071-1126), del quale peraltro ci è pervenuto solo un frammento musicato. Di circa cento trovatori dei quali abbiamo le vidas, sette almeno sono donne e una buona metà appartiene a famiglie nobili; in ogni caso l'origine aristocratica non è, neppure per le vidas, un requisito necessario per la fama del trovatore. Quanto all'esecuzione, secondo le stesse vidas circa un terzo dei trovatori erano anche jongleurs, e quindi esecutori; di alcuni invece si afferma l'inabilità nel comporre i suoni o nell'esecuzione.

[strumenti] La diffusa opinione che i canti trobadorici fossero accompagnati da strumenti va ridimensionata; si deve tuttavia ammettere – e varie figurazioni miniate lo starebbero a dimostrare – che in certi casi la viella o altri strumenti abbiano doppiato la voce del cantante o abbiano interludiato tra una stanza e l'altra del testo.

[temi] Motivo centrale del canto trobadorico fu l'amor cortese, un concetto dai contorni abbastanza indefiniti, che andò tuttavia precisandosi con le generazioni di poeti; sulla sua origine (devozione cristiana alla Vergine? concezione araba?) il dibattito è ancora aperto. Non dovrà peraltro essere sottovalutata la componente popolare, cui sono improntate, ad esempio, le pastoureller, ossia il tema dell'incontro tra l'innocente (ma non sempre!) pastorella e il giovane nobile, tema che conosce infinite variazioni nelle più diverse tradizioni popolari. Anche il tema dell'alba (l'amico che veglia sugli innamorati e annuncia la fine del convegno amoroso per il levar del sole) nasce estraneo alla 'canzone cortese', senza dire che negli stessi schemi poetici si trattano talora argomenti politici, satirici, ecc. Neppure il tema religioso è assente nella produzione trobadorica, sebbene parecchi canti di contenuto religioso siano ritenuti dei contrafacta.

[generi] Che nel suo complesso, o in larga misura, la poesia trobadorica fosse poesia per danza è stato ripetuto innume revoli volte, ma tale opinione non ha alcuna consistenza storica, anche se in questo o quel canto possono ricorrere movenze ritmiche equiparabili alla danza (si narra, del resto, che Raimbaut de Vaqueiras abbia composto il notissimo Kalenda maya su una preesistente estampida). Probabilmente alla base dell'equivoco sta una diversa valutazione delle varie formule di refrains cui sono collegati il rondeau, il virelai e la ballade; ma secondo alcuni studiosi trovatori e trovieri non scrissero vireIaisballades nel senso rigoroso del termine e solo due trovieri composero rondeaux (quelli di Adan de la Hale sono tuttavia polifonici).

Trasmissione, prassi e restituzione

Una spiegazione tutt'altro che immotivata delle versioni multiple per singoli canti le attribuisce al fatto che per un lungo periodo le canzoni trobadoriche e trovieriche si sono trasmesse oralmente. Una prova di tale dipo di trasmissione verrebbe dal fallimento della filologia tradizionale nell'elaborazione dei rapporti stemmatici tra le fonti pervenute: nessuna fonte appare derivata da un'altra fonte nota; ma l'argomento più sicuro è dato dalla natura stessa delle discordanze fornite dai manoscritti: esse non sembrano rientrare nella normale tipologia degli errori grafici.

Da tali premesse – è evidente – discendono grosse conclusioni: la più vistosa è che noi potremmo non possedere alcuna delle canzoni nella forma originale; inoltre non sarebbe giustificata da parte di chiunque alcuna esclusione del materiale offerto dalle fonti, godendo esso di pari autorità; né sarebbe lecito prospettare una versione come la migliore o più vicina a un modello che solo noi, nel secolo ventesimo, crederemmo, secondo i nostri criteri, perfetto.

Se tali conclusioni sono valide in campo filologico, la loro portata è ancora più dirompente a livello musicale: in regime di trasmissione orale, nessun esecutore poté sentirsi in obbligo di ripetere sempre identica la stessa canzone. Secondo il concetto di esecuzione quale allora si aveva, il cantore reputava di essere fedele all'originale perfino – staremmo per dire: soprattutto – quando introduceva le sue variazioni. [...]

Accanto alla proliferazione delle versioni dovuta alla trasmissione orale vi sono poi i consueti fenomeni del variantismo imputabili alle peripezie della tradizione scritta. Talora l'analisi dei manoscritti prova perfino che la stessa affinità testuale non comporta affinità, e tanto meno, identità di melodia. [...] Per queste canzoni dunque si tratta di ricostruire nel modo criticamente più valido il testo e la melodia come ci sono documentati da una determinata fonte, che è testimone sicuro dell'ambiente e del periodo in cui fu redatta. L'edizione critica, frutto della comparazione tra le fonti, sarebbe fallace oltre che impossibile. [...]

La musica

La convenzione dell'amor cortese trovò espressione diretta e immediata nella cansó, la cui struttura più semplice è quella analoga alle composizioni innodiche. I sottotipi interni sono numerosi, ma il più frequente è dato dall'adozione di frasi iterate; preferita è la ripetizione melodica delle due prime frasi, con il seguente schema:

AB+AB+CDEF...

Assai complessa e varia è l'organizzazione delle rime delle coblas (stanze): il modello più comune ricorre nelle coblas unissonas che non solo hanno lo stesso schema di rime, ma anche lo stesso suono. Ad esempio, nella cansó di Jaufre Rudel Lanquan li jorn son lonc en may, la parola lonh è rima per i versi secondo e quarto di tutte le stanze:

1.    Lanquan li jorn son lonc en may
M'es belhs dous chans d'auzelhs de lonh,       
E quan mi suy partitz de lay
Remembra·m d'un'amor de lonh:
Vau de talan embroncx e clis
Se que chans ni flors d'albespis
No·m platz plus que l'yverns gelatz
a       
b
a
b
c
d
e
Quando le giornate sono lunghe, a maggio,
m'è grato il dolce canto d'uccelli di lontano,
e quando mi sono partito di là,
mi ricordo d'un amore di lontano.
Vado con animo imbronciato e depresso,
sì che né canto, né fiore di biancospino
più non mi piace dell'inverno gelato.
  [...]    
5. Be tenc lo Senhor per veray
Per qu'ieu veirai l'amor de lonh;
Mas per un ben que m'en eschay
N'ai dos mals, quar tan m'es de lonh.
Ai! car me fos lai pelegris,
Si que mos fustz e mos tapis
Fos pels sieus belhs huelhs remiratz!
a
b
a
b
c
d
e
Ben tengo il Signore per verace
e perciò vedrò l'amore di lontano;
ma per un bene che me ne viene
ne ho due mali, poiché tanto m'è lontano.
Ah! ch'io fossi là pellegrino,
così che il mio bordone e il mio saio
dai suoi begli occhi fossero ammirati!
Lanquan li jorn Ensemble Unicorn | dir. Marco Ambrosini | Naxos, 1996

Analogamente si hanno le coblas doblas, alternadas, ecc.; anche le coblas capcaudadas (rima identica tra l'ultimo verso d'una stanza e il primo della successiva) sono assai numerose.

Oltre alla cansó, le forme più frequenti sono il sirventès, che trattò anche argomenti eroici, moraleggianti e politici; il planh, di argomento triste e privo di una propria struttura musicale; il vers, che rifugge da ogni tipo di iterazione; ecc.

I personaggi della vicenda trobadorica sono quasi mezzo migliaio, alcuni noti soltanto per qualche strofa di cansó. I più celebri nella prima generazione del secolo XII furono Jaufre Rudel, Marcabru e Bernard de Ventadorn.

Nella seconda metà del secolo le ricerche formali presero il sopravvento sull'ispirazione e si diramarono in due direzioni: il trobar ric, una tendenza tesa a sperimentare le varietà della versificazione rappresentata da Raimbaut d'Orange e Arnaut Daniel; il trobar clus, caratterizzato dalle sottigliezze del pensiero, che ebbe protagonisti Peire D'Auvergne, Bernard Marti e Guiraut de Borneill.

Nel secolo XIII la decadenza investì la produzione, soprattutto nelle regioni che avevano visto la nascita del genere, mentre frutti preziosi maturavano altrove. In patria l'eccessiva raffinatezza e l'esoterismo condussero al declino favorito pure da tragici eventi.

Sotto il profilo tonale, le melodie trobadoriche non sono riducibili alle modalità della musica ecclesiastica, poiché l'ambitus di queste ultime è quasi sempre superato; tuttavia oggi non si è più così inclini, come voleva Pierre Aubry, a vedere nettamente anticipata dalle scale trobadoriche la tendenza verso le moderne tonalità maggiore e minore. La libertà è tale che spesso è impossibile assegnare alle canzoni un qualsiasi modo. La configurazione della melodia poi serba evidenti tracce d'una primordiale forma recitativa che potrebbe richiamare le formule salmodiche con il loro initium e la loro finale più o meno ornata; tipica è anche l'insistenza esclusiva della melodia (o il suo frequente ritorno) su due suoni che possono essere a intervallo d'un tono, d'una terza e, più raramente, d'una quarta [...]. Inoltre il movimento melodico appare organizzato ora attorno a un solo polo tonale di recitazione, altre volte attorno a due centri tonali: simili procedimenti coincidono con quelli testimoniati negli studi dell'etnomusicologia.

In generale si osserva che, a confronto con la complessità degli schemi metrici, le melodie suonano come improvvisazioni fissate nella memoria in modo assai tradizionale e semplice; inoltre appare inverosimile che si sia usata la notazione nel comporle. Con l'aiuto della notazione il trovatore avrebbe composto nuove e complicate forme; senza il suo sussidio «egli produsse brevi, semplici frasi, fluenti e forse ricche di suggestione, ma in una vena tradizionale e convenzionale» (van der Werf). Per questo ruolo il termine 'compositore' sarebbe inadatto, mentre è affatto pertinente quello di trovatore e troviere, nel senso di 'inventore'. [...] Ciò non toglie che nel repertorio trobadorico ricorrano esempi del più alto lirismo mai raggiunto dalla monodia in ogni tempo: alcuni componimenti per l'eleganza poetica e la dolcezza dell'intonazione costituiscono lo stupendo esordio delle letterature romanze: Can vei la lauzeta mover di Bernard di Ventadorn; Pax in nomine Domini e la pastorella L'autrier just'una sebissa di Marcabru; l'alba Reis glorios, verais lumi e clartatz di Guiraut de Borneill; l'anonima canzone A l'entrada del tens clar; ecc.

Trovieri (XII-XIII sec.)

Per la produzione dei trovieri valgono molte delle annotazioni fin qui raccolte. Esistono le stesse difficoltà per la traduzione delle melodie in veste moderna, ma si aggiunge il particolare che talune di esse sono entrate in composizioni plurivocali per le quali, ovviamente, è stata impiegata la notazione corrente della polifonia dugentesca.

Lo schema melodico fondamentale della chanson trovierica è AB AB' CDEF, ecc., dove B e B' differiscono soltanto nella cadenza finale: B = ouvert (cadenza sospensiva) e B' = clos (cadenza conclusiva). Da questo schema modello sono derivate molte varianti, soprattutto in rapporto alla posizione e alle iterazioni dei refrains, nel cui gioco sarebbe possibile identificare i primi esempi di rondeau e virelai.

Uno schema strofico nella forma del rondeau più maturo si coglie in Amereis mi vous di anonimo; ne riportiamo il testo segnando a lato lo schema melodico:

           Amereis mi vous, cuers dous,
a cui j'ai m'amour donnée?
AB         Mi amerete, o dolce cuore,
cui ho dato il mio amore?
  Nuit et jours je pens a vous.
Amereis mi vous, cuers dous?
AA Notte e giorno io penso a voi.
Mi amerete, o dolce cuore?
  Je ne puis durer sans vous,
vostre grans biauteis m'agreie.        
AB Io non posso durare senza di voi,
tanto mi piace la vostra gran beltà.
  Amereis mi vous, cuers dous,
a cui j'ai m'amour donnée?
AB Mi amerete, o cuore dolce,
cui ho dato il mio amore?

Tra le forme, assai diffusi furono i jeux-partis intonati alternativamente da due interlocutori sulla stessa melodia, con un envoi (commiato) finale. Si leggano le prime due strofe (sezioni dialogiche) del jeu-parti tra uno sconosciuto clers e il re Thiebaut di Navarra:

1.       Bons rois Thiebaut, sire, consoilliez moi:        
Une dame ai mout à lonctemp amée
De cuer leal, saichiez en bone foi,
Mais ne li os descovrir ma pensée;
Tal paour ai que ne mi soit veée
De li l'amors qui me destroint souvent,
Dites, sire, qu'en font li fin amant?
Souffrent il tuit ausi si grant dolour,
Com il dient dou mal qu'il ont d'amor?
a        
b
a
b
c
d
e
f
g
Re Thiebaut, sire, consigliatemi:
ho molto amato e a lungo una signora,
con cuore leale e in buona fede;
ma non oso scoprirle il mio pensiero,
tale è il timore che rifiuti
l'amore che sovente mi strugge.
Ditemi, sire, che fanno i sinceri amanti?
Soffrono davvero un dolore così intenso
come dicono, per la pena che viene d'amore?
2. Clers, je vos lo et pri que toigniez quoi;
Ne dites pas por quoi ele vos hée,
Mais servez tant et faites le, porqoi
Qu'ele saiche ce que vostre cuers bée,
Que par servir est mainte amors donée.
Par moz coverz et par cointes semblanz
Et par signes doit on venir avant,
Qu'ele saiche le mal et la dolor
Que fins amis trait por li nuit et jor.
a
b
a
b
c
d
e
f
g
Giovane, vi prego vivamente che stiate sereno;
non chiedete perché ella vi abbia in odio,
ma siate suo servo e fate ch'ella sappia ciò
di cui abbisogna il vostro cuore,
poiché per servire molto amore è dato.
Si deve procedere con parole allusive
e sguardi accorti e segni,
perché sappia la sofferenza e il dolore
che un sincero amante notte e giorno ha per lei

Il lai presenta spesso la struttura della coppia strofica propria della sequenza, dalla quale sembra derivato: negli esempi più antichi, numero e lunghezza dei versi e melodia cambiano a ogni coppia; generalmente il numero delle strofe ammonta a dodici, ma questa non è una regola costante. A seconda dell'argomento, le chansons possono chiamarsi d'histoire (o de toile), dramatiques, de danse, d'aube, à boire, ecc.

Il più antico troviere conosciuto è uno dei più illustri autori di romanzi versificati, Chrétien de Troyes, autore del Perceval le Gallois, cui Wagner ispirò il suo Parsifal. Verso la fine del secolo XII Conon de Béthune e Blondel de Nesle potevano già gareggiare con i poeti del Midi. Nel secolo XIII la vita musicale della Francia settentrionale, con il rinnovamento del patrimonio paraliturgico e i primi monumenti polifo nici della scuola di Notre-Dame, fu profondamente trasformata e la stessa monodia oscillò tra l'antica fonte d'ispirazione (troubadours) e i nuovi modelli. Tra il 1219 e il 1236 Gautier de Coinci scrisse chansons alla Vergine attingendo indifferentemente per le melodie alle sequenze, ai lais e ai conducti polifonici: indice d'una coesistenza di forme e di gusti a prima vista inconciliabili. Dagli inizi del secolo XIII si fece più consistente l'influsso delle forme musicali fisse di origine popolareggiante: ne risentirono le musiche di Thibaut de Champagne (1201-53) e, soprattutto, le composizioni del più alto talento trovierico: Adan de la Hale (1230 ca.-88 ca. ), autore del celebre Li Geus de Robin et de Marion, azione scenica composta forse per la corte di Napoli, alle cui sezioni cantate e danzate egli adattò refrains e chansons. Furono gli estremi bagliori di un'arte che, esportata fuori dal territorio francese insieme con quella dei troubadours, aveva già suscitato imitatori ed epigoni in quasi tutti i paesi d'Europa.

Minnesänger e la monodia in tedesco (XII-XIII sec.)

Sebbene l'esistenza d'una tradizione musicale autoctona non possa essere negata ai paesi di lingua tedesca (si ricordino i canti goliardici), una ricca documentazione a noi giunta testimonia la nascita d'un movimento ispirato agli ideali e ai modi della poesia e della musica francese e provenzale. La presenza del troviere Guiot de Provins tra il seguito di Beatrice di Borgogna, che nel 1156 andò sposa all'imperatore Federico Barbarossa, assicura che almeno a quella data deve farsi risalire l'inaugurazione di più fitti rapporti tra l'arca francese e quella germanica. Tali scambi si effettuarono sia grazie alla trasmissione di canzonieri, sia per i viaggi o per il soggiorno di giullari francesi nelle corti germaniche. E noto, del resto, che intorno al 1200 Peire Vidal giunse fino all'Ungheria.

Minnesänger è il termine con cui furono designati i poeti-musici tedeschi. Il loro movimento, Minnesang (da Minne = amor cortese e Sang = canto), prese le mosse, a quanto pare, dalla Baviera e dall'Austria, ma una seconda corrente, attraverso il basso Reno, lo introdusse in Renania, Turingia e Svizzera.

I termini cronologici si possono fissare all'incirca tra il 1170 e la metà del secolo XIV e abbracciano due o tre fasi creative, sulla cui delimitazione gli specialisti non sono peraltro concordi.

La produzione dei Minnesänger ci è conservata in fonti piuttosto tardive rispetto al loro periodo: le principali sono il canzoniere di Jena (secolo XIV; 91 melodie) e quello di Colmar (secolo XVI; contiene 107 melodie, alcune delle quali appartengono già al più tardo genere dei Meisterlieder).

La dipendenza dai modelli francesi fu pressoché totale fino al 1200: per questo periodo si conoscono soltanto melodie presenti in fonti franco-provenzali le quali, con ogni probabilità, furono adottate nel momento in cui si composero i testi tedeschi. Anche in seguito la creazione dei testi risentì fortemente del repertorio francese per il contenuto e le forme, per le immagini poetiche, la terminologia cortese e la struttura strofica; analogie molto strette, del resto, si notano nelle melodie.

Per ognuno dei generi si riscontrano denominazioni corrispondenti: il Lied (dalla cansó); il Tagelied (dall'alba); il Leich (dal lai); lo Spruch (dal sirventès); ecc.

È usata di preferenza la forma di Bar (poema, canzone), la cui struttura poetico-musicale consiste nella ripetizione di due Stollen (corrispondono ai piedi o mutazioni della nostra ballata), cui si aggiunge l'Abgesang (ad esempio: AB+AB+CDE...); assai spesso l'Abgesang utilizza in vari modi il materiale melodico degli Stollen creando rime musicali come AB+AB+CDB: in tal caso si ha il tipo di canzone «a rotundello». Nel Lied l'amore verso la gentildonna tende ad assumere aspetti più idealisti, quasi una devozione di natura cavalleresca; accanto al tema amoroso ricorrono con frequenza l'esaltazione della natura e gli argomenti religiosi.

Tra i Minnesänger della prima generazione i più noti sono: Friedrich von Hûsen, Hartmann von der Aue (autore anche del poema narrativo Der arme Heinrich), Reinmar il Vecchio e Rudolf von Fenis. Uno stile più personale rivelano i rappresentanti del secondo periodo: Walther von der Vogelweide (autore tra l'altro d'un noto Palästinalied che si riferisce alla crociata del 1228 e impronta la sua melodia su Lanquan li jorns on lonc en may di Jaufre Rudel); Wolfram von Eschenbach (diventerà il Wolfram nel Tannhäuser wagneriano); Heinrich von Meissen, denominato il Frauenlob forse perché in una tenzone canora aveva difeso il termine Frau (signora) invece di Wip (donna); con la sua morte (1318) cominciò il declino del Minnesang. Per ognuno di questi cantori è possibile indicare il modello o i modelli franco-provenzali da cui trassero ispirazione per le loro opere.

Walther von der Vogelweide Palästinalied | London Early Music Consort | Decca, 1991
Tannhäuser Steter dienest der ist guot | I Ciarlatani | Christophorus, 2004 — testo

Come la corrispondente produzione romanza, i Minnelieder presentano problemi d'interpretazione ritmica, con la fondamentale differenza che la versificazione germanica è fondata sul numero degli accenti forti e non esige uguaglianza numerica delle sillabe non accentate. Ciò impedisce che la 'teoria modale' possa essere applicata sistematicamente nelle trascrizioni.

Meistersinger e Geisslerlieder

L'eredità del Minnesang fu, in certo senso, assunta dal Meistersang (da Meister = maestri e Sang = canto), che tuttavia si distinse dal primo per essere estraneo agli ambienti di corte e per rappresentare l'espressione della classe borghese-cittadina.

Si è soliti dividere il Mestersang in due filoni: il primo è formato da cantanti girovaghi (il rappresentante tipico è Behaim); il secondo da scuole con sede stabile. Alle origini di queste ultime istituzioni sta la figura dello stesso Frauenlob, che fu a capo della scuola di Magonza, il centro più autorevole dei Meistersinger prima che Hans Sachs (1494-1576) portasse a pari importanza la scuola di Norimberga.

Per la loro analogia con i canti penitenziali, soprattutto italiani, e per aver anticipato alcuni tratti del corale luterano, vanno inoltre ricordati i Geisslerlieder (Geissler = flagellanti), un repertorio di canti popolari religiosi fiorito nell'Europa settentrionale nel secolo XIV, durante l'infuriare della peste nera.

Le cantigas di Alfonso X il Savio (XIII sec.)

La collocazione geografica favorì un massiccio irradiamento della lirica provenzale anche in Spagna e Portogallo. Non solo le corti di Catalogna, Castiglia e Aragona accolsero numerosi trovatori, ma gli stessi signori catalani si esercitarono nel poetare (la parlata del Limosino era usata in Catalogna prima che si imponesse il catalano). L'influsso provenzale si prolungò in certe regioni fino al secolo XV, ma la collezione più grandiosa della monodia iberica era già stata raccolta da Alfonso X «el Sabio», re di Castiglia e di León dal 1252 al 1284: si tratta delle Cantigas de Santa Maria.

Con il termine cantigas si designavano i componimenti tanto sacri come profani della letteratura gallego-portoghese. In questa lingua erano già state composte sette canciones de amor attribuite al joglar Martin Codàx (inizio del secolo XIII), sei delle quali ci sono pervenute con una melodia in notazione amensurale: un minuscolo precedente a paragone delle oltre 400 canzoni che formano la raccolta di Alfonso. Per comprendere l'humus culturale dal quale sbocciarono le cantigas, basti ricordare che il più tardo dei trovatori, Guiraut Riquier, dimorò a lungo alla corte di Alfonso.

Martin Codàx
Eno sagrado en Vigo
bailava corpo velido.
Amor ei.
Sul sagrato [della chiesa] di Vigo
ballava un corpo leggiadro.
Oh amore.
En Vigo, no sagrado
bailava corpo delgado.
Amor ei.
A Vigo, sul sagrato,
ballava un corpo elegante.
Oh amore.
Bailava corpo velido
que nunca ouver' amigo.
Amor ei.
Ballava un corpo leggiadro
che mai ebbe amico.
Oh amore.
Bailava corpo delgado
que nunca ouver' amigo.
Amor ei .
Ballava un corpo elegante
che mai ebbe amico.
Oh amore.
Que nunca ouver' amigo
ergas no sagrad' en Vigo.
Amor ei.
Che mai ebbe amico
se non sul sagrato di Vigo.
Oh amore.
Que nunca ouver' amado
ergas en Vigo no sagrado.      
Amor ei.
Che mai ebbe amico
se non a Vigo, sul sagrato.
Oh amore.
Cantiga VIEno sagrado en Vigo | The Dufay Collective | Harmonia Mundi, 2005

Le cantigas celebrano in prevalenza i miracoli della Vergine e si ispirano ai Miracles de Notre Dame del monaco troviere Gautier de Coinci; ci sono pervenute in alcune fonti, tre delle quali conservano anche le melodie; sono anonime, ma non è da escludere che alcune appartengano allo stesso re Alfonso. La struttura strofica predominante ricalca quella del virelai francese: è aperta da un ritornello (estribillo), cui segue la estrofa chiusa nuovamente dall'estribillo; ma all'interno di questo schema le varianti sono numerose. Un altro elemento derivato dalla tradizione francese è la presenza delle due cadenze sospensiva e conclusiva (overt e clos). Secondo Higinio Anglès, editore e studioso delle melodie delle cantigas, a redigere alcune delle fonti spagnole sarebbero stati tecnici consumati nella paleografia musicale e perfettamente al corrente delle innovazioni musicali europee, ivi compresa la produzione polifonica, a differenza dei copisti francesi e provenzali, i quali erano più letterati che musici; ancor meno preparati sarebbero stati i notatori dei laudari italiani, dai quali sembra conosciuta soltanto la notazione quadrata gregoriana. [...]

Circa l'origine del modello strofico o dei modelli strofici impiegati nelle cantigas, dai primi decenni del nostro secolo gode buona fortuna l'ipotesi d'un influsso arabo, che vede nello schema dello zagial araboandaluso (e cioè un tristico con volta e ritornello) il precedente metrico-strofico della lirica romanza. Non mancano tuttavia studiosi che sostengono l'illogicità di attingere in repertori diversi quei modelli che la stessa lirica sacra e profana in latino proponeva a poeti e musici. Perfino lo schema del virelai, ad esempio, ricorre in componimenti mediolatini e addirittura in Spagna. Il problema è molto complesso e non esige, meno che mai in questa sede, una soluzione apodittica; si devono peraltro tenere distinti i due aspetti, quello letterario e quello musicale. Se nell'ambito metrico e poetico i canali di derivazione possono essere individuati o, più esattamente, intravisti, nulla di simile si verifica in campo musicale: per quanto concerne le melodie la teoria dell'influsso arabo è, fino ad oggi, una mera ipotesi.

Cantiga
Questa cantiga de escarnho (di derisione) usa la melodia di Como poden per sas culpas, la cantiga 166 riprodotto qui di seguito in due versioni, il cui testo orginale è fra le Cantigas de santa Maria.
Martin jograr, que gran cousa:     
ja sempre con vosco pousa
vossa molher!
Martin il giullare, che originale siete:
dormite sempre
con vostra moglie.
Ve e des m'an dar morrendo
e vós jazedes fodendo
vossa molher!
Vedete che muoio d'amore,
e voi continuate a baciare
vostra moglie.
Do meu mal non vós doedes,
e moir' eu, e vós fodedes
vossa molher!
Del mio soffrire non vi curate,
e io muoio mentre voi baciate
vostra moglie.
Martin jograr The Dufay Collective | Harmonia Mundi, 2005
Como poden per sas culpas Ensemble Perceval | Arta, 2000
Como poden per sas culpas Kvinterna | Arta, 2000

Inghilterra (XII-XIII sec.)

La lirica provenzale si propagò fino all'Inghilterra, grazie anche ad Eleonora d'Aquitania andata sposa a Enrico d'Angiò capostipite della casa angioina in Inghilterra [Plantageneti]. Da una poesia di Bernard di Ventadorn risulta ch'egli visse per qualche tempo oltre Manica. Tuttavia tali fatti non diedero origine a un consistente movimento poetico autonomo, se non altro perché la lingua letteraria usata in Inghilterra fino alla metà del secolo XIII era il franco-normanno.

Tra le reliquie rimaste, si ricorda il «canto d'un prigioniero», un lai francese accompagnato da traduzione inglese. Influenze più durature sulle abitudini musicali inglesi esercitò senza dubbio il canto liturgico, come si osserva nelle canzoni attribuite dalla tradizione a S. Godric (m. 1170), un eremita vissuto a lungo in una caverna del nord dell'isola. Del secolo XIII ci sono pervenuti pochi esempi di liriche profane pervase da un tono triste e pessimistico, e alcune danze strumentali.

Italia: la monodia non scritta (XII-XIII sec.)

Notissimi passi delle opere dantesche basterebbero a testimoniare la profonda penetrazione in Italia del pensiero e della poesia trobadorica. Raimbaut de Vaqueiras, Peire Vidal e Gaucelm Faidit, per accennare solo ai più noti, vi soggiornarono. I rimatori della «scuola siciliana» ne subirono l'influsso, per non dire degli italiani (vedi Sordello mantovano) che poetarono in provenzale. La denominazione delle forme poetiche (ballata, tenzone, sirventese, ecc. ) è visibilmente imparentata con quelle francesi. Ma per quanto concerne la musica, non ci sono pervenute che indirette testimonianze ...

Invece una ben più vasta presenza della musica si registra appena si esce dal dominio delle scuole letterarie e ci si accosta alle occasioni della vita quotidiana, siano esse legate alle abitudini religiose e devozionali o soltanto ai momenti gioiosi delle feste di popolo. La Cronica di Salimbene de Adam (metà del secolo XIII) non potrebbe offrirci testimonianze più esplicite: chi non ricorda frate Enrico Pisano? La sua estemporanea creazione d'un testo paraliturgico dalla canzonetta E s'tu no cure de me | e' no curarò de te è indice non ambiguo della compenetrazione tra musica e vita e tra mondo religioso e profano; pur in altra direzione, ha pari valore quella «inusitata... et pulcra cantio», che lo stesso Salimbene narra d'aver udito a Pisa, intonata da giovani e fanciulle e accompagnata da viole e cetre e altri strumenti. La musica come espressione dell'incontro tra ambito religioso e profano.

Le laudi francescane

La spinta determinante in tale direzione, venne dalla recente visione francescana della realtà terrena. Le Laudes creaturarum di Francesco (purtroppo i righi musicali del codice 338 di Assisi sono rimasti privi di note) e i suoi frati ioculatores Domini parlano d'una assunzione del registro 'mondano' nella lode al Creatore. Certo, non mancavano i precedenti biblici e liturgici (Laudes matutinae); ma l'innesto francescano rinvigorì di prepotenza quel filone, e la spiritualità cristiana ne sentì la forza per secoli, insieme con le spinte al rinnovamento provenienti dagli altri ordini mendicanti (domenicani, servi di Maria, ecc.). In simile fermentato terreno nacque la lauda, un canto devozionale delle fraternite laicali sorte collateralmente al nuovo genere di testimonianza evangelica offerto dai Mendicanti.

Per la primissima fase storica della lauda (prima metà del secolo XIII) non possediamo che spezzoni: da quello del Pianto cassinese neumato in calce alla Passione scoperta dall'Inguanez, alla lauda «veronese» Beneta sia l'ora e'l zorno, alla cosiddetta «Lauda dei Servi di Bologna» Rayna possentissima e a qualche altro lacerto: un patrimonio ridotto, ma assai vario sotto il profilo metrico. Pur se manca la musica, non v'è dubbio che simili testi erano destinati al canto; ciò potè avvenire, ad esempio, nelle confraternite mariane fondate da S. Pietro Martire fin dal 1232 e diffuse presto in molte città.

I Laudesi e i Disciplinati

Tuttavia momento decisivo per lo sviluppo del nuovo canto in volgare fu la fondazione di fraternite che proposero come scopo fondamentale delle proprie riunioni il canto delle laude: in un certo senso confraternite specializzate nel canto delle laude e perciò dette dei «Laudesi». Secondo recenti indagini, la prima fraternita di Laudesi di cui si conosca l'attività nacque a Siena nel 1267 presso una chiesa domenicana; una testimonianza posteriore di circa un ventennio assicura che per il canto delle laude vi si educavano dei pueruli e che tali esecuzioni erano state introdotte «ad quasddar alias civitates».

Con queste precisazioni passa in secondo piano in rapporto alla genesi della lauda la grande devotio promossa nel 1260 a Perugia da Rainerio Fasani, dalla quale prese vita il movimento dei «Disciplinati». Questi crearono senza dubbio un repertorio laudistico, il cui tema preminente se non esclusivo fu quello della Passione, ma – a nostra conoscenza – solo nei primi decenni del secolo XIV promossero lo sviluppo della lauda drammatica (uno dei più antichi testimoni è il codice di Assisi, Bibl. Comunale, 705, datato 1317, detto «Illuminati»).

Laudesi e Disciplinati dunque percorsero strade con esiti diversi: i secondi crearono il teatro volgare italiano (i manoscritti che li riguardano non hanno notazione musicale, ma sappiamo che le loro laude erano cantate su due schemi melodici: quello «pasquale» e quello «passionale»); ai Laudesi va riconosciuto il merito della diffusione delle laude liriche (i cui temi variano secondo il calendario liturgico) e d'una prassi esecutiva tecnicamente curata; donde la necessità di strumenti idonei, come i codici notati, due esemplari dei quali sono giunti integri fino a noi.

Tuttavia, prima di descrivere queste fonti, è da menzionare un evento di vitale importanza nella protostoria della lauda, anteriore alla formazione dei manoscritti pervenuti: voglio dire l'adozione dello schema strofico della ballata profana. Malgrado l'infittirsi delle ricerche negli ultimi anni, l'interrogativo circa il responsabile del fortunato trapianto rimane aperto: i candidati cui la critica ha dato via via preferenza sono Guittone d'Arezzo, Jacopone da Todi e Garzo, l'unico nome di rimatore che, nel generale anonimato, appare per auto-attribuzione nelle fonti.

Le fonti

Motivi di cronologia rendono difficile la discriminazione delle proposte, specialmente in rapporto alla datazione del più antico dei due manoscritti recanti le melodie, il celebre Cortonese 91, confezionato, a quanto pare, prima del 1297. Che Cortona possa essere stata tra le città nelle quali si trapiantò in breve tempo l'innovazione senese, è abbastanza credibile: il prezioso cimelio conservato nella cittadina ne sarebbe plausibile prova.

Esso appartenne alla fraternita di Santa Maria delle Laude eretta presso la Chiesa di San Francesco in Cortona e consta di due parti, delle quali la prima è l'unica a recare le intonazioni musicali: 44 melodie, più due aggiunte e forse di poco posteriori. I testi sono disposti non casualmente: le prime sedici laude sono mariane; le altre seguono approssimativamente il calendario liturgico con l'inserimento o l'aggiunta di alcune santorali. La facies del manufatto è modesta, priva com'è di miniature e di iniziali ornate; in compenso la lezione dei testi è assai corretta e incomparabile è il valore delle melodie: il corpus più antico di testi italiani musicati.

«Maestoso, copioso e in ogni pagina splendido» (Liuzzi) è il secondo laudario, ora a Firenze, Biblioteca Naz., B.R. 18 (già Mag. ILL 122 ) [Magliabechiano 18]. Lo possedette nella prima metà del Trecento la fiorentina Confraternita di Santa Maria, che aveva sede presso gli Agostiniani di Santo Spirito, poi quella detta degli Umiliati d'Ognissanti. Il laudario vero e proprio costituisce la prima sezione del codice, cui seguono due quaderni con testi latini (in prevalenza sequenze) monodici o plurivocali. Sontuose miniature campeggiano talora per buona parte della pagina; il loro stile, la grafia, la qualità di molte melodie suggeriscono una datazione che può spingersi dal 1310 al 1330-40; ovviamente, alcune intonazioni sono anteriori di qualche decennio alla stesura del manoscritto. Vi sono conservate 97 laude, delle quali 20 sono comuni con il Cort. 91; 88 sono i testi musicati, di cui 10 hanno somiglianza di melodia (non vi è mai identità perfetta) nei due codici; nel Magliabechiano la stessa melodia è applicata in sei casi a due testi differenti: restano 72 intonazioni originali, alle quali si aggiunge un'ultima lauda notata dopo le sequenze.

Considerazioni di natura esclusivamente testuale rendono attendibile l'ipotesi dell'esistenza d'un protolaudario costituitosi in area toscana (forse senese?), al quale rinvierebbe anche il repertorio dei manoscritti trecenteschi privi di musiche, come il laudario pisano ora all'Arsenal di Parigi, 8251, e altri. La recente scoperta di fogli notati d'un laudario lucchese (A. Ziino, 1971) confermerebbe, anche sotto il profilo musicale, tale congettura, specialmente in relazione con il BR 18. Ma forse ulteriori determinazioni potranno venire dal ricupero, attualmente in corso, di fogli notati appartenenti a uno o più laudari smembrati e dispersi in varie biblioteche europee e americane. [...]

La musica

Nulla sarebbe più lontano dal vero quanto la valutazione tendente a livellare nell'omogeneità o, ancor peggio, nella monotonia le melodie delle laude dugentesche. L'analisi attenta rivela una varietà insospettata: dalla modulazione raffinata, al sapore di canto popolare; dall'intonazione processionale semplice e austera, alla canzone a ballo; dal cantare narrativo e drammatico che insiste sulle note ribattute (si pensi alla stanza di De la crudel morte de Cristo), al tono ora eccitato, ora sereno e disteso e sicuro.

Constatazioni più tecniche rivelano: l'eco di strutture litaniche, a formula unica continuamente ripetuta di verso in verso sia nella ripresa, sia nella strofa; forme parallele alla strofa innodica, cioè senza ripetizione di segmenti melodici (schema melodico: ABCD); qualche residuo della struttura sequenziale nell'uguaglianza melodica delle mutazioni, per quanto i due caratteri specifici della sequenza (replica d'un motivo melodico su due strofe e cambio di melodia dall'una all'altra coppia strofica) non trovino perfetto riscontro in nessun caso delle laude; scarse tracce di preziosità trobadoriche e forte presenza delle modalità del canto ecclesiastico (almeno negli esempi di più arcaica fattura), ma il deuterus (il modo di Mi) è quasi scomparso; e poi affiora la tensione verso le tonalità moderne maggiore e minore. Molte melodie si stendono dal Fa acuto all'ottava bassa, con netto sapore della tonalità di Fa maggiore. Non poteva, d'altro canto, essere diversamente, se simili tendenze abbiamo notato perfino nei canti paraliturgici in latino. In una parola: legame con la tradizione e già proiezione verso il futuro, per quanto riguarda l'assetto tonale.

La notazione

La notazione dei due laudari è quadrata amensurale, su rigo generalmente tetralineo; per la sua natura essa impone ai trascrittori il consueto problema dell'interpretazione ritmica. A parte sporadici e ridotti tentativi operati in precedenza con criteri ora inaccettabili, il problema fu affrontato in tutta la sua ampiezza e per l'intero repertorio da Fernando Liuzzi (1934). Al criterio da lui adottato, come a quello che per decenni è stato universalmente seguito da editori ed esecutori, dedichiamo pertanto qualche cenno. Il principio di partenza (valido non solo per il Liuzzi, ma per chiunque voglia ricostruire la melodia d'un testo, specialmente se metrico) è che il nesso tra suono e parola richiede con ineludibile forza un disegno ritmico dei suoni; se le parole sono organizzate metricamente, esse condizionano e determinano la linea melodica, che a sua volta rafforzerà l'organizzazione metrica del testo. Si assume pertanto la sillaba accentata come unità di tempo, cui si adeguano i valori dei gruppi di sillabe non accentate. Poiché, secondo l'opinione del Liuzzi, sullo scorcio del secolo XIII erano prevalenti i ritmi pari (binari) ed essendo il verso più frequente nelle laude l'ottonario piano accentato in prima, terza, quinta e settima sede, «il ritmo musicale che con tutta spontaneità s'attaglia al verso, è il seguente:

O di- vina virgo flore
1 2 3 4

cioè quattro battute o piedi di due movimenti ciascuno. Ad ogni sillaba corrisponderà pertanto una nota, oppure un gruppo di note la cui somma risulti eguale alla nota semplice». Eventuali ipermetrie o ipometrie devono essere ricondotte, attraverso riduzione o aumento dei valori, allo schema dell'ottonario. In pratica si ha il perfezionamento del sistema applicato dal Riemann (Vierhebigkeit) per la trascrizione delle melodie trobadoriche.

Non si può negare che il criterio scelto dal Liuzzi abbia dato positivi risultati nel caso di melodie sillabiche o poco ornate, ma limitatamente alla prima strofa (il Liuzzi infatti non si occupò delle strofe successive alla prima). Più discutibile e sottoposto a numerose critiche da parte degli specialisti l'esito delle trascrizioni di melodie melismatiche, per le quali sono inevitabili gruppi di note con ridottissimi valori (cinque, sette biscrome, ecc.); senza dire che, generalmente, sono la scelta pregiudiziale e l'inflessibilità dello schema a quattro piedi ad essere giudicate inaccettabili. In questo senso si sono pronunciati in sede di recensione J. Handschin e Y. Rokseth, pur riconoscendo al Liuzzi il merito d'avere offerto agli studiosi un materiale d'inestimabile valore, specialmente con l'edizione dei due manoscritti in facsimile. E in effetti si può affermare che il 1934 ha inaugurato una nuova stagione di studi sulla lauda dugentesca ...

Facciam laude a tucti santi

Incipit della lauda nel Magliabechiano br 18 della Biblioteca Centrale di Firenze
Ripresa:
Facciam laude a tucti i santi | colla Vergine Magiore | di bon core con dolçi canti | per amor del Criatore.
Strofe:
1. Per amor del Criatore | con timore et reverença | exultando con baldore | per divina provedença.
2. Tutt'i sancto per amore | intendiam con ecellença | di far festa al lor piacença | con grandissimo fervore.
3. Tuta gente dica «Ave» | a la Vergine de' sancti | k'ella è l'angegnosa kiave | che li serra tutti quanti.
4. Ell'è porto et ell'è nave, | ell'è stella delli erranti | tutta la celestial corte | la risguardi a tutte l'ore.
5. Innançi al throno imperiale | stanno i quatro Vangelista | per la luce supernale | tutta la corte n'à vista.
6. Che laudan perpetuale | lo Segnore col Batista. | Alleluya alleluya | Agnus Dei et Pastore.
Facciam laude a tucti santi La Reverdie | Arcana, 1997