Campi elisi senza pace
Appunti sul Quintetto D. 956 di Schubert

  Già pubblicato come: Davide Daolmi, Guida all'ascolto: Franz Schubert (1797-1828), Quintetto in do maggiore per due violini, viola e due violoncelli (1828), op. post. 163, D. 956, in Teatro Comunale. Stagione concertistica 1997-98, programma di sala per il concerto del Sestetto d'archi dei Filarmonici di Berlino (Cagliari, 16 aprile 1998), Cagliari: Scuola Sarda, 1998, pp. 19-33.

Revisione 2002 © Daolmi


La 'D.' che precede il numero di catalogo delle opere di Schubert sta per Deutsch che in tedesco vuol dire appunto 'tedesco', ma non ha niente a che vedere con la nazionalità del compositore (che infatti era austriaco). Deutsch è il nome, anzi il cognome, di un musicologo che si mise a contare tutte le musiche scritte da Schubert, le ordinò cronologicamente e, nel 1951, pubblicò il catalogo completo che da quel momento prese il suo nome (meglio: l'iniziale) – i più dotti, o quelli che amano esibire nozioni, non leggono perciò "di 956" ma "Deutsch 956".

Ciò che è stupefacente nel riferimento al catalogo non è tuttavia la lettera ma il numero: appena compiuti i trent'anni, Schubert aveva già un elenco di composizioni musicali che si avvicinava al migliaio. Sicuramente pochi sono i compositori che possono vantare un così quantitativamente cospicuo corpus produttivo (Bach, Telemann e forse qualcun altro), ma credo nessuno abbia tagliato simile traguardo in soli tre decenni di vita.

Non è questione meramente computistica. Schubert muore infatti giovanissimo, all'età di 31 anni, avendo già scritto 9 sinfonie (come Beethoven, Bruckner, Dvorák, Mahler etc.), 15 sonate per pianoforte, più di 600 Lieder. Sembrerebbe di essere di fronte alla produzione di tutta una vita – come in effetti è – quando invece è solo la produzione di un'esistenza troncata a metà (chiedersi che cosa avrebbe mai scritto se fosse vissuto altri trent'anni, come meritava, è domanda talmente ovvia che per rispetto del lettore la eviterò).

Eppure, gli ultimi suoi lavori sono di tale sicurezza compositiva e profondità d'espressione da parere l'opera di un uomo di infinita e navigata esperienza. Fra questi è il Quintetto in do che s'erge a monumento della produzione cameristica ottocentesca.

La momumentalità non è certo nella durata – quasi un'ora con tutti i ritornelli indicati in partitura – ma proprio la sua ampiezza è, fra le altre cose, elemento caratteristico, anzi, strutturale. Certo impone all'ascolto un impegno maggiore, ma non per dilatazione gratuita: la sua estensione è lo spazio necessario alle idee espresse. Spesso, per riguardo all'ascoltatore, s'usa eliminare alcuni ritornelli. Ebbene, penetrati nella filosofia del pezzo, si percepiscono tali soppressioni (delle apparenti ripetizioni) come vere e proprie mutilazioni. Non mi riferisco solo allo Scherzo (III tempo), dove la rapidità del movimento (presto) rende spontanei i continui da capo; più forzata appare per esempio l'abitudine un po' frettolosa di non ripetere l'esposizione del I tempo indicata a mis. 154.
Ex. 1
Quintetto, I tempo [miss. 149-156].
Le ultime battute della parte espositiva del I tempo (il segno di ritornello è fra le miss. 154 e 155).


  Nel dettaglio: l'accordo sforzato conclusivo, quale settima di dominante, obbliga ad una risoluzione a do, ovvero la triade d'esordio del quintetto (e quindi al da capo). Poiché la musica riprende con un'accordo di sensibile di la (mis. 155, si veda il frammento riprodotto) il collegamento diretto fra le mis. 154 e 155 produce quella che si chiama cadenza evitata, cha si giustifica solo se la medesima cadenza – risolta – è stata udita precedentemente (ovvero osservando il ritornello). Se quella settima conclusiva in sforzato fosse già stata udita durante l'esposizione, la soppressione del ritornello sarebbe del tutto condivisibile, ma così non è e l'orecchio educato se ne accorge.

Questa forse un po' specialistica spiegazione è solo per dimostrare come lo spazio che Schuber si prende nelle sue ultime opere (lo stesso discorso vale infatti per le sonate, le sinfonie etc.) non è solo ridondanza, ma un'esigenza interiore. Un'esigenza tanto forte che Schubert insisteva a far valere malgrado le critiche che gli alzavano i suoi stessi contemporanei. Un recensore del giornale "Der Sammler" (con cinismo che si direbbe sottilmente caustico, se non rivelasse uno spirito miope e gretto) scrisse in questo senso della Fantasia per violino e pianoforte, eseguita pochi mesi prima la composizione del Quintetto: "La Fantasia ... supera di un po' il tempo che i viennesi sono disposti a dedicare ai loro piaceri estetici. La sala si è progressivamente svuotata, e il vostro corrispondente vi confessa che anch'egli non saprebbe dirvi come si sia concluso questo pezzo di musica".

Dei "piaceri estetici" dei viennesi possiamo non occuparci, eppure quegli stessi obbligarono Schubert a fare la fame per la scarsa considerazione che gli editori concedevano ai suoi lavori, troppo lunghi, troppo difficili e spesso con organici improbabili, come nel caso di questo Quintetto, che al raddoppio della viola preferisce quello insolito del violoncello.

Anche Boccherini (la cui musica Schubert conosceva molto bene) usava due violoncelli per i suoi famosi quintetti, ma la taglia del primo dei due era più alta e più simile a una viola. La scelta quindi, insolitamente ardita, del raddoppio del basso (che già possiede una sonorità più potente degli altri archi) muove da modelli differenti. Per dar ragione a questo organico, sulla cui tipologia molti hanno fatto ipotesi, credo si debba affrontare l'indagine in modo diverso. Mi spiego.

Se si osserva l'immenso quartetto nel suo insieme si potrà notare quanto ben equilibrata è nell'Allegro la forza drammatica del primo tema contrapposta alla lirica spontaneità del secondo affidato al violoncello I (uno di quei temi che solo Schubert poteva scrivere); né passerà inosservata la tensione drammatica dello Scherzo, così Beethoveniano eppure così imprevedibile; ovvero non meno che irresistibile si giudicherà il finale dal sapore quasi popolare, forse tzigano – un gaio sorriso eppur gonfio di disprazione. Tutti elementi che da soli concorrono al capolavoro; ciò malgrado quanto di realmente straordinario, stupefacente per la sua potenza espressiva, unico per stile e costruzione, rimane, senza possibilità di smentita, l'incredibile Adagio, II tempo del Quintetto. E proprio dall'analisi di questo movimento si possono trarre numerose risposte.

Non si ha notizia della genesi del Quintietto ma credo che proprio la volontà di collocare l'Adagio in uno spazio consono abbia mosso Schubert a scrivere l'intero lavoro. Non è abitudine di Schubert lasciarsi andare a tempi tanto lenti. Solitamente agli adagi di sonata preferisce un andante – quasi temesse l'immobilità del ritmo (strada diretta per l'introspezione e la disperazione). Sarà la recente morte di Beethoven (la cui eredità dei movimenti insolitamente lenti era ormai a disposizione di tutti), sarà il sentore dell'imminente morte (come commosso sottoliea più d'un biografo), sarà quel che vi pare, qui invece l'adagio c'è, è proprio molto adagio, e non passa inosservato, anzi pare persino un po' ingombrante.

E Schubert si cura di metterlo ben in luce scrivendolo, malgrado l'impianto in do, nell'insolita tonalità di mi maggiore. Accostare do e mi, due tonalità piuttosto distanti, è un po' come dire: signori, questo è un altro mondo, siamo altrove, dimenticate il passato, la vita terrena, la quotidianità, ora siamo saliti in cielo, nel più alto dei cieli, nel più terso e puro, scevro da ogni tristezza terrena. Là dove tutto si ferma.
Ex. 2
Quintetto, II tempo [miss. 1-3]
Le prime note dell'Adagio.
  Queste tre misure, rappresentative della prima parte dell'Adagio, offrono infiniti punti d'osservazione. L'organico è distribuito su tre piani differenti: sotto, un pizzicato del violoncello che tocca le corde del basso come un timpano lontano. Al centro un nucleo autonomo costituito da violino, viola e violoncello riempe lo spazio del suono di accordi tenuti, dilatati, che sembrano non finire mai. Sopra, il primo violino quasi improvvisa su una nota e su un caratteristico ritmo puntato. Schubert accosta in questo modo tre colori che nulla hanno in comune e che anzi affermano perentori la propria individualità, ottenendo uno spessore sonoro e un impasto cromatico efficacissimo.

Ma l'aspetto ancor più interessante è che il tema non è quel ritmo puntato del primo violino, ma il movimento accordale dei tre archi che nella giustapposizione delle armonie canta una melodia lentissima, rallentata a tal punto da apparire irriconoscibile. Tanto irriconoscibile che quasi tutti coloro che si sono occupati di questo Quintetto non l'hanno infatti riconosciuta, ammettendo semmai che la linea tematica principale, affidata al primo violino, appariva in effetti "molto trattenuta", se non addirittura segnata da "una certa fissità melodica". Considerazioni seguite purtroppo a ruota anche da storiche esecuzioni che hanno cercato in tutti i modi di far cantare questo primo violino, emozionandosi, vibrando, enfatizzando a più non posso un tema che di lirico aveva molto poco; e al contempo trasformando in un sottofondo armonico quello che era il vero, seppur curioso, tema portante affidato a tre archi interni.

Nell'equivoco cadde anche il primo editore del Quintetto che, peraltro con gesto encomiabile, nel 1850 pubblicò il lavoro allora ancora inedito (più di vent'anni dopo la morte di Schubert) con il numero d'opera 163 postumo. Questi, come solitamente fanno gli editori, non pose troppi scrupoli filologici e appose un espressivo fra il primo e il secondo violino (esempio 2). Non saprei dire se fosse suo intendimento riferirsi ai tre archi sottostanti o al superiore primo violino, certo è che non ebbero dubbi gli interpreti, fraintendendo in genere sempre le intenzioni di Schubert. Solo nel 1971 quando fu pubblicata la nuova edizione critica del Quintetto l'errore fu corretto (o almeno emendato di ambiguità) riferendo inequivocabilmente l'espressivo ai tre archi interni.
Ex. 3
Quintetto, II tempo [miss. 1-4]
Di nuovo l'inizio dell'Adagio secondo la nuova edizione critica pubblicata nel 1971.
  Ma non ci sarebbe stato poi bisogno di un accurato studio filologico (che ancor oggi, peraltro, molti gruppi non prendono in considerazione) per accorgersi che quel primo violino sosteneva un semplice controcanto. Sarebbe dovuto apparire evidente già osservando l'impianto costruttivo, insito nella scrittura stessa (benché innovativa); scrittura, fra l'altro, perfettamente coerente con la tradizione storica a cui in qualche modo poteva essersi rifatto Schubert. E infatti il modello compositivo di riferimento non è altri che il Gluck dell'Orfeo mediato dalla rilettura che Beethoven aveva proposto nella Sesta sinfonia – il lettore, che a questo punto immagino perplesso, freni lo stupore e mi dia agio di spiegare.

Il 5 ottobre del 1762, proprio a Vienna, fu allestita la prima rappresentazione dell'opera Orfeo ed Euridice. L'opera, come noto, per i suoi elementi innotavativi attenti alla parola non passò inosservata. Dal punto di vista squisitamente compositivo, e quindi estraneo alle esigenze teatrali, il momento che più di tutti spicca in questo fondamentale lavoro non è l'aria Che farò senza Euridice ma l'arioso che Orfeo canta nel II atto (Che puro ciel) quando sceso nell'Ade scopre incredulo i Campi Elisi pervasi di una natura incontaminata e un cielo azzurro di inattesa bellezza. L'ampia introduzione strumentale, sopraffina astrazione dei suoni della natura, è di quelle che colpiscono anche l'ascoltatore più distratto.
Ex. 4
Gluck, Orfeo ed Euridice, atto II, scena 2, n. 2 [miss. 1-2]
Le prime due misure della sezione strumentale introduttiva che precede l'arioso Che puro ciel cantato da Orfeo.
  Qui si sovrappongono quattro distinti piani: un basso percussivo affidato al pizzicato del violoncello e al continuo; una fascia armonica statica che trasforma le terzine dei violini I con le viole nel mormorio delle foglie mosse al vento; un doppio elemento naturalistico che avvicina il gruppetto dei violini II al fantasioso ribattutto del flauto in ottava col violoncello (quasi l'imitazione di sparsi cinguettii); e infine il canto dell'oboe. S'osserva che quello che sembra un tema affidato al flauto e violoncello è subito lasciato in secondo piano quando l'oboe entra vero protagonista dell'introduzione strumentale.

Non stupisce che l'elemento naturalistico così sapientemente raffigurato in questo gioco di illusioni timbriche abbia impressionato Beethoven. Certo è che quando attendeva alla scrittura del II tempo (Scena presso il ruscello) della sua Pastorale (1808) l'immaginario musicale che aveva in mente non solo era timbricamente vicino al Che puro ciel di Gluck, ma direttamente elaborato sulla memoria di quello.
Ex. 5
Beethoven, Sesta sinfonia, II tempo [miss. 1-3]
Il sommesso inizio della Scena presso il ruscello nella Pastorale bethoveniana, trait d'union fra Gluck e Schubert.
  Anche qui il pizzicato dei violoncelli scandisce il tempo che, accellerato in un Andante molto mosso, trasforma le terzine dei violini I di Gluck nei 3/8 di un tempo composto; Beethoven rilegge anche i gruppetti che diventano sedicessimi (pur lasciando il colore dei violini) e trasforma il tema del flauto (la melodia apparente di Gluck) nel ribattutto in ottavi – in questo caso l'inganno melodico è svelato solo a mis. 5 quando i violini canteranno esplicitamente la loro parte (similmente all'oboe della pagina operistica). È evidente che il ripensamento coloristico di Beethoven a quasi cinquant'anni di distanza è radicale, ma l'atmosfera e quella; e tale appare nei più recenti approcci critici del suo repertorio sinfonico, liberati da ridondanze romantiche e restituiti allo stupore innovativo originale (penso a un'esecuzione come quella di Gardiner). D'altra parte è innegabile che i rapporti siano espliciti e facilmente identificabili, soprattutto quando, nel proseguire della musica, l'orchestra s'allarga e le relazioni con Gluck (all'inizio meglio occultate) si rivelano in tutte le loro possibilità.

Proprio queste prime battute della pagina beethoveniana rivelano però il punto di contatto che congiunge Gluck a Schubert. Si coglie a colpo d'occhio come l'impianto costruttivo degli archi dell'orchestra faccia il paio con il Quintetto di Schubert: il nucleo principale rimane al centro del quintetto orchestrale e bassi e violini si rimpallano pizzicati e controcanti come farà Schubert che evidentemente ripensa – e non poco – la scrittura, ma si affida ad artifici già sperimentati per dire in realtà qualcosa di nuovo.

Le terzine di Gluck – diventate con Beethoven un ondeggiante ribattutto armonico d'ottavi – si immobilizzano in un'armonia senza incertezze, esatta, precisa: quasi che il vento (o le onde) nel cielo schubertiano non possano più essere, e la pace della natura terrena sia trasformata nella pace di un cielo imperturbabile. Quel "puro ciel" raccontato dal settecentesco Gluck, così reale e al tempo stesso immacolato, non riesce più a essere libero da timori se troppo vero, troppo terreno; forse per Schubert ciò che è qui raramente si scoprirà terso e mondo, raramente si rivelerà esente da errori.

Senza alcun dubbio quel ritmo puntato del violino I si può così ricollegare al ribattuto del flauto gluckiano. Di più la stessa ripresa, successiva alla drammatica sezione centrale dell'Adagio ripensa la scrittura flautistica del modello in un ricamo che alterna stacchi e legature e che anche in questo caso non può essere inteso come elemento portante, ma solo fioritura coloristica (la sincope in conclusione di misura, che tace proprio quando si muove il tema principale, evita in tal modo che l'orecchio sia distratto dall'elemento portante); esattamente come il pizzicato dei violoncelli si è trasformato in una successione ascendente di trentaduesimi.
Ex. 6
Quintetto, II tempo [miss. 62-66]
La ripresa della prima sezione dell'Adagio (dalla mis. 64). Il tema, affidato ai tre archi interni (vl II, vla, vc I), riprende posizione solo dal secondo attavo della misura (64).
  Possiamo così dare una risposta meno casuale all'interrogativo posto dall'insolita distribusione dell'organico. Beethoven, prendendo spunto da Gluck, ha separato dalla fila due violoncelli affinché potessero sostenere le parti dei violini II e delle viole per costituire una sorta di orchestra autonoma (vl II, vle, 2 vc) che poteva esprimersi indipendentemente; liberi di muoversi in altre direzioni rimanevano i bassi e i violini I. Schubert voleva rendere questo nucleo centrale ancora più caratteristico affidandogli un tema accordale. Si badi, non una melodia accompagnata ma piuttosto una melodia stratificata, dove non vi è un vero e proprio protagonista. Con un normale quintetto avrebbe avuto a disposizione un trio zoppo: un violino e due viole (senza cioè l'elemento grave). Sostituire la seconda viola con un altro violoncello è stata una scelta ovvia, e in più giustificata e avvalorata dall'efficace soluzione già proposta da Beethoven che aveva gestito l'orchestra con la stessa distribuzione di colori propria del Quintetto schubertiano (avere sotto mano due violoncelli è stato poi, in più punti, l'elemento utile per affidare al primo le parti cantabili più intense, ma non si può considerare tale soluzione motivo unico di una scelta così ardita).

Ma se il Puro ciel di Gluck non era così esente dai turbamenti di un Orfeo che confrontava la sua anima infelice con la serenità dell'azzuro, così altrettanto percorso da drammi taciuti si snoda il procedere dell'Adagio. E non solo in riferimento alla sua violentissima pagina centrale, ma in riferimento ad elementi caratteristici del pessimismo schubertiano che si rincorrono fin dalle prime misure.

Potrei in qesto senso porre l'attenzione sull'indugiare al IV grado, o sul trattamento mestissimo delle relazioni deboli fra tonalità in rapporto di terza, ma il rischio del tecnicismo, mi dissuade. È invece riconoscibile immediatamente – anche perché elemento tipico della scrittura di Schubert – l'improvvisa sostizione di un accordo maggiore con uno minore; procedimento ardito nella musica tonale (che mal tollera gli scambi di modo) ma che in Schubert è trattato con tale raffinatezza da rendere l'inattesa sostituzione il grido dolente e incredulo di chi scopre d'essere stato ferito da una mano amica.

Così l'ampia arcata tematica di 28 misure (per intenderci la sezione A della caratteristica forma tripartita ABA dell'Adagio) si dispone come una specie di proposta e risposta bipartita dove al lunghissimo primo tema di 14 misure segue il corrispettivo della stessa lunghezza. I due temi non sono identici (anche se le differenze sono poco appariscenti) ma cominciano nello stesso modo. Dove si distinguono? Proprio dal momento in cui l'accordo – maggiore – della seconda misura è, in contraddizione con ogni regola di armonia, trasformato in minore.
Ex. 7
Quintetto, II tempo [miss. 13-16]
Il nuovo tema (da mis. 15) si discosta dal precedente mutando l'armonia da maggiore a minore solo per l'accordo della mis. 16.
  Come si nota, la ripresa del tema (che comincia dal ppp) muta, alla misura successiva, il modo dell'accordo (ora minore), senza che alcuna modulazione abbia potuto predisporne la presenza (in effetti non è cambiata la tonalità). L'accordo, che differesci per il solo re abbassato di un semitono, appare di un altro mondo, di un mondo pieno di sofferenza, e tanto più anomalo perché precedentemente ascoltato in maggiore, come gli compete (si confronti l'esempio precedente, mis. 16, con il passo parallelo dell'esempio 3, mis. 2).

Soluzione simile, e forse più significativa perché maggiormente enfatizzata, è quella presente all'interno dello stesso primo arco tematico (le prime 14 misure di cui si diceva). Qui per due volte si attua un crescendo, melodicamente e armonicamente identico, che differisce per il solo accordo conclusivo, dove si compie la climax. L'accordo è, anche in questo caso, prima maggiore e poi tragicamente minore.

Queste grida dolorose, quasi lacerazioni che squarciano un tessuto apparentemente lindo riescono finalmente a non doversi più mimetizzare e sfogano tutta la loro tragicità nella sezione centrale (B), uno dei momenti più violenti e cupi della scrittura schubertiana.
Ex. 8
Quintetto, II tempo [miss. 29-30]
L'attacco tumultuoso della sezione centrale dell'Adagio.
  Scritto in fa minore, la tonalità tipica dei brani più tragici e disperati (un esempio solo: la sua Fantasia per pianoforte a quattro mani), esibisce ininterrotamente questi bicordi sincopati del violino II e della viola ricolmi di ansia e di paura, che il violoncello II accompagna sempre nelle zone gravi con una scrittura spigolosa e agitata, ruvida e incombente. Il canto del violino I all'ottava con l'altro violoncello è più un grido che un momento lirico.

Anche qui Schubert gioca con le attese dell'ascoltatore sostituendo d'improvviso in un processo cadenzante semplice (I-V-I) l'accordo conlusivo, con una settima che crea un cromatismo discendente alla voce superiore (inizio della mis. 48).
Ex. 9
Quintetto, II tempo [miss. 46-49]
La successione cadenzante di mis. 47 (V-I di la minore) non si conclude e forza il naturale movimento a do del si naturale del violino I facendolo ricadere sul doloroso si bemolle di mis. 48.
  Il procedimento è ulteriormente sottolineato dal diminuendo della musica e crea quella sensanzione di improvviso sconforto (cosa può provocare l'interruzione di una cadenza!) che con altrettanta sapienza aveva abilmente sfruttato Sibelius nel 1903 in un passo analogo del suo Valse triste (brano celeberrimo ma non per questo meno ricco di sollecitazioni).
Ex. 10
Sibelius, Valse triste [miss. 86-92]
Il cromatismo discendente caratteristico del valzer.
  Le poche cose dette hanno esaurito lo spazio a mia disposizione, né ho voluto parlare degli altri tre straordinari tempi del Quintetto. Ho preferito non affastellare di troppi spunti un ascolto che, di fronte a tanto capolavoro, meno è informato e più avrà modo di stupire: la verginità dell'orecchio è un valore sacro. D'altra parte – è il caso di ribadirlo? – l'orecchio dell'ascolatatore è sempre infinitamente più intelligente di qualunque 'spiegazione'.

Schubert morirà due mesi dopo la stesura definitiva del Quintetto. Non solo non riuscì mai a pubblicarlo ma, come lui stesso testimonia, non ebbe nemmeno modo di poterlo ascoltare. Stupisce rilevare che questo pezzo, nato e concluso a tavolino (Schubert non usava comporre al pianoforte) e quindi privo delle revisioni che spesso i compositori apportano dopo una prima domestica esecuzione, non tradisca punto incertezze e ri riveli così straordinariamente compiuto.